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L’importanza di una corretta campagna antinfluenzale: le parole dell’esperta Prof.ssa Stefania Maggi

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La Prof.ssa Stefania Maggi, dirigente di ricerca CNR dell’Istituto di Neuroscienze – sezione invecchiamento, espone importanti informazioni sui pericoli dell’influenza, con particolare attenzione per gli anziani

Nonostante l’avvento della pandemia da Covid-19 il tema dell’influenza e più precisamente di una corretta campagna antinfluenzale è sempre centrale e di importante interesse. È per questo che la redazione di Italian Medical News ha intervistato la Prof.ssa Stefania Maggi, dirigente di ricerca CNR dell’Istituto di Neuroscienzesezione invecchiamento. L’esperta professionista ha esposto i pericoli ed i rischi derivanti dall’influenza con occhio di riguardo per i più vulnerabili: gli anziani

Prof.ssa, come mai quando si parla di campagna antinfluenzale si fa riferimento principalmente agli anziani? 

“Si parla principalmente di anziani perché sono quella fetta di popolazione più vulnerabile all’influenza e alle sue gravi complicanze. Ciò succede sostanzialmente per tre motivi principali: il primo è l’immunosenescenza, ovvero quel processo che si accompagna all’invecchiamento per cui il sistema immunitario diventa meno capace di far fronte alle infezioni sia virali che batteriche. Il secondo motivo è perché gli anziani sono più facilmente affetti da comorbidità. Si pensi che più della metà degli over 65 ha almeno due patologie e quindi in caso di influenza rischiano esacerbazioni, soprattutto di patologie cardiovascolari e respiratorie“.

Il terzo è che, indipendentemente dalle patologie co-presenti, l’anziano è più vulnerabile a qualsiasi insulto esterno, comprese appunto infezioni virali o batteriche. Dunque, un episodio di influenza in un anziano aumenta il rischio di ospedalizzazione, di perdita di autonomia e di mortalità. Si tenga conto che oltre il 60% delle ospedalizzazioni e più del 90% delle morti associate all’influenza avvengono negli over 65. Inoltre le ospedalizzazioni per un anziano costano circa il doppio rispetto alla popolazione giovane-adulta. Questo proprio per le complicanze ad essa associate, che richiedono ricoveri prolungati e maggior intensità delle cure. Sono questi i principali motivi per cui ci si focalizza molto sull’influenza in relazione agli anziani”.

Le complicanze a breve e a lungo termine

Quali sono le complicanze prevalenti a cui l’anziano può andare incontro a seguito di un’infezione influenzale? 

“Sono parecchie, e sono sia a breve che a lungo termine. Le più conosciute a breve termine sono complicanze polmonari. C’è un aumento di 8-10 volte del rischio di sviluppare una polmonite e quelle “miste”, con sovrainfezione batterica possono essere molto gravi e portare a morte. Ci possono essere poi serie complicanze cardiovascolari come infarti o scompensi cardiaci, o cerebrovascolari, che nella settimana successiva all’episodio influenzale possono verificarsi 10 volte di più rispetto ad una condizione normale, senza influenza. Addirittura, nei pazienti con diabete c’è il rischio del 75% di avere una perdita dell’omeostasi glucidica con possibili crisi iperglicemiche o ipoglicemiche. A ciò si aggiunge un aumentato rischio di aggravamento delle complicanze croniche, sia micro che macrovascolari”.

Per quanto concerne i rischi a medio-lungo termine c’è il pericolo di perdere l’autosufficienza funzionale, associata al peggioramento persistente di patologie co-presenti, che richiede poi assistenza continuativa e talvolta istituzionalizzazione. Un’area recente molto interessante è l’associazione tra influenza e malattie neurodegenerative come il Parkinson e la demenza, ad esempio. Questo è un settore di estremo interesse scientifico e si stanno studiando le basi molecolari dell’associazione tra l’influenza, che come altre patologie respiratorie può portare ad uno stato di neuroinfiammazione e, in seguito, a neurodegenerazione”.

ll parallelismo con il Long Covid


Lei ha parlato di conseguenze e complicanze a lungo termine. Si può parlare di una sorta di ‘Long influenza’? Esiste in questo senso un parallelismo con il Long Covid?

