La FIMMG ha stilato un documento nel quale sono illustrati 6 punti per creare un nuovo ACN
A pochi giorni dalla pubblicazione del documento delle Regioni in cui sono illustrate le proposte di riforma del ruolo di medici di Medicina generale e pediatri di libera scelta, arriva la controproposta della Federazione italiana dei Medici di medicina Generale. La Fimmg ha infatti prodotto un documento che illustra i 6 punti per creare un nuovo ACN.
Il primo punto riguarda il passaggio alle dipendenze per i medici
“L’attuale status giuridico del medico di medicina generale (libero professionista convenzionato) è il solo che prevede e consente la libera scelta del cittadino e di conseguenza l’instaurarsi di un rapporto di fiducia – si legge nel documento Fimmg. Ingessare la Medicina Generale in rigide strutture dipartimentali non favorisce certo l’umanizzazione delle cure. Anzi ingigantisce un già ridondante apparato tecnostrutturale, spersonalizzando e rendendo anonimo il rapporto medico-paziente. Questi diventerebbe inevitabilmente medico-struttura e paziente-struttura con la reale possibilità dell’esternalizzazione dei servizi a soggetti di capitale con interesse privato”.
“Riteniamo invece di sviluppare, nella cornice di un nuovo ACN, il ruolo fiduciario del medico di medicina generale, collegandolo a funzioni e servizi definiti, omogenei sul territorio nazionale, affinché possa in modo significativo incidere positivamente anche sui livelli di accesso al sistema sanitario nazionale e collegare tale azione anche ai risultati della sua redditualità”.
La FIMMG, tra le altre cose, chiede di definire uno standard clinico e assistenziale per i medici
Insomma, si parte dalla definizione di uno standard clinico e assistenziale, oltre che organizzativo, della Medicina Generale. Un modello che, poi, va esteso a tutto il territorio. E questo dovrà essere gestito da un microteam, costituito da Medici di medicina Generale, personale sanitario e amministrativo. Le associazioni di medicina generale saranno organizzate in AFT, Aggregazioni Funzionali Territoriali, costituite da medici a ruolo unico e da quelli a quota orari integrata. L’obiettivo è formate lo “spoke” delle Case di Comunità.
E proprio la Casa di Comunità diventa un aspetto fondamentale, hub e studi medici, uniti in una rete funzionale. Nell’hub ci sarà spazio per servizi di assistenza domiciliare, CUP, PUA, punto prelievi, riabilitazione etc. erogati nello studio o al domicilio del paziente dai microteam. “La presenza dei medici di famiglia al loro interno va vista come quella di uno specialista della persona”, si legge.
Variazioni che, però, non devono portare il medico ad allontanarsi dagli obiettivi da perseguire. Prevenzione, gestione della cronicità attraverso la medicina di iniziativa, gestione delle acutezze non complicate, domiciliarità e residenzialità e infine sorveglianza epidemiologica.
Capitolo a parte è quello dedicato alla necessità di ristrutturare il compenso per i medici
Tra le altre proposte chieste dalla FIMMG c’è anche la necessità di ristrutturare il compenso in base alle performance. Una divisione tra la quota capitaria, quella per impegni standard, e quota variabile erogata al raggiungimento di determinati obiettivi. Che siano a carattere regionale o nazionale. E si intende screening, vaccinazioni, riduzione accessi in DEA o formazione e tutoring, ricerca e farmacovigilanza
Un nodo importante è quello legato alla formazione. Si deve passare dal tirocinio osservazionale per arrivare a una formazione-lavoro tutorata a dovere e parificazione della borsa di studio con le altre specialità.
“L’eventuale accademizzazione del corso di formazione – si legge nel documento – ovvero il passaggio alla specializzazione universitaria ha come condizione fondamentale che sia strutturato a livello di tutte le università italiane, come per tutte le specialità, di una formazione pre-laurea con l’attivazione della materia di studio specifica tenuta da docenti con formazione specifica ed attività professionale nella Medicina Generale“.
