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Crisi sanitaria in Italia: intervista al Dott. Carlo Palermo

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Il Dott. Carlo Palermo, Segretario nazionale Anaao Assomed, evidenzia le numerose cause scatenanti di un fenomeno sempre più preoccupante

Che l’attuale Servizio sanitario nazionale sia in crisi non è di certo una novità. Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a numeri impietosi: strutture ospedaliere che chiudono in continuazione, carenza di personale in continuo aumento e posti letto sempre più introvabili. Per fare solo alcuni esempi sono oltre 50.000 le figure sanitarie in meno rispetto ai primi anni 2000. È per questi motivi che Italian Medical News ha intervistato il Dott. Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed, il quale ha rilasciato una serie di considerazioni in merito ad un problema ed una crisi ormai sotto agli occhi di tutti. 

Dottore, quali sono secondo lei le cause di questa crisi?

“Le cause vengono da lontano. Bisogna risalire al periodo della ‘spending review’ che ha determinato un rallentamento rispetto a quelle che erano le necessità dei flussi economici rispetto ad un settore così importante come quello sanitario. La riduzione di questi flussi economici ha causato dei fatti, negativi, concreti. Innanzitutto il blocco del turnover che ha causato circa 50.000 figure sanitarie in meno nel giro di 10 anni, precisamente tra il 2009 e il 2019. A questi numeri spaventosi aggiungiamo quelli dei posti letto: circa 85.000 posti letti in meno a partire dall’inizio del nuovo secolo. Si è verificata una destrutturazione, lenta ma progressiva e inesorabile, della capacità di offerta dei servizi del sistema sanitario nazionale. Questo è il dato di partenza”.

“C’è bisogno di incrementare in modo consistente i contratti di formazione specialista post-laurea”

Se questo è il dato di partenza, esistono anche altre cause quindi?

“Assolutamente si. C’è stato innanzitutto un grossolano errore nei processi di programmazione della formazione post-laurea. C’è bisogno di incrementare in modo consistente i contratti di formazione specialistica post-laurea portandoli da 6.000 a 18.000, e su questo pare che con l’arrivo del ministro della Salute Speranza si stia muovendo qualcosa. Un altro elemento fondamentale del fenomeno della crisi sanitaria sono gli eccessivi carichi di lavoro: non c’è una sostituzione adeguata dei medici e degli infermieri che spesso sono costretti a sostenere turni e carichi di lavoro infernali. Per esempio, la crisi dei Pronto Soccorso, che si può dire sia lo specchio della crisi del Ssn, è prevalentemente legata al fatto che i medici, gli infermieri ecc. sono costretti a svolgere 7-8 turni di servizio, notturno o festivo, praticamente ogni mese”.

Il problema licenziamenti


E’ corretto affermare che dagli eccessivi carichi di lavoro scaturisca il problema dei licenziamenti?

“Certo che sì. Quello dei licenziamenti è un problema tra l’altro difficilmente prevedibile in passato, poiché nessuno poteva immaginare che un medico potesse abbandonare un posto così ambito e di sicuro prestigio sociale come il lavoro in ospedale. Se si blocca il turn-over, se si bloccano le contrattazioni, ne scaturiscono elementi di svilimento del lavoro del medico, sempre più burocratizzato e gravoso, a cui aggiungiamo anche denunce e aggressioni fisiche e verbali; da ciò risulta abbastanza evidente la fuoriuscita di una miscela esplosiva. L’esplosione è stata appunto la fuga dagli ospedali da parte di medici e infermieri. Cercano giustamente di uscire dal burnout e di raggiungere lidi più tranquilli”.

“Per far comprendere la gravità del problema dal 2019 si sono verificati oltre 8.000 licenziamenti: numeri spaventosi. Aggiungiamo anche i pensionamenti che provocano circa 4.000 uscite l’anno e il dado è tratto. Parliamo di 7.000 uscite l’anno tra pensionamenti e licenziamenti. In generale di questo passo si avrà una progressiva riduzione organica. Come già detto prima c’è bisogno di una programmazione corretta ed efficace dei neo-specialisti per iniziare a risolvere il problema”.

