Secondo le attuali evidenze scientifiche le reinfezioni da Covid-19 potrebbero essere tutt’altro che innocue, soprattutto per le persone più fragili
Dopo circa 3 anni di pandemia i casi di reinfezione si sono moltiplicati in tutto il mondo, Italia inclusa. Scienziati da ogni parte del mondo stanno cercando di capire se contagi ripetuti nel tempo possano portare a forme di Covid più gravi. Le evidenze, seppur ancora limitate, mostrano che mentre la maggior parte delle persone reinfettate guarisce in pochi giorni, ci sono casi in cui l’infezione si presenta in maniera più complicata.
Il primo studio sulle reinfezioni da Covid
Il primo studio sui rischi per la salute da infezioni ripetute venne pubblicato lo scorso novembre. La conclusione fu che le persone reinfettate presentavano il doppio delle probabilità di morire e il triplo di essere ricoverate in ospedale con Covid rispetto a quelle infettate solo una volta. A coordinare la ricerca in questione fu Ziyad Al-Aly, epidemiologo clinico della Washington University di St.Louis.
Il team di Al-Aly ha esaminato i dati di quasi mezzo milione di pazienti da Covid-19 trattati dal dipartimento per gli affari dei veterani degli Stati Uniti, tra marzo 2020 e aprile 2022. Tra questi, circa il 10% aveva avuto un’infezione dal virus Sars-CoV-2 tra le due e le quattro volte. Alcuni pazienti hanno continuato ad avere sintomi durante i sei mesi di follow-up e la gravità della malattia è solitamente peggiorata ad ogni nuova infezione Covid. Si tratta di uno studio che ha coinvolto un campione di persone con età avanzata e con patologie pregresse.
Un secondo studio
Un ulteriore studio, pubblicato a gennaio, ha riferito che la gravità della prima infezione prevede quanto grave potrebbe essere la malattia se colpisse di nuovo. In questo caso i ricercatori hanno esaminato le cartelle cliniche elettroniche di una popolazione più diversificata di 1,5 milioni di pazienti Covid trattati negli ospedali statunitensi tra il 1 marzo 2020 e il 1 luglio 2022. Quasi il 6% di questi soggetti fu soggetto a reinfezione. Inoltre, nella maggior parte dei casi, le reinfezioni si sono verificate quando la variante originale di Omicron si stava diffondendo. Tra quelli ricoverati in ospedale con Covid grave la prima volta, quasi la metà è stata nuovamente ricoverata in ospedale quando è stata reinfettata. Al contrario, circa il 90% delle persone con infezioni iniziali lievi ha evitato il ricovero in ospedale quando si è ammalato di nuovo.
I ricercatori di questo secondo studio hanno inoltre scoperto che le reinfezioni erano associate a rischi elevati di Long Covid. In particolare a sintomi persistenti come affaticamento, mancanza di respiro e annebbiamento del cervello. Ma la base di questo collegamento ancora non è totalmente chiaro. “Potrebbero esserci in gioco fattori biologici – afferma Emily Hadley, prima autrice dello studio. O forse – prosegue – i medici stanno semplicemente documentando un arretrato di Long Covid con il nuovo codice diagnostico, diventato disponibile alla fine del 2021”. Un motivo in più, secondo i ricercatori, per vaccinarsi ed effettuare tutti i richiami raccomandati.
Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia
Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.
Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.
Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.
“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori(numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.). I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominantee fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.
Cliccaqui per leggere i risultati originali dello studio.
Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo
Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.
I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.
Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto.
Cicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.
Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione
Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.
Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone.
I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.
Clicca qui per leggere i risultati originali del lavoro pubblicati sulla rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.