Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità Fluvoxamina e colchicina, entrambi low cost, non dimostrano miglioramenti
Due farmaci, un antidepressivo e un medicinale per la gotta, sconsigliati dall’Organizzazione mondiale della sanità come cura della forma lieve di Covid. Si tratta rispettivamente di fluvoxamina e colchicina, entrambi valutati durante la pandemia come potenziali armi contro il Covid per le loro proprietà antinfiammatorie. Secondo l’Oms però, i due farmaci, protagonisti di diversi studi, non devono essere raccomandati per pazienti con Covid lieve o moderato. Questo perché non esistono prove sufficienti del fatto che il loro utilizzo porti a miglioramenti importanti per i pazienti. Anzi, seguendo il verdetto, riportato su ‘Bmj Medicine’, degli esperti internazionali che compongono uno dei gruppi per lo sviluppo delle linee guida dell’Oms, entrambi i farmaci comporterebbero potenziali danni.
Fluvoxamina e colchicina sono due farmaci low cost e comunemente usati. È anche per questo motivo che, specie nella prima fase del periodo pandemico, hanno suscitato notevole interesse come potenziali trattamenti per il Covid. Le raccomandazioni dell’Oms contro il loro uso riflettono incertezza su in che modo i due farmaci producano effetti sull’organismo. Oltre richiamare l’evidenza di effetti scarsi o nulli in termini di miglioramenti. Mancano anche, per gli esperti, dati affidabili su danni gravi correlati al Covid possibilmente risolvibili dai due medicinali.
Studi climici e randomizzati sui due farmaci
Dei due farmaci si è parlato più volte anche nel nostro Paese. Ad esempio su colchicina, fino al luglio del 2020, erano ben 3 i trial autorizzati dall’Agenzia Italiana del Farmaco – Aifa per valutarne le potenzialità in aggiunta a terapie standard. Il parere dell’Oms contro l’utilizzo dei due farmaci si è basato sull’analisi di dati da studi clinici e randomizzati controllati. Dopo attente indagini sulle prove, il panel (composto da esperti di tutto il mondo) ha concluso che tutte le persone ben informate sceglierebbero di non ricevere né la fluvoxamina né la terapia con colchicina.
Dopo diversi anni, alcune persone colpite dal Covid manifestano ancora disturbi legati al gusto e all’olfatto. Tuttavia, un nuovo studio sostiene che esista un periodo massimo entro il quale è possibile recuperare completamente questi sensi
Entro tre anni la stragrande maggioranza delle persone che ha riscontrato alterazioni nel gusto e nell’olfatto a seguito di un’infezione da Covid è in grado di recuperare completamente l’integrità dei propri sensi. Questa conclusione emerge da uno studio condotto dall’Università di Trieste, pubblicato su JAMA Otolaryngology-Head & Neck Surgery.
I ricercatori hanno esaminato i dati di 88 individui affetti da Covid-19 in forma lieve, definita come l’assenza di patologie respiratorie inferiori e una saturazione di ossigeno nel sangue pari o superiore al 94%. Questi dati sono stati confrontati con quelli di un gruppo di controllo della stessa fascia d’età, mai entrato in contatto con il virus ma occasionalmente soggetto a difficoltà nel gusto e nell’olfatto.
I dettagli dello studio
I ricercatori hanno valutato la percezione olfattiva dei partecipanti mediante bastoncini contenenti varie fragranze e hanno analizzato il senso del gusto utilizzando strisce impregnate con sapori differenti. Nel corso del tempo, si è osservato un progressivo miglioramento, con un numero sempre minore di persone che manifestavano difficoltà nella distinzione degli odori. Dopo un anno, 52 partecipanti avevano completamente recuperato l’olfatto; a due anni, il numero era salito a 64; e al termine di tre anni, ben 76 individui avevano riacquisito completamente questa facoltà, mentre solo 12 manifestavano una compromissione parziale. Al termine del periodo di studio di tre anni, tutti i partecipanti mostravano almeno una capacità parziale di percepire gli odori, sottolineando un trend positivo nel recupero delle funzioni sensoriali legate all’olfatto.
Anche per il gusto la situazione era simile. Dopo 3 anni, solo 10 persone su 88 mostravano compromissioni parziali. Dopo quel limite temporale, i soggetti infettati non avevano più probabilità di avere problemi con l’olfatto o il gusto rispetto a coloro che non avevano contratto il virus.
Nulla di irreversibile, ma bisogna fare attenzione
“Nella grande maggioranza dei casi, la perdita del senso dell’olfatto e del gusto non è irreversibile“ – ha affermato Paolo Boscolo-Rizzo, professore di medicina, chirurgia e scienze della salute presso l’Università di Trieste e coautore dello studio.
“Stiamo vedendo meno persone con questo problema, ma ci sono comunque persone che ne soffrono. La perdita di questi sensi ha degli impatti psicologici significativi. Spesso non se parla, ma è così” – afferma Fernando Carnavali, internista e direttore del Centro per la Cura Post-COVID presso la Scuola di Medicina Icahn presso il Mount Sinai di New York City.
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Una ricerca dell’Università di New York ha scoperto che l’Rna virale non solo è rilevabile, ma è anche in grado di replicarsi nelle lesioni coronariche prelevate durante l’autopsia da casi gravi di Covid
Un recente studio rivela che il virus Sars-CoV-2 ha la capacità di infettare i vasi coronarici, dando luogo a un’infiammazione che potrebbe scatenare complicanze cardiovascolari acute. La ricerca, pubblicata attraverso un estratto su Nature Cardiovascular Research, è opera dell’Università di New York. “La malattia da Covid-19 è caratterizzata da una serie di presentazioni cliniche che vanno dall’infezione asintomatica al distress respiratorio acuto, dalla malattia multiorgano alla morte” – ha dichiarato la ricercatrice Chiara Gennarelli, tra gli autori dello studio.
Tra le conseguenze cliniche documentate dell’infezione, si riscontrano l’insorgenza di infarti miocardici acuti e ictus, entrambi derivanti dalla demolizione di una placca aterosclerotica cronica e infiammata. “Sebbene nei pazienti con malattia da coronavirus aumentino le probabilità di complicanze cardiovascolari ischemiche fino a un anno dopo l’infezione, non è noto se il virus sia in grado di infettare direttamente il sistema coronarico e le relative placche aterosclerotiche” – riprende la ricercatrice. Il team ha evidenziato che l’Rna virale non solo può essere rilevato, ma ha anche dimostrato la sua capacità di replicarsi all’interno delle lesioni coronariche prelevate durante l’autopsia da individui colpiti gravemente da Covid-19.
“SARS-CoV-2 ha preso di mira i macrofagi della placca e ha mostrato un tropismo più forte per le lesioni arteriose rispetto al grasso perivascolare adiacente, in correlazione con i livelli di infiltrazione dei macrofagi” – si legge nell’estratto. Il virus aumenta nei macrofagi primari carichi di colesterolo e dipendente, in parte, dalla neuropilina-1, un recettore in grado di potenziare l’entrata del virus nelle cellule e la sua diffusione nell’organismo. “I nostri dati dimostrano che SARS-CoV-2 induce una vivace risposta infiammatoria nei macrofagi in coltura e negli espianti vascolari aterosclerotici umani con secrezione di citochine note per innescare eventi cardiovascolari” – conclude Giannarelli.
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Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia
Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.
Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.
Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.
“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori(numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.). I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominantee fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.
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