È fondamentale diffondere cultura sulla sepsi, patologia purtroppo sempre più diffusa in Italia e nel mondo. Ne abbiamo parlato con alcuni esperti del settore
La sepsi o setticemia è una sindrome clinica caratterizzata da un’abnorme Risposta Infiammatoria Sistemica (SIRS), messa in atto dall’organismo in seguito al passaggio nel sangue di microrganismi patogeni provenienti da un focolaio sepsigeno. Se manca la componente flogistica non si parla più di sepsi, ma di “semplice” batteriemia (presenza di batteri nel sangue dimostrata da almeno un’emocoltura positiva). La sepsi è una condizione potenzialmente molto grave, che passa attraverso stadi di gravità crescente e come tale necessita di un immediato trattamento medico.
BDsi distingue come una delle aziende più impegnate e appassionate nella lotta contro la sepsi, dimostrando una dedizione costante nell’innovazione e nello sviluppo di soluzioni avanzate per migliorare l’individuazione diagnostica e il trattamento di questa grave condizione medica. Abbiamo dunque approfondito l’argomento con alcuni esperti del settore: il Dott. Salvatore Distefano – TLSB Direzione Medica AOUP “P.Giaccone” di Palermo, la Dott.ssa Carla Caio – Customer Solution Expert BD e l’Ing. Andrea Brivio – Marketing Manager BD.
L’intervista si è svolta in concomitanza con la Giornata Mondiale per la lotta contro la sepsi del 13 settembre, durante un evento organizzato presso l’AOU Policlinico “P. Giaccone” di Palermo. La comunità professionale dell’AOU Policlinico “P. Giaccone” ha voluto vivere questa giornata attraverso un momento formativo mirato a sensibilizzare sull’importanza di migliorare la prevenzione, il riconoscimento precoce, nonché la gestione di questa grave condizione clinica.
In questa video-intervista il Prof. Michele Conversano, Direttore del Dipartimento di Prevenzione della ASL di Taranto, spiega i fattori chiave che permettono la buona riuscita di una campagna vaccinale antinfluenzale
Insieme alle misure di igiene e di protezione individuale, la vaccinazione è lo strumento più efficace e sicuro per prevenire l’influenza stagionale. Affinché sia ben conosciuta e comunicata l’importanza del vaccino antinfluenzale, c’è però bisogno che venga messa in atto una corretta campagna antinfluenzale. Per saperne di più e per comprendere quindi i meccanismi e le strategie che portano alla formazione di una buona campagna vaccinale, Italian Medical News ha deciso di intervistare un esperto in materia: il Prof. Michele Conversano, Direttore del Dipartimento di Prevenzione della ASL di Taranto.
Ecco un piccolo estratto. “L’esperienza Covid ci ha insegnato che non esiste il monopolio a carico di qualcuno. Non esiste una vaccinazione di successo se effettuata esclusivamente dai centri vaccinali, o solo dai medici di base, o solo dagli specialisti e così via. Bisogna coinvolgere tutti. In primis il coordinamento deve essere a carico del Dipartimento di Prevenzione, la struttura del SSN responsabile del raggiungimento degli obiettivi di copertura vaccinale previsti dal Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale. Bisogna poi coinvolgere una serie di figure:, gli stessi centri vaccinali, i medici di medicina generale, i medici specialisti ed anche i farmacisti pubblici Questo perché, nonostante il grandissimo contributo delle figure appena indicate, non si è mai raggiunto l’obiettivo minimo di copertura vaccinale, ovvero il 75% degli anziani. Obiettivo tra l’altro indicato sia dall’Oms sia dai Piani nazionali”.
Guarda la video-intervista completa!
L’intervista è stata elaborata con il contributo non condizionato di
Interessante intervista al Prof. Luigi Marano, Chirurgo Oncologo presso l’Azienda Ospedaliera-Universitaria Senese e Professore Associato presso l’Università degli Studi di Siena
La chirurgia oncologica è quella branca della medicina che si occupa della terapia chirurgica del cancro attraverso la rimozione dello stesso dall’organismo del paziente. Quando si rimuove un cancro è possibile anche eliminare parte del tessuto circostante che può contenere cellule cancerose avendo l’obiettivo di essere quanto più radicali possibile. L’operazione è effettuata da parte di un chirurgo specializzato.
