Il ricorso alla dieta MIND o alla dieta mediterranea è utile per contrastare gli accumuli delle due proteine responsabili dell’Alzheimer
L’accumulo di due proteine, l’amiloide e la tau, è il principale responsabile dell’insorgenza della malattia di Alzheimer. Tale processo, però, può essere contrastato da un regime alimentare che preveda il ricorso alla dieta MIND o alla dieta mediterranea. Lo evidenzia uno studio pubblicato su ‘Neurology’ e diretto da un team della ‘Rush University’, di Chicago.
Lo studio è stato coordinato da Puja Agarwal, esperta nutrizionista e insegnante della Rush University. “Sebbene la nostra ricerca non possa provare che una dieta sana abbia portato a un minor numero di depositi cerebrali di placche amiloidi, che sono anche indicatori dell’Alzheimer, sappiamo che esiste una relazione tra l’alimentazione e queste placche – ha dichiarato l’esperta. Seguire la dieta MIND o la dieta mediterranea può essere un modo per migliorare la salute cerebrale. È un qualcosa di importante per proteggere la cognizione man mano che si invecchia”.
Allo studio hanno partecipato 581 soggetti con età media di 84 anni al momento della valutazione della dieta. I volontari hanno accettato di donare, una volta deceduti, il proprio cervello per aiutare la ricerca sulla demenza. Prima del decesso, al 39% dei partecipanti era stata diagnosticata la demenza. Al momento dell’analisi del cervello, il 66% dei soggetti ha soddisfatto i criteri per la malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno dunque valutato le quantità di placche amiloidi e di grovigli Tau e successivamente hanno esaminato i questionari alimentari raccolti durante il follow up.
I risultati
Dopo una serie di verifiche, gli scienziati hanno evidenziato una serie di scoperte. Innanzitutto, le persone che seguivano la dieta mediterranea mostravano una quantità media di placche e grovigli di tau nel cervello corrispondenti a circa 18 anni in meno di età rispetto agli individui che avevano ottenuto il punteggio più basso. I soggetti che avevano seguito la dieta MIND mostravano invece quantità medie di placca e grovigli di tau corrispondenti a circa 12 anni in meno di età di quelli che avevano seguito diverse alimentazioni. In generale, chi consumava maggiori quantità di verdura a foglia verde aveva quantità di placche nel cervello corrispondenti a quasi 19 anni in meno rispetto alle persone che ne mangiavano di meno.
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Uno studio statunitense ha dimostrato come un’app possa aiutare le persone che soffrono di emicrania a gestire gli attacchi e prendere decisioni sui migliori farmaci da assumere
Un’app per smartphone si dimostra efficace nel gestire gli attacchi di emicrania, offrendo una vasta gamma di opzioni di trattamento utili, soprattutto per coloro che stentano a trovare un farmaco affidabile ed efficace. In che modo riesce? A spiegarlo è un nuovo studio, basato su dati raccolti da quasi 300.000 individui condotto presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota. La ricerca ha rivelato che questa app può facilitare la presa di decisioni in merito ai farmaci. In particolare, il lavoro evidenzia che alcune categorie di farmaci, come i triptani, l’ergot e gli antiemetici, possono risultare da due a cinque volte più efficaci rispetto all’ibuprofene, un comune antidolorifico. Tutti i risultati sono pubblicati sulla rivista Neurology.
“Esistono molte opzioni di trattamento disponibili. Tuttavia, mancano confronti diretti sull’efficacia” – ha affermato l’autore principale dello studio, Chia-Chun Chiang. Durante un periodo di sei anni, i ricercatori hanno analizzato oltre 3 milioni di episodi di emicrania riportati da quasi 300.000 utenti di un’applicazione per smartphone. Questa app offre agli utenti la possibilità di tracciare la frequenza degli attacchi di emicrania, individuare i trigger, monitorare i sintomi e valutare l’efficacia dei farmaci. Nel corso della ricerca, i partecipanti hanno documentato complessivamente 4,7 milioni di tentativi di trattamento utilizzando diversi farmaci, contribuendo così a una vasta raccolta di dati significativa.
Gli effetti dei singoli farmaci
I ricercatori hanno valutato l’utilità di ciascun farmaco, utilizzando tali informazioni per calcolare l’efficacia relativa di ogni sostanza rispetto all’ibuprofene, appartenente alla famiglia degli antiinfiammatori non steroidei (FANS). Nel complesso, sono state esaminate 25 sostanze appartenenti a sette classi di farmaci, includendo diverse dosi e formulazioni. Secondo i risultati dello studio, le tre classi di farmaci più efficaci rispetto all’ibuprofene risultano essere i triptani, che si sono dimostrati cinque volte più efficaci, gli ergotici, con un’efficacia triplicata, e gli antiemetici, che hanno evidenziato un’efficacia due volte e mezzo superiore.
Nell’analisi specifica dei singoli farmaci, i tre più efficaci sono emersi come l’eletriptan, con un’efficacia sei volte superiore a quella dell’ibuprofene, lo zolmitriptan, risultato cinque volte più efficace, e il sumatriptan, anch’esso cinque volte più efficace. I ricercatori hanno notato che l’eletriptan è stato valutato come utile nel 78% dei casi, lo zolmitriptan nel 74% dei casi e il sumatriptan nel 72% dei casi. In contrasto, l’ibuprofene è risultato utile solo nel 42% dei casi, sottolineando la significativa disparità nell’efficacia tra questi farmaci.
