L’innovativo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature Medicine’, è opera di un gruppo di medici e ricercatori del ‘San Raffaele’ di Milano
Nel maggio 2017, per la prima volta al mondo, un paziente affetto da sclerosi multipla progressiva in stadio avanzato ha ricevuto una terapia a base di cellule staminali neurali (del cervello). La terapia rientrava nell’ambito dello studio STEMS, lavoro coordinato dal Professor Gianvito Martino, direttore scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. Oggi, sulla prestigiosa rivista ‘Nature Medicine’, sono pubblicati i grandissimi risultati dello studio clinico. Risultati che possono rappresentare una svolta nella cura di questa terribile malattia.
Gli esperti in questione, tra medici e ricercatori, hanno dimostrato la sicurezza e la tollerabilità del trattamento. Hanno infatti osservato una riduzione dell’atrofia cerebrale nei pazienti trattati con il maggior numero di cellule staminali neurali oltre ad una variazione del profilo liquorale in senso pro-rigenerativo dopo il trattamento. Tali risultati, di estremo interesse, necessitano però di essere confermati su un gruppo più ampio di pazienti, in modo da pensare, in futuro, ad un possibile impiego di queste cellule nella pratica clinica.
La funzione delle staminali neurali
L’innovazione dello studio in questione è rappresentata dall’utilizzo di una nuova terapia cellulare avanzata a base di cellule staminali neurali, mai utilizzate prima in pazienti con sclerosi multipla. Tali cellule infatti, a differenza delle staminali ematopoietiche e di quelle mesenchimali, hanno mostrato negli studi preclinici condotti in laboratorio di poter avere un elevato potenziale pro-rigenerativo una volta trapiantante. Le cellule staminali neurali rappresentano infatti una strategia terapeutica promettente per una malattia complessa come la sclerosi multipla. Una patologia in cui sono molteplici i meccanismi che contribuiscono alla progressione della disabilità, dall’infiammazione alla neurodegenerazione.
La terapia sperimentale su cui si basa lo studio STEMS consiste in un’infusione di cellule staminali neurali. L’infusione avviene attraverso una puntura lombare che immette le cellule direttamente nel liquido cerebrospinale, attraverso il quale possono raggiungere il cervello e il midollo spinale, ovvero le sedi colpite dalla sclerosi multipla. Le cellule staminali neurali sono cellule progenitrici in grado di specializzarsi in tutti i tipi di cellule nervose. Nei modelli animali è stato dimotrato che esse, una volta trapiantate, raggiungono le lesioni cerebrali e midollari proprio perché attirate dal danno. Una volta raggiunte tali lesioni promuovono meccanismi di neuroprotezione e riparazione rilasciando sostanze immunomodulanti e pro-rigenerative.
Lo studio ha coinvolto 12 pazienti con sclerosi multipla progressiva ed elevata disabilità. Inoltre, le dodici persone coinvolte avevano già ricevuto terapie ad oggi disponibili con scarso o nessun successo. I pazienti, che sono stati suddivisi in 4 gruppi, hanno ricevuto, con un’unica puntura lombare, un numero di cellule crescente: da circa 50 milioni di cellule per il primo gruppo fino ad arrivare a 500 milioni per l’ultimo.
Le parole dell’esperto
Di seguito le parole del coordinatore principale del lavoro, il Professor Gianvito Martino. “È un traguardo importante quello raggiunto, anche se rappresenta solo la prima tappa del percorso clinico-sperimentale che porta ad una vera e propria terapia. Il mio primo pensiero va, soprattutto, alle persone malate e alle loro famiglie che hanno sostenuto la nostra ricerca in tutti questi anni. Anni tra l’altro drammatici dal punto di vista della sanità pubblica. La strada intrapresa però è ancora lunga”.
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Vari studi ipotizzano un legame eziologico tra lo sviluppo della depressione Il fattore neurotrofico cerebrale (BDNF). Vediamo perché
Il fattore neurotrofico cerebrale è una proteina appartenente alla famiglia delle neurotrofine. È noto in inglese col nome di brain-derived neurotrophic factor, da cui l’acronimo BDNF. Esso, la quale trascrizione è codificata da un gene specifico ed omonimo, è stato isolato per la prima volta dal cervello di maiale nel 1982 da Yves-Alain Barde e Hans Thoenen. Ma a cosa serve il fattore neurotrofico cerebrale? Il BDNF stimola la sopravvivenza e il differenziamento di alcuni neuroni e sinapsi appartenenti al sistema nervoso centrale (SNC) e periferico (SNP).
Nel cervello, il fattore di crescita neurotrofico è attivo nell’ippocampo, nella corteccia e nel proencefalo basale. Si tratta di aree vitali per l’apprendimento, la memoria e il pensiero superiore. Il BDNF è infatti molto importante soprattutto per la memoria a lungo termine. Infatti, sebbene nei mammiferi la stragrande maggioranza dei neuroni nel cervello di formi durante lo sviluppo intrauterino (prima della nascita), alcune parti dell’organo adulto mantengono la capacità di far crescere nuovi neuroni dalle cellule staminali neurali. Ciò è possibile grazie ad un processo noto come neurogenesi. IL BDNF è una delle neurotrofine più attive nello stimolo e controllo della neurogenesi.
