Per anni si è ipotizzato che le persone con autismo fossero insofferenti al dolore. Un recente studio dimostra che in realtà è esattamente il contrario
Non sono insofferenti al dolore come si è ipotizzato per molto tempo. In realtà, le persone con autismo provano il dolore anche in maniera più forte e intensa rispetto agli altri. A fare chiarezza su questo tema a lungo equivocato è uno studio condotto dall’Università di Tel Aviv, in collaborazione con il Technion – Rambam Medical Center e l’Università di Haifa. I risultati, che sono visibili sulla rivista ‘Pain’, suggeriscono la necessità di modificare il modo in cui viene gestito il dolore degli autistici. Per questo gli operatori sanitari e i familiari stessi non devono sottovalutare i segni di sofferenza, ma anzi, dovrebbero intervenire con trattamenti appropriati.
Lo studio ha incluso 52 adulti con autismo ad alto funzionamento (HFA) e con intelligenza ‘normale’. Per valutare il dolore i ricercatori si sono avvalsi di test psicofisici che esaminano il legame tra stimolo e risposta. Contemporaneamente gli studiosi, utilizzando un computer, hanno controllato la durata e l’intensità dello stimolo. Successivamente è stato chiesto ad ogni esaminato di classificare l’intensità del dolore avvertito su una scala da 0 a 100. Ebbene, i risultati hanno dimostrato che le persone con autismo soffrono di più. Inoltre, il loro meccanismo di sospensione del dolore è meno efficace rispetto agli altri.
Le dichiarazioni dei ricercatori
“Abbiamo condotto una serie di misurazioni – spiegano i ricercatori – finalizzate tra l’altro a esaminare se l’ipersensibilità al dolore deriva da un sistema nervoso ‘sensibilizzato’ o dalla soppressione di meccanismi che dovrebbero consentire l’adattamento e, nel tempo, ridurre la risposta allo stimolo. Abbiamo scoperto che nel caso di persone con autismo, si tratta di una combinazione. Ovvero, un aumento del segnale del dolore insieme a un meccanismo di inibizione del dolore meno efficace”.
Tami Bar-Shalita, co-autore della ricerca, ha commentato così il lavoro svolto dal team. “Il nostro – spiega l’esperto – è uno studio completo e approfondito sull’intensità del dolore sperimentato dalle persone con autismo. La convinzione prevalente era che fossero presumibilmente indifferenti al dolore. Di conseguenza medici e personale sanitario li hanno sempre trattati in modo errato per via di questa convinzione. I risultati del nostro studio indicano che nella maggior parte dei casi la sensibilità al dolore delle persone con autismo è in realtà superiore a quella maggior parte della popolazione. Allo stesso tempo queste persone non riescono a sopprimere efficacemente gli stimoli dolorosi. Ci auguriamo che le nostre scoperte vadano a beneficio dei professionisti e degli operatori che gestiscono questa popolazione e contribuiscano al progresso del trattamento personalizzato”.
Uno studio dei National Institutes of Health USA mostra l’importanza di una corretta idratazione, vero e proprio segreto per rimanere in salute
Una buona idratazione è il giusto segreto per invecchiare bene; permette infatti di rimanere in salute oltre a ridurre il rischio di morte precoce. A confermare questa tesi è uno studio dei National Institutes of Health USA, pubblicato su eBioMedicine di Lancet. Il lavoro mostra infatti che coloro i quali, da adulti, non si idratano a sufficienza rischiano maggiormente l’insorgenza di diverse malattie. Ma entriamo nel dettaglio.
Circa la metà delle persone nel mondo non rispetta le raccomandazioni per l’assunzione giornaliera di acqua totale, che parte da 6 bicchieri (1,5 litri). Utilizzando i dati sanitari raccolti da 11.255 adulti in un periodo di 30 anni, i ricercatori hanno analizzato i legami tra i livelli di sodio nel sangue, (i quali aumentano quando l’assunzione di liquidi diminuisce) e i vari indicatori di salute. Attraverso questo dati hanno quindi scoperto che le persone adulte con alti livelli di sodio presentavano maggiori probabilità sia di sviluppare condizioni croniche sia di mostrare segni tangibili di invecchiamento avanzato rispetto a coloro con livelli di sodio nella fascia media.
Il procedimento del lavoro
Per arrivare alle citate scoperte, gli esperti hanno valutato la correlazione tra i livelli di sodio e l’invecchiamento biologico, valutato attraverso 15 marcatori di salute; tra questi, fattori come la pressione del sangue, il colesterolo e la glicemia, utili nel fornire indicazioni sul funzionamento del sistema cardiovascolare, respiratorio, metabolico, renale e immunitario di ogni persona. Da qui, hanno scoperto che i partecipanti con livelli maggiori di sodio mostravano segni di invecchiamento biologico più rapidi. Inoltre, avevano un rischio dal 15 al 50% più alto di presentare un’età biologica superiore a quella anagrafica.
Ma non finisce qui. Le persone con elevati livelli di sodio presentavano un aumento del 21% del rischio morte prematura. O ancora, avevano un rischio fino al 64% maggiore di sviluppare malattie croniche come insufficienza cardiaca, ictus, fibrillazione atriale e le malattie delle arterie periferiche, oltre a malattie polmonari croniche, diabete e demenza. Al contrario, gli adulti con livelli più bassi di sodio nel sangue avevano il rischio più basso di malattie croniche.”I risultati suggeriscono che una corretta idratazione può rallentare l’invecchiamento e prolungare la vita senza malattie” – ha dichiarato l’autrice del lavoro, Natalia Dmitrieva.