“Assolutamente si. A mio avviso, la cultura formatasi dalla pandemia porta a sottolineare un’importante questione. Ovvero il fatto che nell’anziano non possiamo considerare le patologie infettive solo come un episodio acuto che si risolve in breve tempo. Ci sono, come abbiamo visto, conseguenze a medio-lungo termine che vanno considerate. In tal senso credo che la cultura del Long Covid abbia portato ad una maggiore sensibilità per valutare l’impatto a medio-lungo termine dell’influenza e anche di altre patologie infettive”.

L’intervista è stata elaborata con il contributo non condizionato di

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Medici ospedalieri, uno su tre vuole cambiare mestiere: la survey

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Il dato emerge da un sondaggio condotto da Anaao Assomed, sindacato dei medici ospedalieri. Alla survey hanno risposto 2130 camici bianchi

Un medico ospedaliero su tre vorrebbe cambiare lavoro per avere più tempo libero e retribuzioni più alte. Fra i camici bianchi più avanti con l’età compare anche l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. La fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal maggior sindacato dei medici ospedalieri, Anaao Assomed. Hanno partecipato alla survey 2130 tra medici e dirigenti sanitari.

I dati e le percentuali

Entriamo nel dettaglio. Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro. Inoltre, 1 su 4 (26,1%) risulta scontento della propria qualità di vita in particolare per quanto concerne la relazione familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e alienazione Un’insoddisfazione che aumenta con il crescere della anzianità di servizio e delle responsabilità. Infatti, i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata, tra i quali si raggiunge l’apice di insoddisfazione tra i 45 e i 55 anni: un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che però il nostro sistema non riesce a garantire.  

Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il primo posto è occupato da incrementi degli stipendi con il 63,9%, seguito a ruota dall’esigenza di una maggiore disponibilità di tempo. Singolare notale come ci sia prevalenza del fattore tempo per le donne sugli uomini che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate. Il sondaggio evidenzia inoltre come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria una maggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e per il tempo libero è più alta (37,9%) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%). In generale, l’aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.

Il 36%, ovvero poco più di 1 su 3, soprattutto nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposto a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema. La crisi della professione è più sentita al sud rispetto al nord. Si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del centro per finire al sud e isole con ben il 64,3% di insoddisfatti. “Ma il dato appare – osserva Anaao Assomed – talmente diffuso da configuare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esista vaccino o terapia”.

L’esigenza di un nuovo modello

È opportuno pensare che pesi il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità. Si tratta infatti della cifra più bassa tra i paesi del G7. Una cifra, ben al di sotto della media europea che si aggira intorno al 11,3% del Pil per la sanità.
Occorre immaginare – propone il sindacato un nuovo modello. Modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura”.

Fonte: Survey Anaao Assomed.

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Aziende fornitrici degli ospedali in crisi per via dell’effetto ‘payback’

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Lo Stato ha chiesto alle imprese del settore di ripianare metà dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Ora le aziende fornitrici degli ospedali sono in ginocchio e molte, specie le più piccole, rischiano di chiudere

Molti dispositivi medici potrebbero mancare negli ospedali a partire da gennaio. Dispositivi salvavita, strumenti per dialisi, valvole cardiache, protesi, ferri chirurgici sono solo alcuni dei strumenti che numerosi medici di tutta Italia rischiano di non avere a disposizione in adeguata misura. Le aziende fornitrici degli ospedali sono infatti in ginocchio e molte, soprattutto le più piccole, rischiano di chiudere. Questo perché lo Stato ha chiesto a ognuna di loro di partecipare al 50% dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Si tratta di un conto salato da 2,1 miliardi da pagare entro trenta giorni.

A lanciare gli allarmi sugli effetti del payback è Massimo Riem, presidente della Federazione italiana fornitori in sanità (Fifo). “Abbiamo una fortissima preoccupazione – afferma Riem. Da gennaio molti ospedali non saranno in grado di assicurare interventi chirurgici e prestazioni perché mancheranno le forniture dei dispositivi medici. È un rischio concreto per i cittadini che avranno bisogno di assistenza. La aziende – prosegue – sono in allarme perché proprio in questi giorni stanno partendo le richieste per gli anni 2015-2018 e si parla di 2,1 miliardi. Questo causerà scompensi inaccettabili”. Quello dei fornitori ospedalieri è un settore composto nel 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100.000 lavoratori coinvolti. 