Per saperne di più, la redazione di Italian Medical News ha deciso di intervistare un esperto in materia, il Prof. Luigi Marano, Chirurgo Oncologo presso l’Azienda Ospedaliera-Universitaria Senese e Professore Associato presso l’Università degli Studi di Siena. Di recente, la prestigiosa rivista internazionale ‘World Journal of Gastrointestinal Oncology’ ha premiato il Prof. Marano dedicando al chirurgo oncologo la copertina del volume uscito lo scorso 9 settembre. Sono state, in particolare, le attività di ricerca scientifica, il trattamento chirurgico delle neoplasie addominali e l’applicazione delle nuove tecnologie mininvasive, laparoscopiche e robotiche a destare l’attenzione della rivista. Abbiamo dunque posto una serie di domande all’esperto.
L’unicità della chirurgia oncologica
Professore, quale spazio oggi ha la chirurgia oncologica nel migliorare la prognosi di vita sui tumori?
“La chirurgia oncologica ha da sempre svolto un ruolo importante nell’ambito del processo di trattamento del paziente oncologico. Ma, soprattutto negli ultimi decenni, ha fornito un importantissimo contributo, poiché si è passati da un concetto di chirurgia generale ad un concetto di super-specializzazione: quello, appunto, di chirurgia oncologica. In realtà oggi nell’ordinamento accademico questa specializzazione non esiste“.
“Questo è un grosso problema, emerso dai numerosi e recenti incontri scientifici promossi dalle più importanti società, internazionali e nazionali, di chirurgia oncologica, le quali hanno definito la necessità urgente di introdurre il cosiddetto ‘core curriculum’, ovvero un curriculum definito che ogni chirurgo oncologo dovrebbe ottenere per poter poi confrontarsi con il trattamento di queste patologie. Perché, quello che differisce tra un chirurgo generale e un chirurgo oncologo è il fatto che quest’ultimo opera in una dinamica e una situazione specifica che è quello di un processo di trattamento di un paziente con neoplasia maligna. Ha dunque una sua specificità e unicità“.
“Un ruolo sicuramente di prim’ordine ma allo stesso tempo anche gravoso”
“Dunque, il chirurgo oncologo non è un chirurgogenerale. È un chirurgo ben qualificato che ha un training addizionale e un esperienza nel trattamento multidisciplinare nell’ambito della prevenzione, diagnosi, trattamento e riabilitazione del paziente oncologico. È uno specialista che spende la maggior parte della sua carriera professionale alla pratica clinica, alla pratica di queste attività e soprattutto anche alla ricerca sul cancro. Ecco quale è il ruolo della chirurgia oncologica nella prognosi dei pazienti con cancro”.
“Un ruolo sicuramente di prim’ordine ma allo stesso tempo anche gravoso da un punto di vista della gestione del paziente oncologico. Questo perché parliamo di un paziente estremamente preoccupato per la sua salute e che ha un bisogno di salute assolutamente peculiare. Non bisogna inoltre dimenticare che non sempre ci confrontiamo con pazienti avanti con l’età, ma anche con soggetti giovani. Ecco che dunque il chirurgo oncologo è sicuramente un punto di riferimento e una figura che spesso e volentieri va ben oltre il mero rapporto professionale”.
L’importanza della multidisciplinarietà
Quali sono i fattori che indirizzano il paziente a prendere una scelta rispetto ad un’altra ?
“Come detto anche in precedenza, la chirurgia oncologica si contraddistingue per la sua vocazione multidisciplinare. Tra l’altro una vocazione, di recente, anche recepita dalla politica sanitaria: basti pensare all’istituzione dei cosiddetti ‘gruppi oncologici multidisciplinari’ per fare un esempio, ma se ne potrebbero fare tanti altri. Parliamo di istituzioni, di realtà vere, che coinvolgono molte figure professionali. Premesso ciò, sicuramente la prerogativa che un paziente esige e deve esigere da un chirurgo oncologo (e dalla chirurgia oncologica) è l’alta professionalità. Alta professionalità intesa come recepimento delle richieste e dei bisogni del paziente e nel fornire risposte concrete allo stesso. Risposte che si possano tradurre in termini di aumento di sopravvivenza e in termini di qualità di vita“.
“Quindi, come fa il paziente a scegliere tra questo o quell’altro punto di trattamento? Bene, non esiste ancora una risposta chiara ed univoca. Posso però dire che siamo in un’epoca in cui si inizia a parlare di ‘textbook outcome’, ovvero una sorta di libretto che contiene dei punti da definire che in qualche modo esprimono la qualità di un preciso approccio di chirurgia oncologica in un determinato ospedale. Parliamo di uno strumento che sicuramente sarà ben definito e organizzato dai chirurghi oncologi italiani affinché diventi in futuro un punto di riferimento per i pazienti nella scelta di centri di chirurgia oncologica altamente qualificati”.
