L’esperimento dei ricercatori del Mit – Massachussets Institute of Technology potrebbe essere utile nel Parkinson e nell’Alzheimer
In che modo risponde il cervello dinanzi a un evento evento inaspettato? Secondo uno studio del Mit – Massachussets Institute of Technology davanti agli imprevisti il cervello risponde con una scarica di noradrenalina. La noradrelina è un neuromodulatore, come la dopamina e la serotonina, prodotto in una struttura profonda del cervello: il locus coeruleus. La noradrenalina può avere effetti su ampie aree cerebrali come dimostrato da vari esperimenti effettuati sui topi. Infatti secondo diversi studi questa particolare molecola avrebbe un ruolo chiave: quello di aiutare il cervello a imparare da scenari inattesi.
I ricercatori del Mit, guidati dal professore di Neuroscienze Mriganka Sur, hanno constatato come, oltre a segnalare l’effetto sorpresa, la noradrenalina aiuti a stimolare il cervello. Più precisamente a condurlo a un comportamento che porti a ottenere una ricompensa, in particolare in quelle situazioni dove questa ricompensa è incerta. Durante l’esperimento i ricercatori hanno addestrato dei topi a spingere una leva solo quando sentivano un tono ad alta frequenza. In questo preciso caso ricevevano come premio dell’acqua, ma in caso di errore venivano investiti da un soffio d’aria fastidioso. I topi hanno anche imparato a spingere più forte la leva quando il volume del suono era più alto, mentre erano più esitanti quando il volume era basso.
“Lo studio conferma la funzione centrale della noradrenalina”
È proprio il professore Sur a spiegare nel dettaglio la situazione. “L’animale spinge la leva perché vuole una ricompensa e il locus coerelus fornisce segnali critici per dire: spingi ora, perché la ricompensa arriverà”. Il suo team ha anche scoperto che i neuroni che producono noradrenalina la inviano a gran parte della corteccia motoria. E questo è un ulteriore indizio del fatto che questo segnale stimoli gli animali all’azione.
“Anche se eseguito su topi, lo studio conferma la funzione centrale della noradrenalina” – spiega Daniela Perani, neurologa e neuroradiologa, professoressa di Neuroscienze dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. “Il sistema noradrenergico contribuisce all’attenzione, alla vigilanza e ai meccanismi di sopravvivenza. Ma modula anche molti altri sistemi del cervello, da quelli motori e sensoriali, a quelli cognitivi, come la memoria“.
Il ruolo della noradrenalina nelle malattie neurodegenerative
Ma un punto essenziale e fondamentale è il ruolo della noradrenalina anche nelle malattie neurodegenerative: “Nel Parkinson i neuroni del locus coeruleus degenerano anche prima di quelli della dopamina, cosa che spiega la sintomatologia non motoria di questa malattia – prosegue Perani. La stessa degenerazione è presente nella malattia di Alzheimer. E pure nel Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD) sembra coinvolta la noradrenalina, tanto che esistono già farmaci che agiscono su questa molecola“.
Uno studio statunitense ha dimostrato come un’app possa aiutare le persone che soffrono di emicrania a gestire gli attacchi e prendere decisioni sui migliori farmaci da assumere
Un’app per smartphone si dimostra efficace nel gestire gli attacchi di emicrania, offrendo una vasta gamma di opzioni di trattamento utili, soprattutto per coloro che stentano a trovare un farmaco affidabile ed efficace. In che modo riesce? A spiegarlo è un nuovo studio, basato su dati raccolti da quasi 300.000 individui condotto presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota. La ricerca ha rivelato che questa app può facilitare la presa di decisioni in merito ai farmaci. In particolare, il lavoro evidenzia che alcune categorie di farmaci, come i triptani, l’ergot e gli antiemetici, possono risultare da due a cinque volte più efficaci rispetto all’ibuprofene, un comune antidolorifico. Tutti i risultati sono pubblicati sulla rivista Neurology.
“Esistono molte opzioni di trattamento disponibili. Tuttavia, mancano confronti diretti sull’efficacia” – ha affermato l’autore principale dello studio, Chia-Chun Chiang. Durante un periodo di sei anni, i ricercatori hanno analizzato oltre 3 milioni di episodi di emicrania riportati da quasi 300.000 utenti di un’applicazione per smartphone. Questa app offre agli utenti la possibilità di tracciare la frequenza degli attacchi di emicrania, individuare i trigger, monitorare i sintomi e valutare l’efficacia dei farmaci. Nel corso della ricerca, i partecipanti hanno documentato complessivamente 4,7 milioni di tentativi di trattamento utilizzando diversi farmaci, contribuendo così a una vasta raccolta di dati significativa.
Gli effetti dei singoli farmaci
I ricercatori hanno valutato l’utilità di ciascun farmaco, utilizzando tali informazioni per calcolare l’efficacia relativa di ogni sostanza rispetto all’ibuprofene, appartenente alla famiglia degli antiinfiammatori non steroidei (FANS). Nel complesso, sono state esaminate 25 sostanze appartenenti a sette classi di farmaci, includendo diverse dosi e formulazioni. Secondo i risultati dello studio, le tre classi di farmaci più efficaci rispetto all’ibuprofene risultano essere i triptani, che si sono dimostrati cinque volte più efficaci, gli ergotici, con un’efficacia triplicata, e gli antiemetici, che hanno evidenziato un’efficacia due volte e mezzo superiore.