“A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”

Le imprese evidenziano un ‘effetto payback’ che rischia di abbattersi anche sulle cure e le prestazioni offerte ai cittadini: quelli forniti dalle aziende messe in difficoltà dal payback, come sottolineato da Massimo Riem, “sono prodotti anche salvavita. Un dispositivo medico è la protesi chirurgica, la protesi vascolare, lo stent, i sistemi per l’ossigenazione della circolazione extracorporea etc. . Sono tutti prodotti che servono al nostro sistema sanitario, nei nostri ospedali, per garantire assistenza ai malati. E le forniture rischiano di essere interrotte perché il decreto attuativo del payback, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 settembre scorso, porterà al fallimento la gran parte delle aziende che operano in questo segmento. Le imprese – prosegue il presidente Fifo – non saranno più in grado di fornire dispositivi medici. A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”.

Ma non finiscono qui le dichiarazioni del presidente della Federazione italiana fornitori in Sanità. Al Governo chiediamo una cosa molto semplice: la cancellazione di questa norma del payback – afferma Riem. Una norma inapplicabile che distrugge un tessuto di aziende che quotidianamente garantiscono, con le loro forniture agli ospedali, la possibilità di erogare prestazioni ai cittadini. Si rischia seriamente di distruggere un settore strategico”. 

Fonte: sito web Federazione Italiana Fornitori in Sanità.

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Pronto soccorso, cresce sempre più il fenomeno del “boarding”

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Soprattutto negli ospedali Hub il “boarding” è diventato ormai una regola. La maggior parte dei pazienti arriva ad aspettare anche oltre 5 giorni

L’attesa di un posto letto in reparto da parte di un paziente, dopo la decisione di ricovero, è un fenomeno talmente frequente che ha ormai un preciso nome: “boarding”. Purtroppo si tratta di un fenomeno ormai regola nei pronto soccorso, specie negli ospedali Hub. Le iniziative per tentare di gestirlo sono limitate a documenti ufficiali che ne definiscono la durata massima fissata a 6 ore. La realtà però dice che la maggioranza dei pazienti non aspetta 6 ore, bensì dai 2 fino ai 5 giorni o addirittura oltre. Ma come nasce questo fenomeno e soprattutto in che modo si potrebbe contrastarlo?

Le cause del boarding

Il boarding è una conseguenza dei tagli degli ultimi anni, come il taglio dei Posti Letto per acuti e lungodegenza: in Italia infatti, dal 2010 al 2020 sono stati tagliati 30.492 posti letto per acuti, con una riduzione del 19%. Il taglio maggiore ha riguardato il Molise, la Calabria, la Puglia e la Liguria: in queste regioni è stato tagliato più di 1 posto letto su 4. Ma la riduzione più pesante ha riguardato la lungodegenza, dove si è verificata una diminuzione media nazionale di posti letto che sfiora il 30%.

Ai problemi già citati si aggiunge poi quello dell’occupazione dei posti letto. La maggior parte dei pazienti in boarding è infatti rappresentata da anziani con patologie internistiche, con un tasso di occupazione di posti letto nei reparti di medicina pari al 97,6%. Va infatti ricordato che il tasso ottimale, per evitare aumento di mortalità e morbilità, viene considerato non superiore all’85%, pur se aumentato al 90% dal Decreto Ministeriale n° 70/2015 sugli standard ospedalieri.
Per gestire il problema boarding è dunque attuare delle azioni economiche per incrementare i posti letto, come proposto in più occasioni da Anaao Assomed.
C’è necessità di più letti per acuti e più letti di lungodegenza.

Non solo mancanza di posti letto, ma anche di medici

Un altro difficile capitolo si apre in relazione alla carenza di medici. Il numero di camici bianchi ha toccato il suo massimo nel 2009, per poi diminuire incessantemente fino al 2020, riducendosi di 4.800 unità. In realtà, su questo dato ha inciso positivamente il reclutamento di personale medico causato dalla pandemia da Covid-19 che ha visto l’immissione di circa 1.000 medici. Infatti, se si guardasse il trend fino al 2019, la diminuzione di personale medico sarebbe ancora più accentuata (5.800 unità).

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