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Aumento rischi cardiovascolari post infezione Covid: lo studio

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Un’ampia ricerca della UK Biobank, pubblicata sulla rivista ‘Heart’, spiega come il Covid aumenti considerevolmente il rischio di eventi cardiovascolari

L’infezione da Coronavirus può causare dei risvolti negativi anche per l’apparato cardiovascolare. E’ quanto emerge da un ampio studio della UK Biobank , pubblicato sulla rivista ‘Heart‘. Il lavoro ha coinvolto oltre 50.000 individui, circa 18.000 dei quali positivi al Covid tra marzo 2020 e marzo 2021. Secondo la ricerca britannica il rischio sarebbe più elevato nei primi 30 giorni post infezione.

Sono molteplici i risultati emersi dal lavoro della UK Biobank. Innanzitutto, rispetto ai coetanei che non avevano contratto il virus, coloro che lo hanno avuto senza essere stati ricoverati in ospedale presentavano un rischio quasi 3 volte maggiore di avere un coagulo di sangue. Inoltre presentavano anche un rischio oltre 10 volte maggiore di morire per qualsiasi causa. Ma i pericoli maggiori sono collegati a coloro ricoverati per infezione da Covid. Secondo la ricerca infatti la probabilità di sviluppare una trombosi venosa aumenterebbe di 27 volte rispetto ai soggetti non infettati. O ancora, rischio pari a 21,5 volte maggiore di diagnosi di insufficienza cardiaca e 17,5 volte maggiore di ictus. A ciò bisogna aggiungere il rischio di diagnosi di fibrillazione atriale pari a 15 volte superiore (sempre rispetto ai soggetti negativi), quello di pericardite 14 volte superiore e quello di infarto 10 volte superiore.

La maggior parte delle diagnosi di malattie cardiovascolari, in particolare fibrillazione atriale, trombosi, pericardite e morte per qualsiasi causa, si è verificata entro i primi 30 giorni dall’infezione e tra i ricoverati in ospedale per il Covid. I risultati suggeriscono l’opportunità di fare una profilassi terapeutica a base di farmaci anticoagulanti di almeno una settimana nei pazienti Covid, specie quelli a rischio.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Covid, alla scoperta della nuova variante Eris

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Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia

Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.

Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.

Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.

“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori (numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.).  I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominante e fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio. 

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Covid-19, studio svela il segreto degli asintomatici

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Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo

Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.

I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.

Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto. 

Cicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Covid e Long Covid: dopo due anni in molti hanno ancora sintomi

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Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione

Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.

Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone. 

I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.

Clicca qui per leggere i risultati originali del lavoro pubblicati sulla rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.

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