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Ecco perché mentiamo: studio rivela il motivo delle bugie

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Indagine rivoluzionaria sul cervello umano svela i segreti delle bugie e apre la strada a comportamenti etici e responsabili

Un nuovo studio rivoluzionario, condotto presso il Laboratorio di Neuroscienze Sociali e Cognitive della Fondazione Santa Lucia IRCCS in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e il Laboratorio di Neuroimmagini della Fondazione Santa Lucia IRCCS, rivela l’impatto delle scelte disoneste sul cervello umano. Utilizzando la Risonanza Magnetica Funzionale, i ricercatori hanno individuato specifiche regioni cerebrali coinvolte durante le interazioni sociali in cui si opta per le bugie.

Attraverso un gioco coinvolgente, i partecipanti sono stati sottoposti a esami neurologici in tempo reale, permettendo agli scienziati di rilevare le differenze di attivazione cerebrale durante la decisione di mentire o dire la verità, soprattutto quando la reputazione era in gioco. I risultati di questa ricerca, pubblicati sulla rivista Communications Biology, mettono in luce il ruolo fondamentale del cingolato anteriore bilaterale (ACC), dell’insula anteriore (AI), del dorsolaterale prefrontale sinistro, dell’area motoria supplementare e del nucleo caudato destro nel processo decisionale.

Secondo Maria Serena Panasiti, neuroscienziata clinica coinvolta nello studio, “Gli individui più manipolativi mostrano un coinvolgimento minore del cingolato anteriore durante le menzogne a proprio vantaggio, ma un coinvolgimento maggiore durante la verità a vantaggio degli altri.” Questa scoperta evidenzia l’importanza del controllo cognitivo quando le decisioni entrano in conflitto con i propri obiettivi personali, specialmente quando si cerca di manipolare gli altri per il proprio vantaggio.

Salvatore Maria Aglioti, coordinatore dello studio, afferma: “La nostra ricerca fornisce importanti informazioni sulle basi neurali delle decisioni disoneste durante le interazioni sociali. La comprensione di questi meccanismi potrebbe aiutare a sviluppare strategie per promuovere comportamenti più etici e responsabili in diversi contesti sociali.”

Questo studio pionieristico, condotto dai ricercatori della Fondazione Santa Lucia IRCCS e della Sapienza Università di Roma, getta una nuova luce sul complesso panorama delle bugie delle scelte morali. Grazie all’integrazione delle neuroscienze e della psicologia, siamo sempre più vicini a comprendere i meccanismi profondi che guidano il nostro comportamento, aprendo la strada a un futuro in cui potremo promuovere relazioni sincere e fiduciose.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Un multivitaminico migliora la memoria

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Secondo un nuovo studio pubblicato su The American Journal of Clinical Nutrition, l’adozione di un multivitaminico a base di epicatechine avrebbe l’effetto di migliorare la memoria del 16%

Il consumo di frutta e verdura è importante a ogni età, ma fra gli anziani risulta fondamentale anche per la protezione della memoria. Un deficit di antiossidanti flavonoli, infatti, è correlato a una maggiore perdita della memoria in età avanzata. Secondo un nuovo studio pubblicato su The American Journal of Clinical Nutrition, l’adozione di un multivitaminico a base di epicatechine avrebbe l’effetto di annullare la carenza migliorando la memoria del 16%.

Lo studio, pubblicato anche su Pnas, è firmato da scienziati della Columbia University e del Brigham and Women’s Hospital/Harvard. I dati mostrano la capacità dell’integrazione multivitaminica di migliorare i punteggi dei test progettati per rilevare la perdita di memoria dovuta al normale invecchiamento.
È emerso anche che l’azione protettiva svolta dai flavonoli è maggiore proprio in quelle persone che seguono una dieta di peggiore qualità.

Alla ricerca hanno partecipato 3.500 anziani sani, assegnati casualmente a ricevere un integratore giornaliero di flavanoli (in pillole) o un placebo per tre anni. L’integratore attivo conteneva 500 mg di flavanoli, tra cui 80 mg di epicatechine, una quantità che gli adulti dovrebbero assumere con l’alimentazione.

Nel gruppo di anziani che seguivano già una dieta sana i punteggi sono migliorati solo leggermente, ma in quello dei soggetti che seguivano una dieta povera di flavanoli i punteggi sono aumentati in media del 10,5% rispetto al placebo e del 16% rispetto alla memoria mostrata a inizio studio. Dai risultati si evince che la carenza di flavanoli è determinante nella perdita di memoria legata all’età. La fisiologica perdita di memoria che si verifica a partire da una certa età può quindi essere rallentata con un’integrazione specifica.

Fonte.

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Lecanemab: alla scoperta del nuovo farmaco per l’Alzheimer

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Gruppo di ricercatori internazionali ha messo a punto uno studio che fa luce sul funzionamento del nuovo farmaco 

Lecanemab è il nuovo farmaco per l’Alzheimer. Il suo utilizzo potrebbe bloccare alcuni aggregati della proteina beta-amiloide che fluttuano nel fluido del tessuto cerebrale raggiungendo anche regioni remote del cervello. Un gruppo di ricercatori ha messo a punto un nuovo ed innovativo studio che fa luce sul nuovo farmaco per l’Alzheimer. “Il nostro lavoro mostra per la prima volta che un farmaco può effettivamente curare le persone con Alzheimer e rallentare il declino cognitivo” – ha affermato Dennis Selkoe, autore principale dello studio. Il lavoro è inoltre stato pubblicato sulla rivista ‘Neuron’.

