Secondo un nuovo studio condotto da un equipe di esperti italiani e statunitensi l’assenza di cibo provoca alterazioni nell’espressione genica della corteccia cerebrale
Per molti digiunare è una pratica a cui spesso si dà seguito. Ma cosa succede di preciso al cervello in conseguenza a uno scarso apporto di alimenti? Questo quesito è alla base di uno studio coordinato da Paola Tognini, ricercatrice del Dipartimento di Ricerca traslazionale dell’Università di Pisa, Unità di Fisiologia. La ricerca dimostra in particolare come l’assenza di cibo provochi alterazioni nell’espressione genica della corteccia cerebrale, influenzando in particolare l’orologio biologico. I risultati del lavoro sono frutto di una collaborazione tra l’ateneo pisano, l’University of California di Irvine, la Scuola Normale di Pisa, l’Istituto di neuroscienze e di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche e infine dell’Irccs Fondazione Stella Maris. I risultati, inoltre, sono pubblicati su ‘Cellular Molecular Life Sciences’.
Il team di esperti ha spiegato in particolare come il beta-idrossibutirrato abbia la capacità di alterare la cromatina e l’espressione genetica nella corteccia cerebrale. Il beta-idrossibutirrato è un corpo chetonico prodotto dal nostro organismo durante il digiuno. “L’assenza di cibo rappresenta uno stimolo stressante per il nostro organismo – spiega Tognini. L’organismo si trova infatti a dover rispondere alle richieste energetiche di un gran numero di tessuti. Il glucosio non è più sufficiente e il nostro corpo comincia a produrre corpi chetonici come fonte energetica alternativa”.
“Abbiamo scoperto drammatici cambiamenti nell’espressione genica del cervello”
“Il beta-idrossibutirrato – prosegue l’esperta – è il principale corpo chetonico che raggiunge il cervello durante periodi di diguno. In passato si pensava che il cervello usasse il beta-idrossibutirrato solo come substrato per produrre energeia. In questo lavoro però abbiamo utilizzato le tecniche di spettrometria di massa ad alta risoluzione per misurare le concentrazioni di beta-idrossibutirrato nel fegato (dove viene principalmente prodotto), nel plasma (dove viene rilasciato) e nel cervello. Da qui abbiamo scoperto che le cellule cerebrali sfruttano il beta-idrossibutirrato anche come donatore chimico, causando alterazioni nella struttura di proteine, in particolare proteine che si trovano nel nucleo delle cellule e che sono in contatto con il DNA. In conseguenza di ciò – conclude Tognini – abbiamo scoperto drammatici cambiamenti nell’espressione genica del cervello”.
I ricercatori hanno osservato che i principali cambiamenti nell’espressione dei geni riguardano l’orologio circadiano. Questo è il sistema che regola i processi biologici in sincronia con l’alternanza del giorno e della notte nell’arco di 24 ore. “I nostri esperimenti – spiega Sara Cornuti, co-autrice del valoro – dimostrano che non solo i livelli dei geni dell’orologio erano alterati. Ma anche l’attività locomotoria subisce dei cambiamenti. Abbiamo inoltre verificato che queste variazioni di ritmo circadiano si mantengono anche dopo la reintroduzione del cibo, suggerendo l’esistenza di una traccia di memoria nei circuiti implicati nel controllo di tali ritmi”.
Il nuovo studio apre, secondo gli autori, nuove frontiere per l’utilizzo della nutrizione o dei supplementi alimentari come strategie alternative o adiuvanti per il trattamento di disturbi del neurosviluppo o neuropsichiatrici.
Il dato emerge da uno studio condotto dalle Università di Oxford e Pechino e pubblicato sulla rivista ‘JACC: Advances’
Chi abita in zone molto trafficate ha talvolta la sensazione che il rumore gli stia facendo esplodere la testa. Una ragione in realtà c’è. Uno studio condotto dalle Università di Pechino e Oxford ha dimostrato come il rumore del traffico, da solo, è sufficiente ad aumentare il rischio di ipertensione, cioè di pressione alta. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivisita scientifica specializzata in salute cardiovascolare: JACC: Advances.
Più che di una scoperta vera e propria si tratta di una conferma. Da tempo infatti si ipotizza vi sia un legame tra l’esposizione continua al rumore delle auto in movimento e probabilità più elevate di sviluppare problemi di pressione. Occorrevano, però, prove più consistenti su questo legame, e restava da comprendere se l’effetto dipendesse soltanto dall’inquinamento acustico o anche da quello atmosferico.
Lo studio prospettico
Nel nuovo lavoro, Jing Huang, scienziato esperto di salute ambientale alla Peking University (Pechino), ha realizzato uno studio prospettico (ovvero che monitora l’evoluzione di un parametro del tempo) utilizzando i dati di 240.000 persone tra i 40 e i 69 anni estratti dallo UK Biobank, un database punto di riferimento per le ricerche mediche. I partecipanti scelti inizialmente non soffrivano di ipertensione. Gli scienziati hanno stimato la quantità di rumore a cui erano esposti, verificando i dati sull’inquinamento acustico nella loro area residenziale e li hanno seguiti nel tempo per un periodo mediano di 8,1 anni, osservando chi nel frattempo avesse avuto episodi di pressione alta.