Nell’analisi specifica dei singoli farmaci, i tre più efficaci sono emersi come l’eletriptan, con un’efficacia sei volte superiore a quella dell’ibuprofene, lo zolmitriptan, risultato cinque volte più efficace, e il sumatriptan, anch’esso cinque volte più efficace. I ricercatori hanno notato che l’eletriptan è stato valutato come utile nel 78% dei casi, lo zolmitriptan nel 74% dei casi e il sumatriptan nel 72% dei casi. In contrasto, l’ibuprofene è risultato utile solo nel 42% dei casi, sottolineando la significativa disparità nell’efficacia tra questi farmaci.
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Un team italo-britannico ha dimostrato che l’iniezione di cellule staminali nel cervello di pazienti con sclerosi multipla progressiva è sicura, ben tollerata e ha un effetto protettivo duraturo
Un trial clinico sulla sclerosi multipla progressiva ha riportato risultati promettenti. Un team italo-britannico, infatti, ha confermato la sicurezza e la buona tollerabilità dell’iniezione di un particolare tipo di cellule staminali nel cervello dei pazienti affetti da questa forma di sclerosi multipla (SM). I risultati, pubblicati sulla rivista Cell Stem Cell, indicano inoltre un effetto duraturo che sembra proteggere il cervello da ulteriori danni. Lo studio, condotto da ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Milano Bicocca, dell’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza dell’Ente Ospedaliero Cantonale di Lugano, e dell’Università del Colorado, costituisce un significativo passo avanti nel percorso verso lo sviluppo di una terapia cellulare avanzata per la SM progressiva.
Gli scienziati hanno concluso con successo uno studio clinico di fase iniziale, focalizzato sull’iniezione di cellule staminali neurali nel cervello di 15 pazienti italiani affetti da sclerosi multipla (SM). Il team italiano, in precedenza, aveva già dimostrato la capacità di generare una fornitura praticamente illimitata di tali cellule staminali da un unico donatore. In prospettiva, potrebbe diventare fattibile derivare direttamente queste cellule dal paziente stesso, contribuendo così a risolvere le sfide pratiche associate all’utilizzo di tessuti fetali allogenici.
I risultati dopo un anno di osservazione
Il team ha monitorato attentamente i pazienti per un periodo di 12 mesi, durante il quale non sono stati registrati decessi legati al trattamento o eventi avversi gravi. Al momento dell’inizio dello studio, tutti i pazienti presentavano livelli significativi di disabilità, con la maggior parte di essi confinati su sedia a rotelle. Tuttavia, nel corso dei 12 mesi di osservazione, nessuno ha manifestato un aumento della disabilità o un peggioramento dei sintomi. Complessivamente, secondo gli studiosi, ciò indica una notevole stabilità della malattia, senza segni di progressione.
I ricercatori hanno scoperto che maggiore era la dose di cellule staminali iniettate, minore era la riduzione del volume cerebrale nel tempo. Il team ha anche cercato segni che le cellule staminali stessero avendo un effetto neuroprotettivo. “I nostri risultati sono un passo verso lo sviluppo di una terapia cellulare per trattare la SM” –dichiara Stefano Pluchino dell’Università di Cambridge.
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Il trattamento si è dimostrato in grado di migliorare le abilità motorie di un soggetto con gravi deficit motori dovuti al morbo di Parkinson
L’impianto di una neuroprotesi, seguito dalla stimolazione epidurale della colonna vertebrale, ha consentito a Marc Gauthier, un paziente francese di 62 anni affetto da Parkinson da oltre 30, di riottenere la capacità di camminare. Questo sorprendente risultato, pubblicato su Nature Medicine, è il frutto del lavoro di un team di ricercatori guidato da Grégoire Courtine dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna.
Il trattamento si è dimostrato efficace nel migliorare le abilità motorie di un individuo con gravi deficit motori causati dal morbo di Parkinson, una patologia che provoca problemi di locomozione, equilibrio e episodi di “freezing of gait“, cioè la sensazione improvvisa di non riuscire a muoversi nonostante il desiderio di farlo. La stimolazione epidurale elettrica mirata (EES) della colonna vertebrale lombosacrale rappresenta una tecnica volta a regolare l’attività dei neuroni responsabili dei movimenti locomotori.
Dettagli e risultati del trattamento
Il team guidato da Courtine ha adattato questa tecnica con l’obiettivo di ripristinare l’attivazione naturale dei neuroni delle gambe. Gauthier, soggetto dello studio, presentava gravi deficit motori nonostante i trattamenti farmacologici e la stimolazione cerebrale profonda. In preparazione all’intervento, è stata creata una mappa anatomica personalizzata delle regioni del midollo spinale da stimolare, fornendo così una guida per l’implantazione chirurgica precisa della neuroprotesi. Successivamente, i ricercatori hanno impiegato sensori wireless per rilevare le intenzioni di deambulazione, attivando l’EES al fine di stimolare i neuroni delle gambe e generare movimenti di camminata naturali.
I risultati dello studio hanno evidenziato un notevole miglioramento dei deficit motori del paziente, il quale ha riportato un sostanziale aumento della qualità della vita. Da ben due anni, il paziente utilizza con successo questa tecnologia, sperimentando soddisfazione nei risultati ottenuti. Tali conclusioni suggeriscono che la stimolazione epidurale elettrica mirata potrebbe rappresentare un’opzione terapeutica promettente per affrontare i deficit di locomozione comuni nei pazienti affetti da Parkinson.