Il concetto di fragilità
Cosa può dirci riguardo la tendenza a considerare l’età come una controindicazione rispetto agli interventi di chirurgia oncologica?
“Questa è sicuramente una domanda difficile a cui rispondere. Ha già risposto aquesta domanda nel lontano 1993 un grandissimo scienziato: Michael Lubin. Il grandissimo esperto rispose al suddetto quesito dicendo: ‘si e no’. L’età cronologica non deve essere considerata un fattore di rischio per la chirurgia in generale e per la chirurgia oncologica in particolare. Tanto è vero che ultimamente stiamo abbandonando il concetto di età cronologica avvicinandoci sempre più al concetto di fragilità. La fragilità in chirurgia oncologica è uno stato molto complesso, caratterizzato da una riduzione di riserve funzionali e multidimensionali. Riduzione che determina un abbassamento della resilienza del paziente e un calo delle capacità adattative. A ciò si accompagna anche un aumentato stato di vulnerabilità in relazione a fattori stressanti, tra cui appunto la chirurgia”.
“Quindi l’obiettivo del chirurgo oncologo è identificare, prima dell’intervento, lo stato di fragilità del paziente che è, e deve essere, indipendente dall’età cronologica dello stesso. Possiamo avere un paziente quarantenne che è fragile ed uno novantenne che non lo è. Dunque, il nostro punto di riferimento non è più l’età cronologica ma lo status di fragilità. A tal proposito un nuovo concetto che sta sempre più entrando nel gergo sanitario, specie in quello dell’oncologia, è il temine ‘pre-abilitazione’. La pre-abilitazione è il contrapposto alla riabilitazione: con questo termine si intendono attività come aumento dell’esercizio fisico, sospensione del fumo di sigarette, preparazione nutrizionale etc.. . Tutti fattori che devono essere intrapresi prima dell’intervento chirurgico per preparare il paziente. Poi, dopo l’intervento c’è la fase di riabilitazione. La pre-abilitazione rappresenta un’evoluzione della chirurgia oncologica“.
La Dott.ssa Laura Campisi, tra le figure di spicco del team di esperti del ‘Mount Sinai Hospital’ di New York che ha elaborato l’innovativa ricerca, spiega la genesi, l’evoluzione e la conclusione dello studio
Di recente, alcuni ricercatori del ‘Mount Sinai Hospital’ di New York hanno pubblicato un innovativo studio che potrebbe avere risvolti decisivi nella diagnosi e nel trattamento della sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Più precisamente, il tema principale del lavoro ha riguardato un collegamento tra la SLA e il sistema immunitario. Una ricerca che, se confermata in futuro, potrebbe seriamente rappresentare una svolta nella cura di questa malattia. Tra i ricercatori, figura la Dott.ssa Laura Campisi, assistente professore di microbiologia presso la ‘Icahn School of Medicine at Mount Sinai’. Italian Medical News l’ha intervistata, ponendo una serie di domande relative a questa possibile grande scoperta.
Dottoressa, può dirci in che modo è nato lo studio? Qual è stato il background?
“Si tratta di uno studio nato qualche anno fa. Il team scientifico diretto da Ivan Marazzi, che insieme a me ha condotto la ricerca, aveva già osservato che la proteina senatassinapuò controllare l’espressione dei geni del sistema immunitario. La cosa interessante è che questa proteina è mutata nella SLA di tipo 4. Da questo importante dato è nata l’idea di capire se ci fosse un collegamento tra una possibile disfunzione del sistema immunitario e la malattia”.
Le prime analisi sui topi
Come è proseguito successivamente lo studio? Come si è evoluto?
“Innanzitutto c’è da fare una premessa: ovvero che ci ha aiutato molto un modello murino che esprime esattamente la stessa mutazione dei pazienti. Questo anche perché la proteina senatassina è molto ben conservata tra topi e esseri umani. Sulla base di ciò, ci siamo mossi seguendo due direzioni: da un lato abbiamo analizzato il sistema immunitario dei topi costantemente, nel tempo; dall’altro lato abbiamo effettuato esperimenti che ci hanno permesso di renderci conto che solo quei topi che esprimevano la mutazione sia nel sistema immunitario, sia nel sistema nervoso centrale, sviluppavano la perdita delle capacità motorie. Mentre invece i topi che esprimevano questa mutazione solo in uno dei due sistemi(immunitario o nervoso centrale [N.d.R.]) non presentavano sintomi. Ciò ci ha fatto pensare che dunque non si trattava solo di un problema del sistema nervoso centrale, ma in qualche modo aveva un ruolo anche il sistema immunitario”.