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Dott. Carlo Palermo

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Medici ospedalieri, uno su tre vuole cambiare mestiere: la survey

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Il dato emerge da un sondaggio condotto da Anaao Assomed, sindacato dei medici ospedalieri. Alla survey hanno risposto 2130 camici bianchi

Un medico ospedaliero su tre vorrebbe cambiare lavoro per avere più tempo libero e retribuzioni più alte. Fra i camici bianchi più avanti con l’età compare anche l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. La fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal maggior sindacato dei medici ospedalieri, Anaao Assomed. Hanno partecipato alla survey 2130 tra medici e dirigenti sanitari.

I dati e le percentuali

Entriamo nel dettaglio. Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro. Inoltre, 1 su 4 (26,1%) risulta scontento della propria qualità di vita in particolare per quanto concerne la relazione familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e alienazione Un’insoddisfazione che aumenta con il crescere della anzianità di servizio e delle responsabilità. Infatti, i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata, tra i quali si raggiunge l’apice di insoddisfazione tra i 45 e i 55 anni: un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che però il nostro sistema non riesce a garantire.  

Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il primo posto è occupato da incrementi degli stipendi con il 63,9%, seguito a ruota dall’esigenza di una maggiore disponibilità di tempo. Singolare notale come ci sia prevalenza del fattore tempo per le donne sugli uomini che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate. Il sondaggio evidenzia inoltre come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria una maggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e per il tempo libero è più alta (37,9%) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%). In generale, l’aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.

Il 36%, ovvero poco più di 1 su 3, soprattutto nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposto a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema. La crisi della professione è più sentita al sud rispetto al nord. Si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del centro per finire al sud e isole con ben il 64,3% di insoddisfatti. “Ma il dato appare – osserva Anaao Assomed – talmente diffuso da configuare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esista vaccino o terapia”.

L’esigenza di un nuovo modello

È opportuno pensare che pesi il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità. Si tratta infatti della cifra più bassa tra i paesi del G7. Una cifra, ben al di sotto della media europea che si aggira intorno al 11,3% del Pil per la sanità.
Occorre immaginare – propone il sindacato un nuovo modello. Modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura”.

Fonte: Survey Anaao Assomed.

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Aziende fornitrici degli ospedali in crisi per via dell’effetto ‘payback’

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Lo Stato ha chiesto alle imprese del settore di ripianare metà dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Ora le aziende fornitrici degli ospedali sono in ginocchio e molte, specie le più piccole, rischiano di chiudere

Molti dispositivi medici potrebbero mancare negli ospedali a partire da gennaio. Dispositivi salvavita, strumenti per dialisi, valvole cardiache, protesi, ferri chirurgici sono solo alcuni dei strumenti che numerosi medici di tutta Italia rischiano di non avere a disposizione in adeguata misura. Le aziende fornitrici degli ospedali sono infatti in ginocchio e molte, soprattutto le più piccole, rischiano di chiudere. Questo perché lo Stato ha chiesto a ognuna di loro di partecipare al 50% dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Si tratta di un conto salato da 2,1 miliardi da pagare entro trenta giorni.

A lanciare gli allarmi sugli effetti del payback è Massimo Riem, presidente della Federazione italiana fornitori in sanità (Fifo). “Abbiamo una fortissima preoccupazione – afferma Riem. Da gennaio molti ospedali non saranno in grado di assicurare interventi chirurgici e prestazioni perché mancheranno le forniture dei dispositivi medici. È un rischio concreto per i cittadini che avranno bisogno di assistenza. La aziende – prosegue – sono in allarme perché proprio in questi giorni stanno partendo le richieste per gli anni 2015-2018 e si parla di 2,1 miliardi. Questo causerà scompensi inaccettabili”. Quello dei fornitori ospedalieri è un settore composto nel 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100.000 lavoratori coinvolti. 