Sono molti gli studi che hanno mostrato possibili collegamenti tra BDNF e condizioni patologiche o disagevoli come la depressione. È stato infatti dimostrato come l’esposizione allo stress e al corticosterone, l’ormone dello stress, diminuisce l’espressione di BDNF nei ratti. In caso di esposizione persistente può verificarsi un’atrofia dell’ippocampo. Dato che l’atrofia dell’ippocampo e di altre strutture limbiche si verifica negli esseri umani che soffrono di depressione cronica, si ipotizza che esista un legame eziologico tra lo sviluppo della depressione e il BDNF. In particolare, un recente studio ha indicato che l’infiammazione lipopolisaccaride indotta provochi il fenotipo della depressione, alterando la segnalazione di BDNF nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo.
Un ragazzo cinese di soli 19 anni d’età è il più giovane paziente al mondo ad aver ricevuto una diagnosi di Alzheimer. Il clamoroso caso è descritto sul Journal of Alzheimer’s Disease
Diagnosticata la malattia di Alzheimer ad un ragazzo cinese di soli 19 anni. Si tratta del caso più giovane della storia della malattia. Il clamoroso evento è descritto sul ‘Journal of Alzheimer’s Disease’ dall’equipe di Jia Jianping, neurologo del Friendship Hospital e del National Clinical Research Center for Geriatric Diseas, Pechino. Il giovane paziente avrebbe iniziato a mostratre i primi sintomi di demenza due anni prima di essersi rivolto ad un medico. Il tutto, con episodi sempre più gravi di perdita della memoria. Non riusciva a ricordare dove riponeva i suoi effetti personali, se avesse mangiato o bevuto e tendeva ad isolarsi dalla famiglia e dagli amici.
Tutto è iniziato quando aveva 17 anni, con problemi di studio e concentrazione tra i banchi di scuola. Il ragazzo non riusciva più a leggere come prima, aveva difficoltà nello svolgere i compiti e presentava evidenti deficit di memoria a breve termine. È per questi motivi che, due anni dopo, il giovane paziente cinese è stato sottoposto a unabatteria di test neuropsicologici che hanno mostrato un evidente deficit della memoria. Come primo test una risonanza magnetica volumetrica ha rilevato una perdita di volume degli ippocampi, ovvero le centraline di alcuni tipi di memoria. Successivamente è stata una PET-FDG a mostrare un ipometabolismo nei lobi temporali dei due emisferi cerebrali: in altri termini, una marcata riduzione di consumo energetico in centri del cervello molto importanti per i processi di memorizzazione e apprendimento.
Infine una puntura lombare con l’esame del liquido cerebrospinale ha mostrato un’alterata concentrazione di sostanze che nell’Alzheimer portano alla formazione delle placche di beta-amiloide fuori dalle cellule nervose e dei grovigli neurofibrillari all’interno delle medesime. Tutti segnali che hanno portato all’ufficiale diagnosi di Alzheimer.
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Gli atlanti, a partire dalle due settimane di età e fino ai due anni, registrano lo sviluppo cerebrale mese per mese
Nasce un nuovo strumento in ambito neurologico. Un gruppo dell’University of North Carolina Health Care (Usa) ha realizzato una serie di atlanti del cervellonei neonati che, a partire dalle due settimane di età, mese per mese e fino ai due anni, registrano importanti dettagli spazio-temporali. Una novità che potrebbe permettere ai medici di individuare precocemente eventuali disturbi del cervello. Il lavoro che ha portato allo sviluppo degli atlanti è pubblicato su ‘Nature Methods’.
Secondo gli autori, questa serie di atlanti potrà essere utilizzata dai medici per capire l’andamento nel tempo dello sviluppo cerebrale e cogliere aspetti cruciali dello sviluppo precoce del cervello. L’obiettivo dichiarato dal team è quello di rendere più facile la valutazione di eventuali sintomi di sviluppo anomalo. In particolare, disturbi di deficit di attenzione/iperattività (ADHD), dislessia e paralisi cerebrale infantile. Nel corso dei primi due anni di vita il cervello umano va incontro a complessi processi cellulari che portano a una rapida crescita cerebrale. È in questa fase, infatti, che il cervello cambia a livello strutturale e riorganizza i suoi circuiti neurali.
Gli atlanti hanno rilevato anche che le cortecce nelle regioni temporali, paretali e prefrontali del cervello sono più spesse delle cortecce visive e sensomotorie primarie. Tutto questo è coerente con la scoperte che le funzioni di ordine superiore del cervello infantile (come l’attenzione, la memoria di lavoro, l’inibizione e la risoluzione dei problemi) maturano più lentamente delle aree del cervello responsabili delle funzioni visive, motorie e sensoriali.
Di seguito, si riporta una dichiarazione di Pew-Thian Yap, principale autore del lavoro. “Speriamo che questi atlanti diventino un quadro di coordinate comune per facilitare la scoperta di nuove intuizioni sui processi di sviluppo alla base della cognizione infantile e del comportamento sociale”.