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Gli studi scientifici convergono tutti su un unico punto: nei giorni pre e post Natale i fenomeni cardiovascolari aumentano vertiginosamente
Il periodo natalizio è noto per essere caratterizzato da giorni di festa e celebrazioni. Giorni dove si mangia molto e, perché no, ci si concede anche un bicchiere di più rispetto al solito. In realtà però, bisogna fare molta attenzione durante quei giorni, soprattutto al proprio cuore. Numerosi studi scientifici, infatti, convergono tutti su un unico punto: nei giorni tra Natale e Capodanno, ma anche fino all’epifania, i fenomeni cardiovascolari aumentano vertiginosamente, sia in chi soffre di patologie cardiache sia in chi non sa di essere a rischio.
In particolare, la notte di Natale risulta essere il momento più ‘pericoloso’, seguito a ruota dal 26 dicembre e dal 1 gennaio. In generale, secondo l’American Hearth Association, nella settimana dal 24 Dicembre al 1 Gennaio si verifica il numero più alto di decessi per attacco cardiaco rispetto a qualsiasi altra settimana dell’anno. O ancora, secondo uno studio condotto dall’Istituto Karolinska di Stoccolma durante la Vigilia di Natale il rischio di attacchi cardiaci aumenta del 37%; il 25 dicembre del 29% e la notte di Capodanno il 20%. L’incremento è ovviamente dovuto a diversi fattori che caratterizzano il periodo delle festività: pasti troppo abbondanti, consumo di alcol, sbalzi di temperatura e stress emotivo. Da qui l’invito dei cardiologi a non abbassare la guardia e a prestare attenzione ai segnali critici.
Le parole dell’esperto
Il presidente dellaSocietà Italiana di Cardiologia (SIC), Pasquale Perrone Filardi, ha spiegato i motivi degli aumentati rischi cardiovascolari, come riportato da Sanità Informazione. “Nei giorni di festa si tende in generale a rilassarsi. Questo vale anche rispetto all’attenzione per le proprie condizioni di salute. Un pasto troppo abbondante e pensate, in una persona che soffre di problemi cardiologici, può costituire uno sforzo eccessivo per l’organismo e per il cuore”.
“Un altro aspettoriguarda le condizioni atmosferiche: un’esposizione al freddo intenso dopo un pasto abbondante consumato in un ambiente riscaldato può determinare un’alterazione a livello coronarico. Attenzione all’alcol, soprattutto alle bollicine: i vini molti frizzanti, se assunti in quantità eccessive, possono innescare aritmie cardiache e fibrillazione atriale. Altro fattore importante – prosegue Perrone Filardi – sono le emozioni: queste durante le festività tendono ad essere più intense, nel bene e nel male. E purtroppo, anche quando si tratta di emozioni positive, l’impatto sul sistema cardiaco può essere critico”.
L’influenza ‘australiana’ ha messo KO moltissimi italiani ed ha contraddistinto il Natale 2022. Tra i sintomi principali, stanchezza, brividi e dolore alle ossa
Stanchezza, brividi, dolore alle ossa e ai muscoli. Poi anche febbre brusca, tosse, mal di gola, raffreddore, congiuntivite e mal di testa. Sono questi i principali sintomi dell‘influenza “australiana”, il virus che sta mettendo KO moltissimi italiani. Tra l’altro, secondo le previsioni degli esperti, il picco nel nostro paese sarà raggiunto proprio in questi giorni.
“L’influenza – si legge su Epicentro dell’Istituto superiore di sanità (Iss) – è contraddistinta da un repentino manifestarsi di sintomi generali e respiratori, dopo un’incubazione abbastanza breve (circa 1-2 giorni). I sintomi durano solitamente per 3-4 giorni, potendo tuttavia prolungarsi anche per una/due settimane in alcuni casi. La maggior parte delle persone guarisce entro una settimana senza che siano necessarie cure mediche e nei soggetti sani è raro che insorgano complicazioni”. Particolare attenzione va riservata, quindi, alle categorie fragili: donne in gravidanza, anziani, bambini fra i 6 mesi e i 5 anni. Ma anche e sopratutto pazienti con malattie croniche o sottoposti a terapie che indeboliscono il sistema immunitario.
Per i soggetti fragili è bene andare dal medico in caso di influenza
“Le persone in forma e sane – spiega Epicentro – di solito non hanno necessità di consultare un medico nel caso in cui contraggano l’influenza o abbiano sintomi simil-influenzali. Il miglior rimedio è il riposo a casa, stare al caldo e bere molta acqua per evitare la disidratazione. Si può assumere se necessario, paracetamolo o ibuprofene per abbassare la temperatura se la febbre è elevata e alleviare i dolori”. L’Iss consiglia invdce ai soggetti fragili di prendere in considerazione una visita dal medico di famiglia.
Farmaci antivirali solo in casi particolari
Esistono due classi di farmaci antivirali impiegabili nell’influenza: gli inibitori della neuraminidasi (oseltamivir -Tamiflu e zanamivir – Relenza) e gli inibitori della proteina virale M2 (amantadina e rimantadina). L’impiego degli antivirali è stato oggetto di un vivace dibattito e, attualmente, le indicazioni espresse dalle linee guida dell’Oms e dell’Ecdc concordano nel limitarlo a casi selezionati. “L’uso di routine – si legge su Epicentro – non è appropriato, data l’irrilevanza degli esiti (riduzione statisticamente significativa ma non clinicamente significativa del decorso: diminuzione di circa un giorno della febbre negli adulti e di circa mezza giornata nei bambini), a fronte della possibilità di eventi avversi (nausea, vomito, disturbi neuropsichiatrici, alterazioni della funzione renale), oltre che di fenomeni di resistenza. In ogni modo devono essere somministrati precocemente (al massimo entro 48 dall’insorgenza dei sintomi)”.