Nell’arco di tempo analizzato, non solo chi viveva in una via esposta al rumore del traffico aveva sviluppato con maggiori probabilità l’ipertensione, ma il rischio sembrava essere aumentato pari passo con la quantità di rumore ricevuta. Tale collegamento diretto si è dimostrato valido anche isolando l’effetto da quello provocato invece dallo smog. Di certo chi oltre ad essere sottoposto all’inquinamento acustico respira elevate quantità di polveri sottoli corre il rischio di ipertensione più elevato in assoluto.
Intervenire sulle fonti di rumore più assordanti potrebbe migliorare la salute cardiovascolare dei cittadini. Inoltre, di conseguenza, potrebbe prevenire ulteriori costose misure sanitarie. Serviranno ulteriori studi per approfondire il meccanismo attraverso il quale l’inquinamento acustico favorisce l’ipertensione, ma è ormai evidente il collegamento causa-effetto.
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La denervazione renale rappresenta una soluzione alternativa al problema dell’ipertensione. Ne parla una ricerca pubblicata su ‘Jama Cardiology’
Un dispositivo per il rilascio di ultrasuoni che disattivano alcune terminazioni nervose che si trovano lungo le pareti esterne delle arterie renali. In altri termini, la cosiddetta denervazione renale. Una vera e propria soluzione alternativa al problema dell’ipertensione, da utilizzare quando i farmaci non sembrano sufficienti a riportare i valori di massima e minima nella norma. Una ricerca condotta dall’Università della Columbia e pubblicata su Jama Cardiology dimostra l’efficacia dell’approccio. Gli ultrasuoni riescono infatti a ridurre mediamente di oltre 8 punti i valori pressori nei soggetti di mezza età.
I dato presentati nello studio si riferiscono ad oltre 500 pazienti in età adulta, con ipertensione di vario grado e sottoposti a trattamenti farmacologici, ottenuti in tre diversi trial. Rispetto al gruppo di controllo (che si è limitato a proseguire il trattamento precedente) il numero di pazienti che ha raggiunto l’obiettivo dei 135/85 millimetri di mercurio è stato doppio. “Il risultato – rileva Ajay Kirtane, tra gli autori dello studio – è quasi identico nei diversi gruppi d studio. Ciò dimostra definitivamente che il dispositivo può abbassare la pressione sanguigna in un’ampia popolazione di pazienti”.
La denervazione renale spegne l’attività del sistema nervoso simpatico che influenza direttamente il sistema nervoso. I segnali nervosi diretti ai reni contribuiscono a regolare il flusso sanguigno renale, la ritenzione dei sali e l’attivazione del sistema renina-angiotensina, che interagisce con la pressione. I segnali che invece dai reni vanno verso il sistema nervoso mettono in moto meccanismi che favoriscono l’aumento pressorio. I soggetti trattabili con la denervazione renale sono quelli con ipertensione resistente. Si tratta di quei soggetti con un controllo non soddisfacente dei livelli di pressione sistolica e diastolica anche utilizzando diversi farmaci.
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Secondo uno studio pubblicato sull’European Heart Journal dormire meno di cinque ore a notte si associa a un rischio raddoppiato di malattia vascolare delle arterie periferiche
Che una buona qualità del sonno fosse importante in termini di salute è qualcosa di ormai noto. Arrivano però sempre più studi che confermano tale teoria. Infatti, dormire meno di cinque ore a notte si associa a rischio quasi doppio di malattia vascolare delle arterie periferiche. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sull’European Heart Journal che ha coinvolto oltre 650.000 persone.
“Il nostro studio suggerisce che dormire sette-otto ore a notte è una buona abitudine per ridurre il rischio di questa condizione” – ha dichiarato il principale autore dello studio, Shuai Yuan, dell’istituto ‘Karolinska’ di Stoccolma. Oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di arteriopatia periferica, una condizione in cui le arterie delle gambe sono ostruite, limitando il flusso sanguigno e aumentando il rischio di ictus e infarto.
Il procedimento
I ricercatori hanno analizzato le associazioni tra durata del sonno e sonnellino diurno con il rischio di arteriopatia periferica. Successivamente hanno utilizzato una tecnica chiamata ‘randomizzazione mendeliana’ per esaminare l’esistenza di un eventuale nesso di causa-effetto tra disturbi del sonno e arteriopatia periferica. È dunque emerso che dormire meno di cinque ore a notte si associa a un rischio quasi doppio di arteriopatia periferica rispetto alle sette-otto ore. Per quanto concerne l’esistenza di una associazione causa-effetto tra le due condizioni (sonno disturbato e arteriopatia periferica) si è visto che da un lato chi dorme poco ha un aumento del rischio di arteriopatia periferica; dall’altra chi già soffre di tale patologia ha una maggiore probabilità di dormire poco. In altri termini, un disturbo causa l’altro e viceversa.
“Sono necessarie ulteriori ricerche su come interrompere l’esame bidirezionale tra sonno ridotto e arteriopatia periferica – spiega Yuan. I cambiamenti dello stile di vita che aiutano le persone a dormire di più, come l’essere fisicamente attivi, possono ridurre il rischio di sviluppare la condizione. Inoltre, per chi già ne soffre, la gestione del dolore associato alla malattia potrebbe consentire ai pazienti di dormire bene”.
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