Il vaccino ha portato al calo del tasso: dal 4.7% del 2021 all’attuale 0.7%
I casi di positività sono in costante aumento anche se, da ogni parte, c’è l’annuncio di un picco sempre più vicino. Cambiano i dati percentuali però. La differenza sostanziale sta nel numero dei ricoveri che è diminuito di dieci volte rispetto allo scorso anno. In questo stesso periodo. E, ancora più importante, nel tasso di ospedalizzazione. Nel gennaio del 2021 i nuovi casi erano oltre13mila, oggi si parla di oltre 188mila. Numeri molto diversi ma i ricoveri in terapia intensiva sono di meno adesso rispetto ad allora. Sempre mettendo a confronti i due diversi periodi: gennaio 2021 contava 2461 ricoveri in intensiva (oggi 1698), oltre 22mila nei reparti ordinari (oggi oltre 19mila). Infine i decessi in anno fa erano 524 con un picco di mille a novembre del 2021, oggi sono 385.
Il dato che segna la maggiore differenza, nell’arco dei 365 giorni, però, è quello legato alla percentuale di ospedalizzati. Un anno fa, di questi tempi, il 4.7% di quelli definiti nel bollettino ‘attualmente positivi’ erano in ospedale, rianimazione compresa. Oggi aumentano i positivi, oltre due milioni, ma solo lo 0.7% si trova in ospedale. La restante parte sta affrontando il covid a casa. Un tasso di ospedalizzazione che è sceso sensibilmente.
Numeri che si spiegano con la variante Omicron, sicuramente più contagiosa ma meno letale. Ma la considerazione importante nasce anche dal fatto che i vaccini stanno producendo l’esito che tutti si aspettavano.
Raffaele Marfella, Professore ordinario Medicina interna presso l’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, racconta la genesi, lo sviluppo e la conclusione della ricerca
Iperglicemia e Covid-19: la prima può condizionare la seconda? È questa la domanda che si sono posti i maggiori esperti e professionisti dell’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’ e proprio a partire da questa domanda è stato avviato ed elaborato un interessante ed innovativo studio teso a mirare proprio il rapporto tra le due patologie. Italian Medical News ha intervistato una delle principali figure dello studio: Raffaele Marfella, Professore ordinario di Medicina interna presso l’Università degli studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’ e Dirigente Medico AOU Vanvitelli.
Professore, può dirci come è nato lo studio e in che modo si è evoluto?
“Lo studio parte da un nostro background, legato agli effetti dell’iperglicemia e del diabete sulle malattie cardiovascolari. Sappiamo da anni, anche grazie ai contributi del nostro gruppo di ricerca, che l’iperglicemia è in grado di condizionare un po’ tutti quelli che sono gli eventi acuti. Partendo da questo dato, ci siamo chiesti se effettivamente il diabete, ma soprattutto l’iperglicemia, potesse in qualche modo condizionare anche l’andamento della malattia da Covid-19. Abbiamo cominciato questo studio osservando il seguente dato: i pazienti che al momento del ricovero registravano livelli di glicemia più alti, anche senza diagnosi di diabete, avevano una durata della malattia da Covid-19 più lunga della norma. Inoltre, molto spesso, presentavano delle complicanze decisamente gravi. Abbiamo dunque ipotizzato e poi dimostrato con una serie di pubblicazioni, che oggettivamente l’iperglicemia aumentava il danno da Covid”.
“L’aumento del glucosio peggiora la malattia da Covid-19”
Quanto è importante il controllo del glucosio nei pazienti con diabete di tipo 2, specie se affetti da Covid 19?
