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Gli anticorpi primitivi e il loro potenziale terapeutico

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Una review italiana, pubblicata sul ‘New England Journal of Medicine’, fa il punto sul potenziale terapeutico di queste particolari molecole

Pubblicata sulla rivista ‘New England Journal of Medicine’ una nuova e innovativa revisione sulle molecole dell’immunità innata, o se si vuole, sugli ‘anticorpi primitivi‘. A condurre il lavoro Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University. L’esperto ha collaborato inoltre con Cecilia Garlanda, responsabile del laboratorio di immunopatologia Sperimentale di Humanitas.

Il team, che negli ultimi decenni ha guidato scoperte come quella della pentrassina 3 (PTX3) ha fatto il punto sulle conoscenze su questa classe di molecole. In particolare, sottolineando le potenzialità che offrono per la diagnosi e il trattamento di infezioni, patologie autoimmuni e neurodegenerative. Le prime molecole dell’immunità innata, spiega in una nota Humanitas, furono isolate quasi un secolo fa. Oggi sono usate in clinica come indicatori diagnostici e prognostici di infiammazione. Il loro livello nel sangue, ad esempio, permette di misurare lo stato infiammatorio e di prevedere l’evoluzione della malattia.

Grazie alla ricerca condotta negli ultimi decenni, oggi sappiamo che gli anticorpi primitivi, una volta attivati dall’incontro con un patogeno, svolgono un ruolo fondamentale. Infatti, combattono l’infezione riconoscendo l’intruso, segnalandolo e ostacolandone l’azione. Tale meccanismo permette di coordinare la rigenerazione dei tessuti, perché la guerra che l’organismo scatena contro i virus, funghi o batteri, lascia di sé molti danni.

La review spiegata dall’esperto

“Abbiamo ritenuto importante mettere a fattor comune tutte le conoscenze sulle molecole della nostra prima linea di difesa a beneficio dei medici e delle future generazioni di clinici, che si trovano ad utilizzarle per diagnosi e terapie, a volte senza aver piena percezione del loro potenziale – spiega il prof. Alberto Mantovani. Le molecole dell’immunità innata sono infatti protagoniste di alcuni importanti azioni di difesa. Sia quando l’organismo è sotto attacco infiammatorio, come avviene nella sepsi o in caso di grandi traumi, ma anche di malattie neurodegenerative o autoimmuni. Usando un’immagine tratta dal contesto bellico, potremmo dire che questa classe di molecole ‘sottrae materiale al nemico’. Lo fa per indirizzare gli sforzi dell’organismo verso la produzione di mezzi di difesa pesanti e la ricostruzione di quanto è ‘sotto le macerie’ dell’infiammazione. Azioni che lasciano traccia e, se ben misurate, possono guidare l’azione dei medici”.

Le molecole solubili dell’immunità innata, la prima linea di difesa del nostro organismo, sono un ampio gruppo di molecole dall’azione complessa e diversificata. Si tratta di molecole non sempre facili da studiare per la loro natura solubile. Operano fuori e indipendentemente dalle cellule che le hanno prodotte, muovendosi nell’organismo innanzitutto attraverso il sistema sanguigno.

Molte delle molecole solubili dell’immunità innata si trovano normalmente nei tessuti. Qui svolgono la loro attività di sorveglianza passiva in attesa che si manifesti una situazione di emergenza, cioè quando l’organismo riconosce la presenza di un patogeno e/o di un danno ai tessuti. Quando ciò avviene, una cascata di messaggi chimici e cellulari permettono al segnale d’allarme di propagarsi dal tessuto dove è stata riconosciuta l’anomalia in tutto l’organismo, attivando un vero e proprio stato di allerta sistemico: la ‘Risposta di Fase Acuta’.

Le molecole solubili dell’immunità innata hanno un ruolo fondamentale in questa risposta. Esse agiscono in concerto con le cellule dell’immunità innata (macrofagi, neutrofili, cellule natural killer, ecc.).

“A differenza di queste ultime però – sottolinea ancora Mantovani – le molecole solubili dell’immunità innata sono state a lungo sottovalutate. Lungi dall’essere il mero prodotto dello stato di infiammazione che caratterizza la prima linea di difesa dell’organismo contro un’aggressione, queste molecole attivano alcune azioni di difesa. Si fissano ai microbi o alle cellule malate segnalandoli alle cellule dell’immunità o eliminandoli direttamente. O ancora, producono cambiamenti metabolici e ormonali che ostacolano l’azione dei patogeni (come la riduzione del ferro circolante, una molecola per fondamentale per “gli aggressori”). Inoltre regolano non solo lo stato di infiammazione, ma anche il processo di coagulazione e di rigenerazione. Processo che è fondamentale per ristabilire il funzionamento dei tessuti e degli organi una volta neutralizzata l’infezione”.

