Secondo il lavoro in questione il virus provocherebbe danni al Dna della cellula e impedirebbe di ripararli, provocando così senescenza cellulare ed infiammazione cronica
Nonostante gli importanti progressi a livello mondiale in materia di Covid, non è ancora chiaro perché il virus Sars-CoV-2 abbia un impatto così grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori. Arrivano però, ulteriori scoperte in merito. Infatti, il gruppo dell’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare Ets (Ifom) ha messo su uno studio per identificare le basi molecolari dell’aggressività e degli effetti del Covid. Da qui, i ricercatori hanno scoperto che il virus causa danni al Dna della cellula e le impedisce di ripararli. Tale procedimento provocherebbe in questo modo senescenza cellulare ed infiammazione cronica. I risultati dello studio sono visionabili sulla rivista ‘Nature Cell Biology’.
“Tutti i virus sono parassiti – spiega il coordinatore dello studio, Fabrizio d’Adda di Fagagna. I virus entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi. E il Covid, in tal senso, è un virus particolarmente abile e avido. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di ‘Hackeraggio’ da parte del virus. Ci siamo anche chiestise vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all’invecchiamento. Tutti eventi accomunati dall’accumulo di danno al Dna”.
Il Covid dirotta i processi fondamentali della cellula
È da tali premesse che i ricercatori hanno individuato, mediante l’uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del Covid, trovandone conferma in vivo, in sistemi modello murini di infezione e in tessuti post-mortem derivati da pazienti affetti dal virus. “Quello che abbiamo trovato – spiegano i ricercatori Ubaldo Gioia e Sara Tavella – è che Sars-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali. In particolare la costringe a smettere di produrre i deossinucleotidi, i ‘mattoni’ del Dna, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i ‘mattoni’ che servono a sintetizzare l’Rna della cellula e, soprattutto, quello del virus. È proprio tale procedimento a consentire l’esplosiva replicazione virale all’interno della cellula infetta dal Covid-19”.
Una conseguenza drammatica di questa sorta di sfruttamento dei meccanismi cellulari risulta essere la carenza di deossinucleotidi. “La cellula – affermano ancora i ricercatori – non riesce a replicare adeguatamente il proprio Dna e accumula danni nel suo genoma. Inoltre, abbiamo scoperto che il virus, oltre a causare la rottura del Dna per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo Dna danneggiato. Il tutto inibisce la proteina 53BP1, essenziale per il processo di riparazione”. Questi due eventi (danneggiamento Dna e inibizione della sua riparazione) causano gravi effetti sulla cellula infetta dal virus e sui pazienti.
Senescenza cellulare ed eccessiva produzione di citochine infiammatorie
“Tra gli effetti più gravi – spiega nuovamente Fabrizio d’Adda di Fagagna – sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule (senescenza cellulare) e anche l’associata produzione di citochine infiammatorie. Non a caso, la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da Covid-19 è proprio un’eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota anche come ‘tempesta di citochine’. In base ai risultati ottenuti abbiamo dunque evidenziato come l’accumulo di danno al Dna possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus”.
Evidenze di invecchiamento accelerato in casi gravi di Covid
Ma il team di esperti non si è fermato qui. “Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucletoidi – spiegano i ricercatori – abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al Dna abbattiamo anche i livelli di infiammazione. È importante evidenziare che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento. Infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi gravi di Covid. In questo senso sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto Long Covid. L’obiettivo è sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia”.
Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia
Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.
Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.
Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.
“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori(numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.). I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominantee fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.
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Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo
Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.
I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.
Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto.
Cicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.
Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione
Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.
Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone.
I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.
Clicca qui per leggere i risultati originali del lavoro pubblicati sulla rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.