Negli Stati Uniti in un solo mese si è verificata una crescita spaventosa del numero dei contagi totali: dal 4% al 41%
Il ceppo XBB.1.5 del Covid, ormai conosciuto col nome di variante ‘Gryphon’, corre sempre di più negli Stati Uniti. In una sola settimana, la nuova variante, ha raddoppiato i suoi contagi e nel giro degli ultimi 30 giorni nel Paese a stelle e strisce si è passati dal 4% al 41% di casi totali. Numeri spaventosi che sottolineano l’aggressiva contagiosità della nuova variante, come confermato da numerosi esperti.
Eric Topol, direttore dello Scripps Research Translational Institute della California ha evidenziato la situazione in un post su Twitter. “Di tutte le varianti nel mix attuale – ha spiegato l’esperto – XBB.1.5 ha il maggior vantaggio di crescita rispetto alla conosciuta Omicron 5. In generale è la più veloce di qualsiasi delle varianti dalla prima ondata di Omicron”. Topol, attraverso un’immagine, ha inoltre mostrato la netta differenza di crescita, relativa allo Stato di New York e al mese di dicembre, tra Griphon e la sottovariante BQ.1.1, anche conosciuta come Cerberus.
Una situazione confermata anche dalla CDC – Centers for Disease Control and Prevention, importante organismo di controllo sulla sanità pubblica degli States. Nella nuova sorveglianza genomica (che puoi visualizzare qui) diffusa dall’ente regolatore si registra una forte crescita di diffusione di Gryphon rispetto a Cerberus, che invece appare con un dominio stabile. A fare da eco, anche il professore e biologo Ryan Gregory: “Lo dirò di nuovo. La variante XBB è assolutamente alle stelle nel nostro Paeseesi sta diffondendoa livello globale. Si sta evolvendonon in Cina ma negli Stati Uniti d’America e questo è bene che sia chiaro”– ha ribadito l’esperto.
Ecco come è nata la nuova variante
Ma da dove nasce Gryphon e perché preoccupa? Nello sciame di sottovarianti legate a Omicron, è da poco apparso anche quello denominato XXB. Secondo gli scienziati sarebbe il risultato di una fusione di due diverse sottovarianti conosciute con la sigla BA.2.10.1 e BA.2.73. Quello che è successo, in buona sostanza, è che un paziente è stato nello stesso tempo infettato dai due lignaggi differenti i quali, nel processo di replicazione all’interno dell’organismo, si sono uniti dando vita a Gryphon. Questa nuova sottovariante è descritta dall’Oms con un profilo genetico riconducibile a Omicron ma con molte mutazioni su Spike (nota proteina utilizzata come ‘gancio’ da Sars-Cov-2 per diffondersi nell’organismo).
Per quanto concerne i sintomi, al momento i dati disponibili non sembrano rilevare una maggiore aggressività sull’organismo. I principali effetti di Gryphon sono forte mal di gola, tosse, dolori diffusi, febbre, sensazione di stanchezza e generale aggressione delle alte vie respiratorie. La preoccupazione rimane quella di una sottovariante molto abile nel superare gli ostacoli creati dall’immunità vaccinale e quindi potenzialmente in grado di generare un’eventuale forma grace della malattia nei soggetti fragili.
La situazione in Italia
E in Italia? Su Gryphon al momento non appare nessun allarme di diffusione. Èl’Istituto superiore di sanità (Iss) a illustrare la situazione nel nostro Paese: “Si continua a monitorare la circolazione del ricombinante XBB, recentemente definito Gryphon, e i suoi sottolignaggi – spiega l’istituto. Sono considerati da diverse settimane varianti di interesse per la presenza di mutazioni associabili a capacità di immuno-evasione. Al momento le sequenze presenti nella piattaforma sono pari al 2% del totale, un valore sostanzialmente stabile rispetto al bollettino di novembre”.
Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia
Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.
Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.
Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.
“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori(numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.). I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominantee fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.
Cliccaqui per leggere i risultati originali dello studio.
Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo
Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.
I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.
Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto.
Cicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.
Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione
Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.
Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone.
I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.
Clicca qui per leggere i risultati originali del lavoro pubblicati sulla rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.