Report della Fondazione Gimbe dedicata alla fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni
Il 27% delle popolazione nella fascia d’età tra i 12 e i 19 anni, non ha ricevuto alcuna dose del vaccino. Il 5.5%, invece, ha ricevuto solo la prima inoculazione. Diversi i numeri per quanto riguarda il personale scolastico, il 5,8% non ha ricevuto alcuna dose. Si tratta di oltre 90mila persone appartenenti al personale scolastico. Numeri che emergono dal report della Fondazione Gimbe, “Sicurezza Covid-19 nelle scuole: dalle evidenze scientifiche al real world”.
Numeri che preoccupano perché la stagione che è alle porte, quella invernale, rischia di portare numeri ben più grandi rispetto a quelli attuali, comunque contraddistinti da una risalita. Per questo, secondo il presidente Cartabellotta, conviene mantenere alta l’attenzione sulle scuole, luoghi dall’equilibrio instabile.
Obiettivo è la massima copertura vaccinale del personale scolastico e degli studenti di età superiore ai 12 anni. Diventa di grande importanza, anche, potenziare gli screening periodici e migliorare le strutture nelle quali gli studenti passano gran parte del loro tempo. E questo discorso vale soprattutto per la categoria al di sotto dei 12 anni, quelli non coinvolti nella campagna vaccinale, e quella al di sotto dei 6 anni per cui non sono applicabili dispositivi di protezione e non è praticabile il distanziamento sociale. Quindi si parla di adeguati sistemi di areazione e ventilazione dei locali scolastici.
La Sardegna è prima in Italia per la vaccinazione degli studenti, mentre è il Veneto, seguito dalle Marche, al vertice per le dosi somministrate al personale scolastico. Fanalino di coda di entrambe le classifiche stilate dalla Fondazione Gimbe è la Provincia autonomia di Bolzano.
Da Wuhan alla nuova variante ‘Arturo’. Un nuovo studio spiega perché l’evoluzione del virus può essere favorevole
Un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi dell’Insubria ha pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘European Journal of Internal Medicine’ due nuovi lavori scientifici sulle varianti del Covid. I due estratti sono inseriti all’interno di un articolo intitolato “Un viaggio da Wuhan alla variante Arcturus”. In generale, i due lavori analizzano l’evoluzione del virus dal 2020 a oggi, raccontando come, negli ultimi mesi, le nuove varianti siano entrate in competizione tra loro aprendo un nuovo scenario di speranza.
A coordinare il gruppo di ricerca è stato Fabio Angeli, docente di Malattie dell’apparato cardiovascolare. L’esperto ha inoltre firmato entrambi i lavori. “Nonostante il fatto che il meccanismo responsabile dell’infezione sia rimasto sostanzialmente immutato, l’evoluzione del virus osservata negli ultimi tre anni è stata caratterizzata da numerose mutazioni che di fatto sono entrate in ‘guerra’ tra loro – ha spiegato Angeli. Ma negli ultimi mesi, questa competizione non ha portato alla dominanza assoluta di particolari varianti. Attualmente lo scenario pandemico è caratterizzato da un ‘brodo’ di diverse varianti, che fa ipotizzare (grazie ai risultati di complessi modelli matematici) una graduale riduzione nel tempo della probabilità di nuove mutazioni responsabili di maggiore diffusione ed aggressività del virus”.
Lo studio dell’Insubria ipotizza dunque che la competizione tra varianti possa decretare la fine della pandemia da Covid 19, come spiega ancora Fabio Angeli. “È verosimile che ci stiamo dirigendo verso una nuova era in cui il virus pian piano ridurrà le sue caratteristiche di diffusività e letalità. Tale ipotesi dovrà essere valutata nel tempo, continuando a monitorare il Sars-CoV-2 e cercando di spiegare gli effetti delle restrizioni e della vaccinazione anti-Covid sulle mutazioni e caratteristiche del virus”.
Cliccaqui per leggere gli estratti originali dei due lavori coordinati dal Prof. Fabio Angeli.
Secondo il lavoro in questione il virus provocherebbe danni al Dna della cellula e impedirebbe di ripararli, provocando così senescenza cellulare ed infiammazione cronica
Nonostante gli importanti progressi a livello mondiale in materia di Covid, non è ancora chiaro perché il virus Sars-CoV-2 abbia un impatto così grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori. Arrivano però, ulteriori scoperte in merito. Infatti, il gruppo dell’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare Ets (Ifom) ha messo su uno studio per identificare le basi molecolari dell’aggressività e degli effetti del Covid. Da qui, i ricercatori hanno scoperto che il virus causa danni al Dna della cellula e le impedisce di ripararli. Tale procedimento provocherebbe in questo modo senescenza cellulare ed infiammazione cronica. I risultati dello studio sono visionabili sulla rivista ‘Nature Cell Biology’.
“Tutti i virus sono parassiti – spiega il coordinatore dello studio, Fabrizio d’Adda di Fagagna. I virus entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi. E il Covid, in tal senso, è un virus particolarmente abile e avido. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di ‘Hackeraggio’ da parte del virus. Ci siamo anche chiestise vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all’invecchiamento. Tutti eventi accomunati dall’accumulo di danno al Dna”.
Il Covid dirotta i processi fondamentali della cellula
È da tali premesse che i ricercatori hanno individuato, mediante l’uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del Covid, trovandone conferma in vivo, in sistemi modello murini di infezione e in tessuti post-mortem derivati da pazienti affetti dal virus. “Quello che abbiamo trovato – spiegano i ricercatori Ubaldo Gioia e Sara Tavella – è che Sars-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali. In particolare la costringe a smettere di produrre i deossinucleotidi, i ‘mattoni’ del Dna, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i ‘mattoni’ che servono a sintetizzare l’Rna della cellula e, soprattutto, quello del virus. È proprio tale procedimento a consentire l’esplosiva replicazione virale all’interno della cellula infetta dal Covid-19”.