Uno strumento ormai consolidato

“Le molecole dell’immunità innata sono uno strumento di diagnosi clinica ormai consolidato: il loro livello nel sangue, come anche il Covid-19 ha dimostrato, permette di misurare lo stato infiammatorio e ha grande valore sia diagnostico sia prognostico per molte malattie infettive, infiammatorie o autoimmuni – prosegue la prof.ssa Cecilia Garlanda. I dati delle ricerche di questi anni ci dicono però che queste molecole possono fare molto di più. Non solo come marcatori prognostici di precisione, ma come target terapeutici ancora in larga parte poco esplorati”.

All’inizio del 2022, il gruppo di ricercatori Humanitas guidati da Cecilia Garlanda e Alberto Mantovani, in collaborazione con il team di Elisa Vicenzi dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, ha dimostrato la capacità di una di queste molecole (MBL) di legarsi alla proteina Spike di SARS-CoV-2 in tutte le sue varianti e di bloccare il virus. Non solo: i pazienti che hanno alcune versioni mutate di MBL avrebbero un maggior rischio di sviluppare le forme gravi di Covid-19.

“Se è vero che l’azione dell’immunità innata è meno specifica di quella messa in campo dall’immunità adattiva – la seconda linea di difesa dell’organismo, costruita su misura per la minaccia da affrontare e di cui fanno parte gli anticorpi – oggi sappiamo che le molecole solubili dell’immunità innata agiscono come dei veri e propri ‘anticorpi primitivi’ – concludono i due scienziati. Non a caso diversi studi clinici preliminari stanno testando l’efficacia di queste molecole come potenziali terapie di supporto per malattie infettive, infiammatorie, autoimmuni e neurodegenerative.

Fonte: https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMra2206346

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anticorpi primitivi

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Nasce nuovo strumento per la somministrazione di farmaci

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L’invenzione consiste in un vaporizzatore che consente di trasformare in pochi secondi qualsiasi molecola farmacologicamente attiva dalla fase liquida a uno stato di gas

Nasce un nuovo strumento per veicolare i farmaci attraverso la nebulizzazione. Un nuovo studio internazionale descrive l’impiego di un innovativo vaporizzatore che è stato testato sull’uomo per la somministrazione di farmaci. Si tratta di un’invenzione che consente di trasformare in poche decine di secondi qualsiasi molecola farmacologicamente attiva dalla fase liquida a uno stato di gas, aprendo la strada a nuove possibilità terapeutiche per patologie respiratorie, cerebrali, cutanee, immunologiche e oncologiche. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘Heliyon’ (Cell Press).

L’inventore del nuovo strumento è il fisico Bruno Brandimarte. “Per molti anni ho insegnato Biofisica applicata alla medicina – spiega l’inventore. Molti colleghi mi ponevano la seguente domanda: ‘come possiamo fare per raggiungere con i farmaci le zone profonde dell’apparato respiratorio, considerando che gli attuali aerosol si fermano ai bronchi?’ Grazie alle mie conoscenze di anatomia ultrastrutturale e di fisica molecolare, trovai l’equazione che lega la dimensione delle gocce del vapore alla frequenza vibratoria che poteva generarle. Da qui, nasce il vaporizzatore” – ha spiegato Brandimarte.

Perché è così importante il nuovo strumento

Lo studio pubblicato ha certificato l’efficacia di questa innovativa via terapeutica. Grazie ad essa, inoltre, si verifica una riduzione drastica dei dosaggi necessari, e dunque una minore tossicità e una maggiore velocità di azione. Il nuovo apparecchio, chiamato Vaporizzatore Molecolare (VM) potrà essere utilizzato nel prossimi futuro per la cura di polmoniti, sinusiti, Parkinson. Ma anche tumori e malattie infettive (Covid incluso) tramite la somministrazione di vaccini e terapie con anticorpi monoclonali secondo schemi posologici del tutto innovativi per via del basso impatto sul paziente. La versatilità di impiego del VM consente di ‘colpire’ in modo mirato target specifici effettuando una medicina di precisione. Di conseguenza implica una vantaggiosa riduzione della concentrazione minima efficace rispetto alle somministrazioni per via sistemica disponibili oggi (orale, intramuscolare, endovenosa).

Vediamo le principali caratteristiche del nuovo strumento.
1) Innanzitutto, un tempo di vaporizzazione di poche decine di secondi, molto utile per la terapia inalatoria nei bambini.
2) La dimensione delle micro-gocce che costituiscono il vapore sono di circa 0,2/0,3 micron; tanto piccole che il vapore si comporta da gas.
3)In terzo luogo, l’assenza di condensazione: tale caratteristica, completamente assente negli aerosol, consente di raggiungere le zone profonde dell’apparato respiratorio (alveoli polmonari). L’assenza di condensazione è fondamentale anche per lo sviluppo di un innovativo sistema di umidificazione di soggetti intubati.
4)Infine, l’erogazione a ‘pressione positiva’, fondamentale per impiego in neonatologia e pediatria, su pazienti molto piccoli che non sono in grado di controllare volontariamente l’inspirazione.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Leucemia, scoperte cellule staminali che ostacolano le terapie

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Un recente studio ha individuato una rara popolazione di cellule staminali leucemiche. I risultati sono pubblicati sulla rivista ‘Nature Communications’

Individuata per la prima volta una rara popolazione di cellule staminali leucemiche che, nei pazienti con leucemia mieloide acuta (Lma), influenzano la mancata risposta alla chemioterapia, causando così ricadute di malattia. Il dato emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’Irccs ‘San Raffaele’ di Milano e pubblicato su ‘Nature Communications’. Il lavoro chiarisce i diversi effetti della chemioterapia su cellule di pazienti con Lma.

