Il cancro al pancreas è uno dei più resistenti all’immunoterapia. Un nuovo studio però, traccia una via per provare a vincere questa resistenza
Il cancro al pancreas è una delle patologie oncologiche più resistenti all’immunoterapia. Un nuovo studio, coordinato dall’Istituto Oncologico Veneto e dall’Ateneo di Verona, traccia una nuova strada per provare a vincere questa resistenza, modificando il microambiente tumorale. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica ‘Science Translational Medicine’, è stata finanziata dal Cancer Research Institute, dalla Fondazione Cariverona, dall’AIRC, dal Ministero della Salute, dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e infine dall’EuroNanoMed.
Gli esperti che hanno condotto il lavoro hanno analizzato un meccanismo di evasione dal controllo immunologico messo in atto dal tumore pancreatico. Lo hanno fatto, integrando dati funzionali, fenotipici e molecolari e sviluppando un approccio di immunoterapia combinata, efficace in modelli preclinici in cui è stato ricostruito il sistema immunitario umano. Nei pazienti con il cancro al pancreas, i neutrofili, cellule del sistema immunitario circolanti nel sangue, sono attivati da fattori prodotti dalle cellule neoplastiche. Tali cellule rilasciano spontaneamente e in modo incontrollato, strutture molecolari complesse, chiamate NET.
Queste strutture, che ricordano una vera e propria rete (per cui prendono il nome NET), sono costituite principalmente da materiale genetico (DNA) e proteine. Tra queste ultime l’enzima arginasi 1 (ARG1) che, attivato all’interno dei NET, genera alcune forme molecolari che provocano il consumo eccessivo di un amminoacido essenziale all’attività antitumorale dei linfociti T. La risposta immune verso il tumore è, quindi, ostacolata. Per contrastare il blocco funzionale dei linfociti T, il gruppo di studio ha generato un nuovo anticorpo in grado di riconoscere e neutralizzare l’enzima ARG1 umano. Attraverso analisi funzionali e biochimiche, gli esperti hanno dimostrato che la funzione dei linfociti T si ripristina con l’ausilio dell’anticorpo mAb 1.10, mentre inibitori chimici dell’enzima non sono efficaci nel bloccare le forme molecolari attivate nei pazienti con cancro.
In modelli preclinici umanizzati di tumore al pancreas, la somministrazione di mAb 1.10 aumenta l’efficacia dell’immunoterapia basata sia sull’uso di inibitori del checkpoint immunologico sia sul trasferimento di linfociti citotossici specifici per l’antigene tumorale telomerasi. Tali dati trovano conferma anche su biopsie di tumori pancreatici esposte in vitro all’anticorpo anti-ARG1.
Uno studio che apre nuovi scenari
Lo studio propone una nuova chiave di lettura per comprendere la funzione immunoregolatoria dell’enzima ARG1 e dei neutrofili condizionati negativamente dal tumore. Sopratutto, il lavoro suggerisce che riprogrammando il microambiente tumorale, anche un tumore notoriamente refrattario all’immunoterapia, come il tumore del pancreas, può diventare sensibile e responsivo.
“Questo studio apre nuovi scenari nei tumori che mostrano una resistenza intrinseca e primaria all’immunoterapia – commenta il Prof Bronte, coordinatore principale dello studio. Il lavoro continua un percorso di ricerca iniziato più di dieci anni fa dal mio gruppo. La ricerca continua, puntando a ottenere anticorpi completamente umani verso l’enzima ARG1 da utilizzare nella terapia e diagnostica. Ciò varrà in diversi tumori, non solo nel cancro al pancreas”.
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Un team di ricercatori della Georgetown University di Washington si è concentrato su determinati cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali di alcuni pazienti, scoprendo inedite informazioni
I casi di cancro al colon sono sempre più in aumento negli ultimi anni, soprattutto nelle fasce più giovali della popolazione. Per questo motivo, un gruppo di esperti della Georgetown University di Washington ha deciso di indagare a fondo la questione, concentrandosi sui cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali dei giovani. Dalle analisi è emerso che nei tumori dei pazienti più giovani si trovava spesso il fungo Cladosporium sp., in percentuale significativamente maggiore rispetto ai pazienti più anziani. Il fungo non è un ospite abituale dell’intestino umano. In sua presenza si verificano difficoltà digestive oltre a poter causare infezioni della pelle e delle unghie.
Benjamin Weinberg, esperto di cancro gastrointestinale e co-autore della ricerca, spiega: “Molte persone anno la colpa a obesità e diabete. Ma abbiamo questi pazienti sani e giovani che hanno un cancro colorettale molto avanzato”. Il team americano ha esaminato campioni di tessuto di 63 pazienti con meno di 45 anni o con più di 65, controllando il Dna dei microrganismi nei tumori per cercare eventuali differenze a livello di microbioma intestinale. È emersa così la presenza diffusa del fungo Cladosporium sp. fra i più giovani. Per quanto riguarda i batteri, invece, non sono emerse differenze particolari.