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Un team italo-britannico ha dimostrato che l’iniezione di cellule staminali nel cervello di pazienti con sclerosi multipla progressiva è sicura, ben tollerata e ha un effetto protettivo duraturo
Un trial clinico sulla sclerosi multipla progressiva ha riportato risultati promettenti. Un team italo-britannico, infatti, ha confermato la sicurezza e la buona tollerabilità dell’iniezione di un particolare tipo di cellule staminali nel cervello dei pazienti affetti da questa forma di sclerosi multipla (SM). I risultati, pubblicati sulla rivista Cell Stem Cell, indicano inoltre un effetto duraturo che sembra proteggere il cervello da ulteriori danni. Lo studio, condotto da ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Milano Bicocca, dell’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza dell’Ente Ospedaliero Cantonale di Lugano, e dell’Università del Colorado, costituisce un significativo passo avanti nel percorso verso lo sviluppo di una terapia cellulare avanzata per la SM progressiva.
Gli scienziati hanno concluso con successo uno studio clinico di fase iniziale, focalizzato sull’iniezione di cellule staminali neurali nel cervello di 15 pazienti italiani affetti da sclerosi multipla (SM). Il team italiano, in precedenza, aveva già dimostrato la capacità di generare una fornitura praticamente illimitata di tali cellule staminali da un unico donatore. In prospettiva, potrebbe diventare fattibile derivare direttamente queste cellule dal paziente stesso, contribuendo così a risolvere le sfide pratiche associate all’utilizzo di tessuti fetali allogenici.
I risultati dopo un anno di osservazione
Il team ha monitorato attentamente i pazienti per un periodo di 12 mesi, durante il quale non sono stati registrati decessi legati al trattamento o eventi avversi gravi. Al momento dell’inizio dello studio, tutti i pazienti presentavano livelli significativi di disabilità, con la maggior parte di essi confinati su sedia a rotelle. Tuttavia, nel corso dei 12 mesi di osservazione, nessuno ha manifestato un aumento della disabilità o un peggioramento dei sintomi. Complessivamente, secondo gli studiosi, ciò indica una notevole stabilità della malattia, senza segni di progressione.
I ricercatori hanno scoperto che maggiore era la dose di cellule staminali iniettate, minore era la riduzione del volume cerebrale nel tempo. Il team ha anche cercato segni che le cellule staminali stessero avendo un effetto neuroprotettivo. “I nostri risultati sono un passo verso lo sviluppo di una terapia cellulare per trattare la SM” –dichiara Stefano Pluchino dell’Università di Cambridge.
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Il trattamento si è dimostrato in grado di migliorare le abilità motorie di un soggetto con gravi deficit motori dovuti al morbo di Parkinson
L’impianto di una neuroprotesi, seguito dalla stimolazione epidurale della colonna vertebrale, ha consentito a Marc Gauthier, un paziente francese di 62 anni affetto da Parkinson da oltre 30, di riottenere la capacità di camminare. Questo sorprendente risultato, pubblicato su Nature Medicine, è il frutto del lavoro di un team di ricercatori guidato da Grégoire Courtine dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna.
Il trattamento si è dimostrato efficace nel migliorare le abilità motorie di un individuo con gravi deficit motori causati dal morbo di Parkinson, una patologia che provoca problemi di locomozione, equilibrio e episodi di “freezing of gait“, cioè la sensazione improvvisa di non riuscire a muoversi nonostante il desiderio di farlo. La stimolazione epidurale elettrica mirata (EES) della colonna vertebrale lombosacrale rappresenta una tecnica volta a regolare l’attività dei neuroni responsabili dei movimenti locomotori.
Dettagli e risultati del trattamento
Il team guidato da Courtine ha adattato questa tecnica con l’obiettivo di ripristinare l’attivazione naturale dei neuroni delle gambe. Gauthier, soggetto dello studio, presentava gravi deficit motori nonostante i trattamenti farmacologici e la stimolazione cerebrale profonda. In preparazione all’intervento, è stata creata una mappa anatomica personalizzata delle regioni del midollo spinale da stimolare, fornendo così una guida per l’implantazione chirurgica precisa della neuroprotesi. Successivamente, i ricercatori hanno impiegato sensori wireless per rilevare le intenzioni di deambulazione, attivando l’EES al fine di stimolare i neuroni delle gambe e generare movimenti di camminata naturali.
I risultati dello studio hanno evidenziato un notevole miglioramento dei deficit motori del paziente, il quale ha riportato un sostanziale aumento della qualità della vita. Da ben due anni, il paziente utilizza con successo questa tecnologia, sperimentando soddisfazione nei risultati ottenuti. Tali conclusioni suggeriscono che la stimolazione epidurale elettrica mirata potrebbe rappresentare un’opzione terapeutica promettente per affrontare i deficit di locomozione comuni nei pazienti affetti da Parkinson.