“A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”

Le imprese evidenziano un ‘effetto payback’ che rischia di abbattersi anche sulle cure e le prestazioni offerte ai cittadini: quelli forniti dalle aziende messe in difficoltà dal payback, come sottolineato da Massimo Riem, “sono prodotti anche salvavita. Un dispositivo medico è la protesi chirurgica, la protesi vascolare, lo stent, i sistemi per l’ossigenazione della circolazione extracorporea etc. . Sono tutti prodotti che servono al nostro sistema sanitario, nei nostri ospedali, per garantire assistenza ai malati. E le forniture rischiano di essere interrotte perché il decreto attuativo del payback, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 settembre scorso, porterà al fallimento la gran parte delle aziende che operano in questo segmento. Le imprese – prosegue il presidente Fifo – non saranno più in grado di fornire dispositivi medici. A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”.

Ma non finiscono qui le dichiarazioni del presidente della Federazione italiana fornitori in Sanità. Al Governo chiediamo una cosa molto semplice: la cancellazione di questa norma del payback – afferma Riem. Una norma inapplicabile che distrugge un tessuto di aziende che quotidianamente garantiscono, con le loro forniture agli ospedali, la possibilità di erogare prestazioni ai cittadini. Si rischia seriamente di distruggere un settore strategico”. 

Fonte: sito web Federazione Italiana Fornitori in Sanità.

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Pronto soccorso, cresce sempre più il fenomeno del “boarding”

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Soprattutto negli ospedali Hub il “boarding” è diventato ormai una regola. La maggior parte dei pazienti arriva ad aspettare anche oltre 5 giorni

L’attesa di un posto letto in reparto da parte di un paziente, dopo la decisione di ricovero, è un fenomeno talmente frequente che ha ormai un preciso nome: “boarding”. Purtroppo si tratta di un fenomeno ormai regola nei pronto soccorso, specie negli ospedali Hub. Le iniziative per tentare di gestirlo sono limitate a documenti ufficiali che ne definiscono la durata massima fissata a 6 ore. La realtà però dice che la maggioranza dei pazienti non aspetta 6 ore, bensì dai 2 fino ai 5 giorni o addirittura oltre. Ma come nasce questo fenomeno e soprattutto in che modo si potrebbe contrastarlo?

Le cause del boarding

Il boarding è una conseguenza dei tagli degli ultimi anni, come il taglio dei Posti Letto per acuti e lungodegenza: in Italia infatti, dal 2010 al 2020 sono stati tagliati 30.492 posti letto per acuti, con una riduzione del 19%. Il taglio maggiore ha riguardato il Molise, la Calabria, la Puglia e la Liguria: in queste regioni è stato tagliato più di 1 posto letto su 4. Ma la riduzione più pesante ha riguardato la lungodegenza, dove si è verificata una diminuzione media nazionale di posti letto che sfiora il 30%.

Ai problemi già citati si aggiunge poi quello dell’occupazione dei posti letto. La maggior parte dei pazienti in boarding è infatti rappresentata da anziani con patologie internistiche, con un tasso di occupazione di posti letto nei reparti di medicina pari al 97,6%. Va infatti ricordato che il tasso ottimale, per evitare aumento di mortalità e morbilità, viene considerato non superiore all’85%, pur se aumentato al 90% dal Decreto Ministeriale n° 70/2015 sugli standard ospedalieri.
Per gestire il problema boarding è dunque attuare delle azioni economiche per incrementare i posti letto, come proposto in più occasioni da Anaao Assomed.
C’è necessità di più letti per acuti e più letti di lungodegenza.

Non solo mancanza di posti letto, ma anche di medici

Un altro difficile capitolo si apre in relazione alla carenza di medici. Il numero di camici bianchi ha toccato il suo massimo nel 2009, per poi diminuire incessantemente fino al 2020, riducendosi di 4.800 unità. In realtà, su questo dato ha inciso positivamente il reclutamento di personale medico causato dalla pandemia da Covid-19 che ha visto l’immissione di circa 1.000 medici. Infatti, se si guardasse il trend fino al 2019, la diminuzione di personale medico sarebbe ancora più accentuata (5.800 unità).

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