Una conseguenza drammatica di questa sorta di sfruttamento dei meccanismi cellulari risulta essere la carenza di deossinucleotidi. “La cellula – affermano ancora i ricercatori – non riesce a replicare adeguatamente il proprio Dna e accumula danni nel suo genoma. Inoltre, abbiamo scoperto che il virus, oltre a causare la rottura del Dna per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo Dna danneggiato. Il tutto inibisce la proteina 53BP1, essenziale per il processo di riparazione”. Questi due eventi (danneggiamento Dna e inibizione della sua riparazione) causano gravi effetti sulla cellula infetta dal virus e sui pazienti.
Senescenza cellulare ed eccessiva produzione di citochine infiammatorie
“Tra gli effetti più gravi – spiega nuovamente Fabrizio d’Adda di Fagagna – sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule (senescenza cellulare) e anche l’associata produzione di citochine infiammatorie. Non a caso, la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da Covid-19 è proprio un’eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota anche come ‘tempesta di citochine’. In base ai risultati ottenuti abbiamo dunque evidenziato come l’accumulo di danno al Dna possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus”.
Evidenze di invecchiamento accelerato in casi gravi di Covid
Ma il team di esperti non si è fermato qui. “Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucletoidi – spiegano i ricercatori – abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al Dna abbattiamo anche i livelli di infiammazione. È importante evidenziare che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento. Infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi gravi di Covid. In questo senso sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto Long Covid. L’obiettivo è sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia”.
Tra chi ha avuto il Covid, la probabilità di soffrire a lungo termine di problemi a stomaco e intestino aumenta vertiginosamente
Ammalarsi di Covid-19 moltiplica il rischio di sviluppare disturbi gastrointestinali entro un anno dall’infezione. Tra chi ha avuto il virus, rispetto a chi non è mai stato infettato, la probabilità di soffrire a lungo termine di problemi a stomaco e intestino aumenta del 36% in generale: in particolare, si va da un rischio del 35% maggiore di reflusso gastroesofageo a una probabilità del 62% superiore di ulcere gastriche o dell’intestino tenue, passando per mal di stomaco (+36%), pancreatite acuta (+46%), infiammazione gastrica (+47%), sindrome dell’intestino irritabile (+54%).
A fare i conti è un team statunitense in una maxi ricerca pubblicata su ‘Nature Communications’. Gli autori stimano che, ad oggi, il Covid abbia contribuito ad oltre 6 milioni di nuovi casi di disturbi gastrointestinali negli Usa e a 42 milioni in tutto il mondo. Tra le conseguenze in merito del virus anche stitichezza, diarrea, dolore addominale, gonfiore, vomito e problemi al fegato compresa l’insufficienza epatica. Si andrebbe insomma da sintomi lievi a patologie potenzialmente mortali.
L’analisi è firmata da scienziati della Washington University School of Medicine di St. Louis e dal Veterans Affairs St. Louis Health Care System. I ricercatori hanno esaminato circa 14 milioni di cartelle cliniche anonime nel database gestito dal Dipartimento degli Affari dei veterani dell’Usa. Si tratta del più grande sistema sanitario integrato del Paese. Hanno quindi definito un set di dati controllati relativo a oltre 154.000 persone risultate positive al Covid dal 1 marzo 2020 al 15 gennaio 2021 e sopravvissute nei primi 30 giorni successivi all’infezione.
Il tratto gastrointestinale funge da serbatoio per il Covid
Il team ha successivamente confrontato gli esiti gastrointestinali di questi pazienti con quelli riscontrati in due gruppi di controllo di persone non contagiate da Sars-CoV-2: oltre 5,6 milioni nello stesso periodo (1 marzo 2020 – 15 gennaio 2021) e oltre 5,8 milioni in un periodo che andava dal 1 marzo 2018 al 31 dicembre 2019, dunque ben prima dell’avvento pandemico. “I problemi gastrointestinali sono tra i primi segnalati dalla comunità di pazienti Covid – dichiara Al-Aly, tra i coordinatori del maxi-studio. È sempre più chiaro che il tratto gastrointestinale funge da serbatoio per il virus. Pertanto allo stato delle ricerche i dati relativi ai disturbi gastroenterici del Long Covid non ci hanno sorpreso”.
“Il virus – prosegue l’esperto epidemiologo – può essere distruttivo anche tra coloro considerati sani, asintomatici o che hanno avuto lievi infezioni. Stiamo osservando la capacità del Covid-19 di attaccare qualsiasi sistema di organi nel corpo, a volte con gravi conseguenze a lungo termine, morte compresa. Molte persone fanno confronti tra Covid-19 e influenza”.
“Abbiamo confrontato gli esiti di salute nei ricoverati in ospedali per influenza rispetto ai ricoverati con Covid . Abbiamo quindi osservato un aumento del rischio di disturbi gastrointestinali tra le persone che erano state ricoverate con Covid. Anche a questo punto della pandemia – avverte l’esperto – il Covid rimane assolutamente più grave dell’influenza”.
“I risultati di questo rapporto evidenziano la necessità urgente di raddoppiare e accelerare i nostro sforzi. L’obiettivo deve essere sviluppare strategie volte a prevenire e curare gli effetti sulla salute a lungo termine dopo l’infezione. È dunque di fondamentale importanza – conclude lo scienziato – includere anche la salute gastrointestinale come parte integrante dell’assistenza Covid post-acuta”.
Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.
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