L’ipotesi dei ricercatori è che il fungo possa causare un danno al Dna cellulare e propiziare così la mutazione delle cellule da sane a cancerose. La teoria più diffusa e accettata nel mondo scientifico finora è quella dello stile di vita alterato, con consumo di alcol, poca attività fisica e alimentazione squilibrata. Un fenomeno che certamente ha contribuito all’aumento dei casi di cancro, ma che non spiega il fatto che per alcuni tipi di cancro si sia registrata invece una diminuzione nel tempo. La ricerca americana mostra quindi la possibilità di un altro fattore che non era stato preso in considerazione e che invece potrebbe aver contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’incidenza dei tumori, e di quello del colon in particolare.
Si riuscirebbe addirittura ad avere tre anni di vantaggio sulla malattia. A parlarne è un nuovo studio pubblicato su Nature Medicine
Tre anni di vantaggio sul tumore del pancreas, un traguardo cui ambirebbero tanti medici e pazienti. Il tutto potrebbe essere garantito al più presto dall’Intelligenza Artificiale. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature Medicine’.
Secondo i dati più recenti, nel 2022 sono stati stimati 14.500 nuovi casi in Italia. Il tasso di mortalità non si è modificato in modo significativo negli ultimi anni e quello del pancreas si attesta come il tumore con la minor sopravvivenza sia a un anno dalla diagnosi (34 per cento nell’uomo e 37,4 per cento nella donna) che a cinque anni (11 per cento nell’uomo e 12 per cento nella donna). Il tumore del pancreas viene diagnosticato precocemente soltanto nel 12% dei casi. In questa fascia fortunata di pazienti si registra un’aspettativa di vita a 5 anni del 44%. Al contrario, quando la diagnosi arriva tardi, cioè quando il tumore è già in fase di metastatizzazione, la percentuale di sopravvivenza a 5 anni cala drasticamente al 10%. È insomma facile rendersi conto quanto sia importante una diagnosi precoce.
Nello studio pubblicato su Nature Medicine i ricercatori sottolineano che in assenza di un segnale chiaro che indichi un rischio elevato nessun medico può prescrivere esami approfonditi come la tomografia computerizzata o la risonanza magnetica. Per questo, gli scienziati hanno tentato di utilizzare l’Intelligenza Artificiale servendosi di 9 milioni di cartelle cliniche provenienti da Danimarca e Stati uniti. I ricercatori hanno individuato così alcuni modelli che hanno suggerito un aumento del rischio di cancro al pancreas nei 3 anni successivi.
Fra i parametri considerati ci sono diabete, ittero, calcolosi biliare, anemia, alti livelli di colesterolo, altre malattie del pancreas, obesità, perdita di peso, malattia infiammatoria intestinale e cancro del colon. “Con un metodo accurato di previsione è possibile indirizzare i pazienti ad alto rischio verso appropriati programmi di sorveglianza” – affermano i ricercatori.
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Se i dati venissero confermati, sarà possibile identificare le mutazioni responsabili del Dna tumorale e indirizzare quindi le pazienti verso trattamenti alternativi
Nuovo studio italiano si è concentrato sulla combinazione di due biomarcatori per ottenere informazioni sul cancro al seno. In particolare lo studio BioltaLEE, diretto da Michelino De Laurentiis, ha analizzato pazienti con tumore della mammella avanzato o metastatico positivo per i recettori ormonali e negativo per il recettore 2 del fattore umano di crescita epidermica (HR+/HER2-).
Il gruppo di esperti ha trattato le pazienti in prima linea con ribociclib, inibitore di CDK4/6, in combinazione con letrozolo (terapia ormonale). Lo scopo della ricerca è studiare biomarcatori che possano, dopo solo 15 giorni, aiutare a comprendere l’andamento delle cure. Per biomarcatori si intendono caratteristiche del tumore che consentano di identificare i pazienti che rispondono o meno a un determinato trattamento. Allo studio hanno partecipato 287 pazienti di 47 strutture sanitarie italiane.
Le parole dell’esperto
“Il trattamento standard dei tumori mammari positivi per i recettori ormonali è la combinazione di un inibitore di cicline con il trattamento ormonale – spiega De Laurentiis, Direttore del Dipartimento di Oncologia Senologica e Toraco-Polmonare dell’Istituto Nazionale Tumori G. Pascale di Napoli. Ribociclib è l’unico farmaco della classe degli inibitori CDK4/6 in grado di vantare una totale coerenza e solidità di risultati. Ha infatti dimostrato un vantaggio in sopravvivenza globale in donne in pre/peri e post menopausa e con diverse combinazioni ormonali. I dati di BioltaLEE non sono ancora definitivi, ma vanno nella direzione della conferma dell’efficacia già dimostrata nello studio MONALEESA-2, con metà delle pazienti vive oltre 5 anni. BioltaLEE per la prima volta al mondo ha considerato la combinazione di due biomarcatori, misurati con prelievi del sangue, cioè con biopsia liquida”.
I due nuovi biomarcatori rappresentano un’opzione migliore della TAC per il monitoraggio dell’andamento della cura. Se i dati venissero confermati, allora si potrebbero identificare le mutazioni responsabili del DNA tumorale e indirizzare quindi le pazienti verso trattamenti alternativi. Si tratterebbe dunque di una vera svolta per la cura di determinate forme di cancro al seno.