Gli autori del lavoro hanno utilizzato innovative tecniche di sequenziamento dell’Rna e di nuovi approcci bioinformatici. Studiando nel dettaglio le cellule tumorali di pazienti e di modelli animali durante la prima somministrazione di chemioterapia gli scienziati hanno scoperto questa rara popolazione di cellule staminali leucemiche. Successivamente hanno sviluppato una firma molecolare, composta da un pannello di geni utile per caratterizzare queste rare cellule staminali leucemiche già al momento della diagnosi, al fine di individuarle tempestivamente per offrire terapie alternative e migliorare la personalizzazione del trattamento.

La leucemia mieloide acuta è una patologia aggressiva che colpisce con maggiore probabilità persone sopra i 60 anni. In realtà può però insorgere anche nei bambini e persone più giovani, cosa cmq rara. Le cure attuali possono portare la malattia a remissione, ma una considerevole percentuale di pazienti adulti presenta una ricaduta dopo il trattamento standard. Dati recenti suggerivano che la ricaduta spesso avesse origine da cellule già presenti alla diagnosi, difficili da distinguere dalla massa leucemia. Inoltre, il meccanismo utilizzato da tali cellule non era noto.

Il commento degli autori

“Siamo partiti dai campioni clinici seriali di 13 pazienti con Lma, conservati nella Biobanca dell’ospedale San Raffaele – riferisce il coordinatore dello studio, Matteo Naldini. Li abbiamo analizzati con una tecnologia innovativa, chiamata sequenziamento dell’Rna a livello di singole cellule (scRNAseq) che ha permesso di ottenere i livelli di espressione di migliaia di geni per ogni singola cellula (il loro trascrottoma)”. Lo sviluppo di nuovi approcci bioinformatici ha consentito di identificare in modo specifico i trascrittomi associati alle cellule leucemiche, distinguendole così dalle cellule ematiche normali. Tale distinzione, non può essere effettuata in maniera affidabile dalla tecnologia standard.

“Per la prima volta abbiamo descritto in modo molto approfondito gli effetti della chemioterapia sulle cellule leucemiche che erano altamente eterogenee – ha aggiunto Bernhard Gentner, tra i firmatari dello studioAlcune delle cellule leucemiche morivano, altre proliferavano e altre ancora ricadevano in un profondo stato di quiescenza. Identificare questa rara popolazione di cellule è stato come trovare un ago in un pagliaio. Ciò non sarebbe stato possibile con le tecniche standard che rilevano solo la ‘risposta media’ dell’intera popolazione leucemica”.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio. 

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Ipertensione polmonare: ecco come ridurre la progressione

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L’inibizione del gene Atic, essenziale nella formazione del DNA, potrebbe bloccare la proliferazione cellulare distruttiva e la progressione dell’ipertensione polmonare

Inibire il gene Atic per ridurre in maniera significativa la progressione dell’ipertensione polmonare. Il gene Atic è coinvolto nella produzione delle basi puriniche (costituenti dei nucleotidi) e la sua inibizione potrebbe ‘spegnere’ la proliferazione cellulare distruttiva e dunque ridurre la progressione dell’ipertensione polmonare. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un gruppo di ricercatori del Medical College of Georgia, presso l’Università di Augusta (Usa). I risultati del lavoro sono pubblicati sull’European Heart Journal’. 

L’ipertensione polmonare è definita come un aumento di pressione nelle arterie dei polmoni, con valori medi a riposo superiori a 20 mmHg. Tale patologia si ripercuote inevitabilmente sul cuore, portando ad un sovraccarico di lavoro per il ventricolo destro che dovrà pompare il sangue contro una resistenza molto aumentata ed andrà col tempo a scompensarsi. Non è ancora chiaro in che modo le cellule gestiscano questa crescita insolita e in quale fase della patologia le terapie siano più efficaci.

Da precedenti studi è emerso che nella proliferazione cellulare è implicato il DNA, con l’RNA e le proteine che producono. Un elemento chiave in questo processo è la purina, e, nella sua produzione il gene Atic svolge un ruolo chiave. Lo studio del team USA ha evidenziato, in un modello animale, che eliminando tale gene, sia dalla muscolatura vascolare che dall’organismo, si riducono lo sviluppo e la progressione dell’ipertensione polmonare. Serviranno ovviamente nuovi studi per confermare tale scoperta, ma di certo le previsioni sono più che positive. Si tratterebbe di una vera e propria svolta terapeutica nella cura di questa patologia. 

Per maggiori informazioni clicca qui e leggi i risultati originali dello studio.

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