Il dato emerge da un sondaggio condotto da Anaao Assomed, sindacato dei medici ospedalieri. Alla survey hanno risposto 2130 camici bianchi
Un medico ospedaliero su tre vorrebbe cambiare lavoro per avere più tempo libero e retribuzioni più alte. Fra i camici bianchi più avanti con l’età compare anche l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. La fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal maggior sindacato dei medici ospedalieri, Anaao Assomed. Hanno partecipato alla survey 2130 tra medici e dirigenti sanitari.
I dati e le percentuali
Entriamo nel dettaglio. Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro. Inoltre, 1 su 4 (26,1%) risulta scontento della propria qualità di vita in particolare per quanto concerne la relazione familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e alienazione Un’insoddisfazione che aumenta con il crescere della anzianità di servizio e delle responsabilità. Infatti, i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata, tra i quali si raggiunge l’apice di insoddisfazione tra i 45 e i 55 anni: un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che però il nostro sistema non riesce a garantire.
Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il primo posto è occupato daincrementi degli stipendi con il 63,9%, seguito a ruota dall’esigenza di una maggiore disponibilità di tempo. Singolare notale come ci sia prevalenza del fattore tempo per le donne sugli uomini che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate. Il sondaggio evidenzia inoltre come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria unamaggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e per il tempo libero è più alta (37,9%) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%). In generale, l’aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.
Il 36%, ovvero poco più di 1 su 3, soprattutto nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposto a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema. La crisi della professione è più sentita al sud rispetto al nord. Si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del centro per finire al sud e isole con ben il 64,3% di insoddisfatti. “Ma il dato appare – osserva Anaao Assomed – talmente diffuso da configuare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esista vaccino o terapia”.
L’esigenza di un nuovo modello
È opportuno pensare che pesi il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità. Si tratta infatti della cifra più bassa tra i paesi del G7. Una cifra, ben al di sotto della media europea che si aggira intorno al 11,3% del Pil per la sanità. “Occorre immaginare – propone il sindacato – un nuovo modello. Modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura”.
Lo Stato ha chiesto alle imprese del settore di ripianare metà dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Ora le aziende fornitrici degli ospedali sono in ginocchio e molte, specie le più piccole, rischiano di chiudere
Molti dispositivi medici potrebbero mancare negli ospedali a partire da gennaio. Dispositivi salvavita, strumenti per dialisi, valvole cardiache, protesi, ferri chirurgici sono solo alcuni dei strumenti che numerosi medici di tutta Italia rischiano di non avere a disposizione in adeguata misura. Le aziende fornitrici degli ospedali sono infatti in ginocchio e molte, soprattutto le più piccole, rischiano di chiudere. Questo perché lo Stato ha chiesto a ognuna di loro di partecipare al 50% dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Si tratta di un conto salato da 2,1 miliardi da pagare entro trenta giorni.
A lanciare gli allarmi sugli effetti del payback è Massimo Riem, presidente della Federazione italiana fornitori in sanità (Fifo). “Abbiamo una fortissima preoccupazione – afferma Riem. Da gennaio molti ospedali non saranno in grado di assicurare interventi chirurgici e prestazioni perché mancheranno le forniture dei dispositivi medici. È un rischio concreto per i cittadini che avranno bisogno di assistenza. La aziende – prosegue – sono in allarme perché proprio in questi giorni stanno partendo le richieste per gli anni 2015-2018 e si parla di 2,1 miliardi. Questo causerà scompensi inaccettabili”. Quello dei fornitori ospedalieri è un settore composto nel 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100.000 lavoratori coinvolti.