“Se, come abbiamo dimostrato, l’aumento del glucosio durante il ricovero determina un peggioramento della malattia Covid, ne consegue che il controllo della glicemia favoriva e migliorava l’outcome. Alla base di questo meccanismo bisogna fare un’importante considerazione: l’aumento del glucosio peggiora la malattia Covid 19 perché essa aumenta la coagulazione del sangue. Con il nostro studio abbiamo dimostrato che questo aumento della coagulazione è ampliato dall’iperglicemia. Per essere più chiaro: nei pazienti con glicemia di 180 mg/dL , considerando che il valore normale è massimo 120 mg/dL, il sangue coagula più facilmente. Dunque la situazione di un paziente affetto da Covid e con iperglicemia sarà caratterizzata da una notevole aumento della coagulazione del sangue. Il tutto provoca una situazione che definirei drammatica. Il dato positivo è che se noi abbassiamo la glicemia, la coagulazione migliora. Di conseguenza migliora anche la sopravvivenza dei nostri pazienti”.
Il vostro studio si è basato (si legge sull’estratto) sull’analisi e la valutazione di 59 pazienti con Covid-19 ricoverati in ospedale, con particolare attenzione sui livelli glicemici e iperglicemici. Può dirci qualcosa in merito?
“Innanzitutto abbiamo differenziato i pazienti esclusivamente sui livelli di glicemia, monitorandoli nel tempo, analizzando e registrando tutti gli eventi. Poi, a fine studio abbiamo realizzato un analisi post-hoc: dopo aver raccolto tutti i dati, di tutti i pazienti, c’è stata una selezione di quelli che erano sovrapponibili per età, patologie concomitanti, terapie e quant’altro. È un tipo di analisi statistica che ti consente di seguire tutti i pazienti all’inizio, per poi selezionare coloro che puoi confrontare. Un’analisi che parte generale per poi diventare selettiva. È una metodica che si usa per tutti gli studi osservazionali”.
Conclusioni dello studio
Come si può riassumere il senso dello studio?
“Con due considerazioni in particolare. La prima è negativa: ovvero che il paziente iperglicemico non è un paziente raro. Infatti poco meno del 50% dei pazienti ricoverati hanno livelli di glicemia superiori a 140 mg/dL. Dunque tantissime persone, anche senza diagnosi di diabete, sono a rischio di malattie più gravi. La considerazione positiva è che l’abbassamento della glicemia annulla l’effetto deleterio dell’iperglicemia stessa. Il senso di questo studio è di fare attenzione, tra i vari parametri, alla glicemia. Un parametro spesso sottovalutato. Bisogna porre l’attenzione sul controllo della glicemia che può dare ottimi risultati in termini di sopravvivenza”.
Vuole aggiungere qualcosa in particolare?
“Volevo sottolineare l’importanza che avuto l’Università ‘Luigi Vanvitelli’. Da tutti i reparti e da tutti i gruppi di ricerca è stato affrontato il problema Covid con uno spirito importante. Abbiamo dimostrato una significativa resilienza, adattando tutte le nostre conoscenze di ricercatori ad una malattia nuova che non conoscevamo come il SARS-CoV-2”.
Secondo le prime indiscrezioni il booster fornisce una forte risposta immunitaria contro le varianti più preoccupanti, tra cui Omicron
Risultati incoraggianti contro le varianti di maggiore preoccupazione del Covid-19. È questo il responso relativo al nuovo vaccino booster di Sanofi-Gsk. È la stessa azienda (Sanofi) a riferirlo in un comunicato stampa in cui illustra i risultati di due studi clinici. Tra l’altro, il laboratorio francese sta proseguendo le sperimentazioni sull’uomo, anche come dose di richiamo. Sarebbe il primo vaccino commercializzato per entrambe le industrie farmaceutiche.
Nello specifico, i dati di uno studio di fase III (l’ultimo prima della eventuale, ma probabile commercializzazione) sul vaccino di richiamo di nuova generazione di Sanofi e GSK hanno indotto un aumento significativo delle concentrazioni di anticorpi neutralizzanti, rispetto alle concentrazioni precedenti la somministrazione della dose di richiamo, come precisa Sanofi nel suo comunicato.
In altre parole, il candidato booster offre un potenziamento immunitario negli adulti che in precedenza si erano immunizzati con vaccini mRNA. La riposta immunitaria sarebbe più forte rispetto al vaccino booster Comirnaty di Pfizer-BioNTech. Il nuovo booster ha dimostrato di avere il potenziale di proteggere contro le varianti di Covid-19 che destano maggiore preoccupazione, tra cui Omicron BA.1 e BA.2, con un profilo di sicurezza e tollerabilità favorevole.
