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Epatite infantile: alla base c’è il virus adeno-associato 2

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Ad arrivare alla conclusione sono tre recenti studi indipendenti pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Nature’

Le conclusioni di tre studi indipendenti pubblicati su Nature concordano nell’indicare la presenza di un virus adeno-associato 2 alla base dell’insorgenza di casi di epatite acuta grave infantile verificatisi nel 2022. Si tratta di un virus infantile in grado di moltiplicarsi solo in presenza di un altro virus, un adenovirus o un herpesvirus. Nel 2022, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva lanciato l’allarme comunicando l’esistenza di oltre 1.000 casi probabili di epatite infantile a eziologia sconosciuta, che avevano causato 22 decessi fra i bambini. Il primo collegamento fu con Sars-CoV-2; l’ipotesi però, ora, è ampiamente esclusa.

Il primo studio, firmato da Charles Chiu (noto infettivologo dell’Università della California) ha analizzato, attraverso una serie fitta di controlli, i campioni ematici di 16 bambini americani con epatite acuta grave di origine sconosciuta. La presenza di AAV2 (virus adeno-associato 2)  è stata accertata in 13 bambini, ai quali sono state rilevate anche co-infezioni con virus altri virus (come l’Epstein-Barr).

Negli altri due studi Emma Thomson della London School of Hygiene and Tropical Medicine e Judith Breuer, virologa all’University College London, riportano risultati simili dal Regno Unito. In particolare, il primo gruppo di ricerca britannico ha scoperto l’AAV2 in 26 casi di epatite infantile su 32. Il secondo, quello guidato da Judith Breuer, ha rilevato il virus adeno-associato 2 addirittura in 27 casi su 28. Resta comunque da chiarire il ruolo svolto da AAV2 nell’epatite acuta grave.
Secondo i ricercatori, infatti, c’è un altro tassello da considerare. Servirebbe anche una variante specifica di un gene ospite chiamato antigene leucocitario umano (o HLA) per rendere le vittime suscettibili alla grave forma di epatite.

 Fonti: 1° Studio – 2° e 3° Studio

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Stress e mal di pancia: svelata la correlazione

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Un gruppo di esperti dell’Università della Pennsylvania ha scoperto il meccanismo biologico che lega lo stress ad un quadro di infiammazione intestinale

Svelato il legame tra stress e mal di pancia. A scoprirlo un gruppo di esperti dell’Università della Pennsylvania guidato da Cristoph Thaiss. In particolare, lo studio condotto dal team statunitense ha identificato il meccanismo biologico che lega lo stress psicologico ad un quadro di infiammazione intestinale. Si tratta di una scoperta che potrebbe migliorare i trattamenti per le patologie gastrointestinali croniche come la malattia infiammatoria intestinale (IBD). I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista ‘Cell’.

La ricerca è stata condotta in un primo momento sui topi con sintomi simili all’IBD. Per una settimana, i ricercatori hanno collocato otto roditori all’interno di piccoli tubi per 3 ore al giorno così da indurre stress. Poi hanno trattato i topi con un irritante chimico per sette giorni così da provocare i sintomi dell’IBD. Successivamente tre topi hanno ricevuto un farmaco per bloccare il rilascio degli ormoni dello stress (glucocorticoidi) da parte del cervello. I ricercatori hanno infine eseguito una colonscopia sui roditori valutando l’infiammazione intestinale e il danno intestinale tra 0 e 15, con punteggio leggermente inferiore a 15: un dato che indica che i glucocorticoidi sono importanti per l’infiammazione intestinale indotta dallo stress.

Conclusioni

Il team ha scoperto che i topi con glucocorticoidi persistentemente elevati presentano un’attività maggiore dei geni pro-infiammatori. L’analisi genetica ha anche rilevato che lo stress altera i neuroni dell’intestino, necessari per guidare la motilità intestinale. L’equipe ha convalidato questi risultati in 63 persone con IBD, raccogliendo e analizzando geneticamente campioni di tessuto dal colon di ognuno. I partecipanti hanno anche compilato un questionario di valutazione dello stress. Le persone più stressate presentavano maggiori danni intestinali e un aumento maggiore dei marcatori infiammatori, simili a quelli osservati nei topi. La scoperta apre alla messa a punto di nuovi trattamenti per il colon irritabile, che tengano conto anche delle condizioni psicologiche della persona. 

Fonte.

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Rivelato il legame tra sclerosi multipla e virus mononucleosi

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Nuovo studio svedese conferma la correlazione tra il virus della mononucleosi e la sclerosi multipla, fornendo spiegazioni sui meccanismi sottostanti

Per lungo si è supposto l’esistenza di una correlazione tra il virus della mononucleosi e la sclerosi multipla. Un recente studio condotto dal Karolinska Institutet in Svezia non solo ha confermato questa teoria, ma ha anche approfondito i meccanismi sottostanti di questa pericolosa parentela. Pubblicato sulla rivista Science Advances, lo studio ha rilevato che alcune persone possiedono anticorpi che erroneamente attaccano una proteina presente nel cervello e nel midollo spinale, in risposta al virus.