“A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”
Le imprese evidenziano un ‘effetto payback’ che rischia di abbattersi anche sulle cure e le prestazioni offerte ai cittadini: quelli forniti dalle aziende messe in difficoltà dal payback, come sottolineato da Massimo Riem, “sono prodotti anche salvavita. Un dispositivo medico è la protesi chirurgica, la protesi vascolare, lo stent, i sistemi per l’ossigenazione della circolazione extracorporea etc. . Sono tutti prodotti che servono al nostro sistema sanitario, nei nostri ospedali, per garantire assistenza ai malati. E le forniture rischiano di essere interrotte perché il decreto attuativo del payback, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 settembre scorso, porterà al fallimento la gran parte delle aziende che operano in questo segmento. Le imprese – prosegue il presidente Fifo – non saranno più in grado di fornire dispositivi medici. A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”.
Ma non finiscono qui le dichiarazioni del presidente della Federazione italiana fornitori in Sanità. “Al Governo chiediamo una cosa molto semplice: la cancellazione di questa norma del payback – afferma Riem. Una norma inapplicabile che distrugge un tessuto di aziende che quotidianamente garantiscono, con le loro forniture agli ospedali, la possibilità di erogare prestazioni ai cittadini. Si rischia seriamente di distruggere un settore strategico”.
Soprattutto negli ospedali Hub il “boarding” è diventato ormai una regola. La maggior parte dei pazienti arriva ad aspettare anche oltre 5 giorni
L’attesa di un posto letto in reparto da parte di un paziente, dopo la decisione di ricovero, è un fenomeno talmente frequente che ha ormai un preciso nome: “boarding”. Purtroppo si tratta di un fenomeno ormai regola nei pronto soccorso, specie negli ospedali Hub. Le iniziative per tentare di gestirlo sono limitate a documenti ufficiali che ne definiscono la durata massima fissata a 6 ore. La realtà però dice che la maggioranza dei pazienti non aspetta 6 ore, bensì dai 2 fino ai 5 giorni o addirittura oltre. Ma come nasce questo fenomeno e soprattutto in che modo si potrebbe contrastarlo?
Le cause del boarding
Il boarding è una conseguenza dei tagli degli ultimi anni, come il taglio dei Posti Letto per acuti e lungodegenza: in Italia infatti, dal 2010 al 2020 sono stati tagliati 30.492 posti letto per acuti, con una riduzione del 19%. Il taglio maggiore ha riguardato il Molise, la Calabria, la Puglia e la Liguria: in queste regioni è stato tagliato più di 1 posto letto su 4. Ma la riduzione più pesante ha riguardato la lungodegenza, dove si è verificata una diminuzione media nazionale di posti letto che sfiora il 30%.
Ai problemi già citati si aggiunge poi quello dell’occupazione dei posti letto. La maggior parte dei pazienti in boarding è infatti rappresentata da anziani con patologie internistiche, con un tasso di occupazione di posti letto nei reparti di medicina pari al 97,6%. Va infatti ricordato che il tasso ottimale, per evitare aumento di mortalità e morbilità, viene considerato non superiore all’85%, pur se aumentato al 90% dal Decreto Ministeriale n° 70/2015 sugli standard ospedalieri. Per gestire il problema boarding è dunque attuare delle azioni economiche per incrementare i posti letto, come proposto in più occasioni da Anaao Assomed. C’è necessità di più letti per acuti e più letti di lungodegenza.
Non solo mancanza di posti letto, ma anche di medici
Un altro difficile capitolo si apre in relazione alla carenza di medici. Il numero di camici bianchi ha toccato il suo massimo nel 2009, per poi diminuire incessantemente fino al 2020, riducendosi di 4.800 unità. In realtà, su questo dato ha inciso positivamente il reclutamento di personale medico causato dalla pandemia da Covid-19 che ha visto l’immissione di circa 1.000 medici. Infatti, se si guardasse il trend fino al 2019, la diminuzione di personale medico sarebbe ancora più accentuata (5.800 unità).
Pingback: Obblighi formativi, Sileri: "Tre mesi per essere in regola, rischio radiazione"