I ricercatori ipotizzato che l’effetto positivo del farmaco potesse essere associato alla sua capacità di legare e neutralizzare gli aggregati solubili di proteina beta-amiloide, noti anche come protofibrille o oligomeri, piccoli grumi liberamente fluttuanti della proteina beta-amiloide, ma finora nessuno aveva definito con rigore strutturale cosa fosse una protofibrilla o un oligomero a cui si potrebbe legare il lecanemab. Gli autori dello studio hanno identificato proprio quella struttura. In particolare, hanno immerso i tessuti cerebrali post-mortem nei pazienti con Alzheimer in soluzioni saline. Le hanno poi centrifugate ad alta velocità determinandone la struttura atomica fino al singolo atomo.

I ricercatori si concentreranno ora sull’osservazione di come questi minuscoli aggregati di beta-amiloide viaggiano attraverso il cervello degli animali viventi e sullo studio di come il sistema immunitario risponda a queste sostanze tossiche. “Ricerche recenti hanno dimostrato che la reazione del sistema immunitario del cervello alla beta-amiloide è una componente chiave dell’Alzheimer. Ora approfondiremo la questione” – ha concluso Selkoe.

Lecanemab fa parte di una nuova generazione di farmaci allo studio per il trattamento dell’Alzheimer. L’aspetto interessante di lecanemab sta nel suo meccanismo d’azione: si tratta infatti del primo farmaco che mostra una certa efficacia nella riduzione delle placche di proteina beta-amiloide, il cui accumulo costituisce la caratteristica principale della malattia di Alzheimer e dei suoi devastanti effetti sul cervello.

Lo studio nel dettaglio


Lo studio ha coinvolto 1.795 pazienti con declino cognitivo lieve dovuto all’Alzheimer e con presenza di placche. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: al primo è stato somministrato il lecanemab due volte al mese per 18 mesi, gli altri hanno ricevuto solo un placebo. Le condizioni cognitive dei pazienti sono state quindi valutate con lo strumento denominato Cdr-Sb (Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes). Secondo i dati, il farmaco ha ridotto di 0,45 punti il declino cognitivo dei pazienti rispetto al placebo, in una scala che va da 1 a 18. In termini percentuali si tratta di una riduzione del 27% della progressione dei sintomi. Un dato non eccezionale, ma che rappresenta almeno una speranza per il futuro.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Morbo di Parkinson, studio apre la strada a nuove terapie

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Una recente ricerca ha effettuato un’importante scoperta sulla rigidità muscolare, uno dei segni principali nella malattia di Parkinson

La rigidità muscolare è uno dei segni principali nella Malattia di Parkinson. Tale condizione, oltre a rendere difficile il movimento, può causare anche dolore al paziente. Misurarla e capirne le cause è stato a lungo un enigma per i clinici ma ora grazie ad un nuovo studio emerge una migliore comprensione del fenomeno. La ricerca, condotta da Sapienza Università di Roma e dall’I.R.C.C.S Neuromed di Pozzilli, ha rivelato una rete neurale coinvolta: tale scoperta apre la strada a terapie più efficaci.

Ma entriamo nel dettaglio. Lo studio, condotto su 20 pazienti affetti dal morbo di Parkinson messi a confronto con 25 persone sane, ha utilizzato un sistema robotico che consentiva di estendere passivamente il polso dei soggetti studiati. Variando le velocità dei movimenti, e associando i risultati con misurazioni neurofisiologiche, i ricercatori sono stati in grado di quantificare la rigidità e mettere in relazione le componenti biomeccaniche (dovute a ossa, articolazioni, muscoli e tendini) con le componenti relative all’attività del sistema nervoso.

Le parole degli autori

“Abbiamo realizzato – dichiara Antonio Suppa, tra gli autori dello studio – un nuovo paradigma sperimentale basato su strumentazione robotica integrata a neurofisiologia che ha consentito di esplorare più a fondo uno dei tre segni clinici cardine della malattia di Parkinson. La comprensione della rigidità in questa patologia, infatti, è praticamente tuttora ancora ignota. Tutt’oggi i clinici hanno pochi strumenti a disposizione per classificarla e misurarla, e l’approccio si basa su scale cliniche eseguite dall’operatore”.

Per fare progressi in questo campo servono approcci metodologici innovativi in grado di misurare oggettivamente la rigidità parkinsoniana, discriminare le diverse fonti biomeccaniche del tono muscolare e chiarire il contributo di specifiche risposte neurofisiologiche, come i riflessi. È in queste direzioni che si sono mossi gi autori dello studio. “L’uso combinato del robot e della neurofisiologia – conclude Francesco Asci, primo autore dello studio – ci ha permesso di integrare tutti i dati con un algoritmo capace di distinguere le varie componenti responsabili della rigidità. Questo ha portato alla scoperta di un network nervoso coinvolto in questo specifico aspetto della patologia. Ricordiamo anche che la rigidità muscolare è un aspetto cardine della malattia di Parkinson. Ora si aprono nuove strade”.

Fonte: Comunicato Neuromed

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