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Verso l’addio ai tamponi: dopo 5 giorni si uscirà senza esibire il test

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L’ipotesi di semplificazione della quarantena da Covid emerge dalle parole del nuovo Ministro della Salute Orazio Schillaci, sotto ‘consiglio’ dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma

Una quarantena più ‘soft’, quella che potrebbe emergere nelle prossime settimane. L’isolamento domiciliare, che comunque dovrebbe continuare a durare cinque giorni dalla scoperta della positività, potrebbe subire un’importante modifica: la possibilità di uscire, dopo i cinque giorni, senza bisogno di esibire un tampone negativo. Rimarrà comunque l’accortezza di indossare la mascherina in caso di sintomi residui. In altri termini, per la quarantena da Covid ci si comporterà quasi come una influenza con febbre, ma con qualche cautela in più. È questa in estrema sintesi l’ipotesi di ‘semplificazione’ dell’isolamento domiciliare da Sars-Cov-2, evocata proprio dal Ministro della Salute Orazio Schillaci. Ipotesi proveniente da una proposta dell’Istituto Lazzaro Spallanzani.

Al termine di un evento sulle vaccinazioni svoltosi presso la sede del Ministero della Salute, Schillaci ha rilasciato le seguenti dichiarazioni. “Stiamo lavorando anche sulla quarantena per far sì che soprattutto i pazienti asintomatici positivi possano liberarsi prima. A breve anche su questo faremo una comunicazione, eventualmente anche eliminando il tampone finale”. Tale ipotesi deriva direttamente da un parere prodotto dallo Spallanzani ed inviato al ministro Schillaci. Ma entriamo nel dettaglio.

La proposta dello Spallanzani


Cinque giorni di isolamento per gli asintomatici e cinque giorni anche per chi ha sintomi lievi se non si ha la febbre. Sempre però con l’accortezza di usare la mascherina se non ci si è negativizzati nei giorni successivi. Questo il parere che l’Istituto Spallanzani ha inviato al Ministero della Salute per le (più che possibili) nuove regole sull’isolamento per i positivi al Covid. Raccomandazioni e non imposizioni dunque, fa sapere l’istituto romano, perché questo “è il momento della responsabilità” – come recita la proposta. Nel suo parere l’Istituto sottolinea come “in molti Paesi è stato ridotto drasticamente il periodo di isolamento per le persone risultate positive. Noi – si legge – riteniamo che per gli asintomatici l’isolamento possa durare 5 giorni dalla positività, senza bisogno di un ulteriore test negativo”.  

Per quanto concerne chi ha sintomi lievi, secondo lo Spallanzani l’isolamento si può interrompere sempre dopo cinque giorni dalla comparsa dei sintomi ma solo se si è senza febbre da 24 ore”. L’Istituto però raccomanda in questo caso prudenza. “Soprattutto in questa fase – si legge – dove ci può essere sovrapposizione con l’influenza stagionale, sarebbe opportuno nei cinque giorni successivi, se non si ha un test negativo, usare prudenzialmente una mascherina, in caso di contatto con le persone fragili”. 

Il parere dello Spallanzani è ora sul tavolo del ministro Schillaci che molto presto potrebbe decidere per tale semplificazione. Il ministro conta di attendere almeno i dati di questa settimana per capire se, a fronte del leggero aumento di casi, ci siano degli effetti anche a livello ospedaliero con aumento dei ricoveri. Al momento non ci sarebbero segnali di questo genere. Non sembra inoltre preoccupare neanche la nuova sotto variante ‘Cerberus’ già presente in Italia e ormai prevalente negli Usa. Sotto variante che per fortuna non sta causando effetti significativi sulle ospedalizzazioni. 

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  1. hairpin

    26 Novembre 2022 at 9:45

    Ꮶeep tһis going please, great job!

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Covid, alla scoperta della nuova variante Eris

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Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia

Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.

Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.

Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.

“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori (numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.).  I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominante e fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio. 

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Covid-19, studio svela il segreto degli asintomatici

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Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo

Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.

I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.

Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto. 

Cicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Covid e Long Covid: dopo due anni in molti hanno ancora sintomi

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Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione

Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.

Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone. 

I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.

Clicca qui per leggere i risultati originali del lavoro pubblicati sulla rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.

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