“Successivamente ci siamo resi conto che sia nei topi che nei pazienti erano presenti delle anomalie nel sistema linfocitario. Più precisamente c’era un’ alta concentrazione di una specifica sotto popolazione di cellule ‘linfociti T’ nel sangue periferico e nel sistema nervoso centrale dei topi e soprattutto l’aumento di queste cellule correlava perfettamente con la progressione della malattia. Inoltre, le stesse cellule erano ben presenti anche nel sangue periferico e nel sistema nervoso centrale dei pazienti con SLA di tipo 4”.
La possibile correlazione tra le cellule ‘TEMRA’ e la SLA di tipo 4
Dottoressa, all’interno dello studio, si legge di una correlazione tra le cosiddette cellule ‘TEMRA’ e la SLA di tipo 4. Cosa può dirci in merito?
“Si tratta di cellule altamente differenziate. Infatti ‘TEMRA’ in italiano si traduce nel seguente modo: ‘cellule di memoria terminalmente differenziate’. Ciò che è interessante è che queste cellule si espandono principalmente quando è presente una persistenza di un antigene.Nei topi la situazione è chiara, poiché abbiamo potuto constatare che queste cellule cominciano ad espandersi subito prima che emerga la perdita delle capacità motorie. Più, poi, la malattia progredisce più si espandono”.
“C’è dunque nei topi, una netta correlazione tra queste cellule e la progressione della malattia. Nei pazienti è più complicato analizzare questo tipo di processo perché risulta difficile effettuare uno studio in cui si seguono i pazienti in diversi stadi nella malattia. La possibilità che anche negli umani ci sia la correlazione tra le cellule ‘TEMRA’ e la progressione della patologia esiste comunque. Ovviamente siamo veramente molto interessati a studiare questa eventuale relazione in futuro. Naturalmente ci vorrà del tempo”.
La conclusione dello studio
La conclusione dello studio è dunque il possibile coinvolgimento del sistema immunitario nella diagnosi e nel trattamento della SLA. Se ciò dovesse essere confermato in studi futuri, quali implicazioni potrebbero esserci? Si tratta di una vera e propria svolta nella ricerca di questa terribile malattia?
“Possiamo affermare che l’idea del coinvolgimento del sistema immunitario e in particolare dei linfociti T, nelle malattie neurodegenerative è un qualcosa di relativamente nuovo. Un’idea che è iniziata ad espandersi negli ultimi 5-6 anni. C’è veramente grande fervore perché ciò potrebbe valere anche per altre malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. L’idea è di capire con sicurezza se queste cellule del sistema immunitario abbiano effettivamente un ruolo nelle varie forme della SLA. Se ciò fosse confermato sarebbe una grandissima notizia, poiché il sistema immunitario si può ‘manipolare’ più facilmente rispetto al sistema nervoso centrale”.
SLA di tipo 4, una ‘forma giovanile’ della sclerosi laterale amiotrofica
Per chiudere, può indicarci le principali differenze la SLA e la SLA di tipo 4?
“Possiamo affermare che la SLA di tipo 4 è una sorta di ‘forma giovanile’ di quella principale. Questo perché i pazienti con questo tipo di SLA possono presentare sintomi fin dall’infanzia. Generalmente le altre forme invece iniziano a comparire dai 65 anni in poi. Un’altra caratteristica della SLA di tipo 4 è che progredisce molto lentamente. In genere la forma principale di SLA nel giro di 5 anni provoca una grave perdita delle capacità motorie del paziente. Il paziente con SLA di tipo 4 comincia ad avere invece importanti problemi motori intorno ai 50 anni e considerando che in linea di massima l’insorgenza avviene in età infantile/adolescenziale ci si rende conto chiaramente di quanto sia lenta come progressione. Si parla di 35-40 anni di progressione della malattia”.
“L’elemento positivo rispetto alle altre forme di SLA è che in questa il sistema respiratorio non è colpito. Nelle altre forme infatti, i pazienti muoiono per via di questi problemi respiratori. Per fortuna nel caso della SLA di tipo 4, ciò non accade. Sono queste le principali differenze tra SLA di tipi 4 e le altre forme di questa terribile malattia”.