“In questo studio – recita il comunicato pubblicato da Sanofi – che comprendeva 247 soggetti, tutti e tre i vaccini hanno anche provocato anticorpi neutralizzanti contro la variante Omicron BA.1, con le più alte risposte generate dal candidato di nuova generazione Sanofi-GSK. I risultati dello studio COVIBOOST sono disponibili su un server di prestampa, in attesa della pubblicazione in una rivista peer-reviewed.In entrambi gli studi, il candidato al vaccino di prossima generazione Sanofi-GSK è stato ben tollerato, con un profilo di sicurezza favorevole. Nello studio VAT02 – conclude il comunicato – di coorte 2, sono riportati numeri bassi (meno del 4%) di reazioni di grado 3, tutti transitori e non”.
I risultati della ricerca potrebbero aiutare a individuare nuove strategie per mitigare gli effetti a lungo termine del Covid
Potrebbe esserci un modo per sapere se un adolescente svilupperà il Long Covid dopo aver contratto il virus. Si tratterebbe di una serie di biomarcatori potenzialmente predittivi di una sindrome post-infezione che sembra essere sempre più frequente. A scoprirlo è stato uno studio pilota, coordinato da Marco Fiore e Carla Petrella dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Ibbc). I risultati sono inoltre pubblici sulla rivista Diagnostics.
Nello specifico, in una percentuale di guariti dal Covid-19 permane una condizione di malessere definita Long Covid. Questa è caratterizzata da astenia, affaticamento, respirazione difficoltosa e da sintomi cognitivi, come perdita di memoria, difficoltà di concentrazione, ma anche ansia e depressione. Questi vengono spesso indicati come‘brain fog’ e sono alla base del quadro clinico definito come NeuroCovid. La grande scoperta dello studio è che i ricercatori hanno trovato un modo che può aiutare a individuare gli adolescenti più a rischio.
Le parole dell’esperto
Marco Fiore, uno dei due principali coordinatori dello studio, spiega nel dettaglio i risultati dello studio. “Abbiamo misurato i livelli di alcuni biomarcatori infiammatori e di due neurotrofine (Ngf e Bdnf). Questi sono fattori proteici che regolano la crescita, la sopravvivenza e la morfologia dei neuroni, nel siero di una piccola coorte di ragazzi e ragazze che avevano contratto l’infezione durante la seconda ondata della pandemia, tra settembre e ottobre 2020, ma negativi al momento del prelievo”. La ricerca ha visto la suddivisione dei ragazzi in 3 gruppi: asintomatici, sintomatici acuti e sintomatici acuti che nel tempo hanno sviluppato sintomi del Long Covid.
“Questi dati – prosegue Fiore – sono stati poi confrontati con i valori emersi da un gruppo campione che non aveva contratto la malattia. Abbiamo riscontrato che i livelli sierici di Ngf erano inferiori in tutti gli adolescenti che avevano contratto l’infezione da Sars-Cov-2, rispetto ai controlli sani. La relazione inversa fra livelli di Nfg e sindromi da stress – prosegue l’esperto – è ampiamente riportata dalla letteratura scientifica”. Nella sostanza, la ricerca ipotizza che la diminuzione di Ngf rifletta un’attivazione persistente dell’asse dello stresso, dovuta a un effetto diretto del virus oppure agli effetti psico-sociali conseguenti all’isolamento e a tutte le condizioni scaturite dai periodi di quarantena.
Gli esperti approfondiranno gli studi. La ricerca sarà allargata a una coorte di adolescenti più ampia. “I dati dello studio supportano però gia l’ipotesi che le variazioni sieriche di Ngf e Bdnf rappresentino un campanello d’allarme per l’effetto a lungo termine di Covid-19 – spiega ancora Fiore. Tramite questo studio si apriranno nuovi campi di indagine sia nell’ambito degli effetti fisici sia in quelli psicologici potenzialmente associabili al NeuroCovid” – conclude lo studioso.
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