L’infezione da virus Epstein-Barr (EBV) colpisce la maggior parte delle persone nelle prime fasi della vita e persiste nel corpo senza sintomi evidenti. Recenti evidenze scientifiche suggeriscono che l’infezione da EBV precede lo sviluppo della sclerosi multipla e che tale correlazione sia legata agli anticorpi diretti contro il virus. Secondo uno studio condotto dal Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del già citato istituto svedese, l’EBV potrebbe svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo della sclerosi multipla. Olivia Thomas, ricercatrice post-doc e co-autrice dello studio, afferma che la sclerosi multipla è una malattia estremamente complessa e che la ricerca fornisce un pezzo importante del puzzle, spiegando perché alcune persone ne sono affette. In particolare, è stato scoperto che alcuni anticorpi specifici contro il virus Epstein-Barr, che normalmente dovrebbero combattere l’infezione, possono erroneamente danneggiare il cervello e il midollo spinale.

Lo studio nel dettaglio

Attraverso l’analisi di campioni di sangue provenienti da oltre 700 pazienti affetti da sclerosi multipla e 700 individui sani, i ricercatori sono arrivati a interessanti conclusioni. Hanno infatti scoperto che gli anticorpi diretti contro una proteina chiamata EBNA1 presente nel virus Epstein-Barr possono anche legarsi a una proteina simile nel cervello e nel midollo spinale chiamata CRYAB . Il ruolo di CRYAB è quello di prevenire l’aggregazione delle proteine durante lo stress cellulare, come l’infiammazione.

Tuttavia, questi anticorpi cross-reattivi possono erroneamente danneggiare il sistema nervoso, causando gravi sintomi tra cui problemi di equilibrio, mobilità e affaticamento. Si è riscontrato che questi anticorpi erano presenti in circa il 23% dei pazienti affetti da sclerosi multipla e nel 7% degli individui nel gruppo di controllo. Thomas afferma che, sebbene queste risposte anticorpali non siano sempre indispensabili per lo sviluppo della malattia, possono essere coinvolte nella sclerosi multipla in una percentuale significativa, fino a un quarto dei pazienti.

“Questo dimostra anche l’elevata variazione tra i pazienti, evidenziando la necessità di terapie personalizzate – sottolinea l’esperta. Le attuali terapie sono efficaci nel ridurre le ricadute nella sclerosi multipla, ma sfortunatamente nessuna può impedire la progressione della malattia”.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che probabilmente esiste una reattività crociata simile tra le cellule T del sistema immunitario. “Stiamo attualmente espandendo la nostra ricerca per studiare come le cellule T combattono l’infezione da EBV e come queste cellule immunitarie possono danneggiare il sistema nervoso nella sclerosi multipla, contribuendo così alla progressione della malattia”conclude Mattias Bronge, ricercatore del Karolinska Institutet e co-autore dello studio.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Morbo di Crohn, scoperte nuove varianti genetiche

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La scoperta arriva da un team del Wellcome Sanger Institute di Hinxton, nel Regno Unito. I risultati sono stati pubblicati su ‘Nature Genetics’

Dieci alterazioni genetiche sarebbero alla base di un maggior rischio di insorgenza del morbo di Crohn. Lo dimostra uno studio pubblicato su ‘Nature Genetics’ da un gruppo di esperti del Wellcome Sanger Institute di Hinxton, nel Regno Unito. I geni individuati rappresentano una conferma del ruolo delle cellule dell’immunità innata e adattativa e dell’autofagia nella patogenesi del morbo. Inoltre, sottolineano anche il ruolo delle cellule mesenchimali nello sviluppo e nel trattamento dell’infiammazione intestinale.

“La maggior parte degli esseri umani avrà alcune delle varianti genetiche che aumentano la suscettibilità alle malattie infiammatorie intestinali come il morbo di Crohn – spiega Aleksejs Sazonovs, primo autore dello studio. Altre varianti, più rare, possono aumentare di quattro o cinque volte la probabilità che una persona sviluppi queste malattie. Quindi è particolarmente importante individuarle e comprendere quali processi biologici influenzano”.

Precedenti studi avevano già identificato oltre 200 regioni nel genoma che contribuiscono al rischio della malattia. I ricercatori hanno analizzato i dati di sequenziamento dell’esoma di circa 30.000 pazienti affetti da morbo di Crohn e di circa 80.000 persone sane. In questo modo sono state individuate varianti genetiche in 6 geni divisi in regioni non connesse in precedenza con la malattia. Scoperti, inoltre, 4 geni in regioni già associate alla malattia infiammatoria intestinale dagli studi di associazione genome-wide (GWAS), ovvero studi che generalmente identificano varianti che sono al di fuori dei geni codificanti proteine. 

Infine, il team ha individuato una variante rara nel gene TAGAP che ha invece l’effetto opposto, ovvero riduce il rischio della malattia. Identificare nuove varianti genetiche che aumentano o riducono il rischio di una malattia è un aspetto fondamentale per lo sviluppo di nuove terapie.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio. 

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