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Giornata Mondiale del Diabete: l’Italia fa scuola di prevenzione

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In occasione della Giornata Mondiale del Diabete, esaminiamo il ruolo pionieristico dell’Italia nella prevenzione del diabete di tipo 1. Attenzione però anche all’emergente epidemia di diabete tipo 2 tra i giovani

Il 14 novembre si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale del Diabete, istituita nel 1991 dall’International Diabetes Federation e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La Giornata viene organizzata per sensibilizzare e informare l’opinione pubblica sul diabete sulla sua prevenzione e gestione.

In occasione di questa importante data, dunque, è fondamentale riflettere sulla situazione attuale del diabete, specialmente tra bambini e ragazzi, nonostante l’ombra della recente pandemia sia alle spalle. L‘Italia si distingue come pioniere nella prevenzione del diabete di tipo 1, grazie all’approvazione della legge 130/2023, che ha istituito uno screening specifico. Questa iniziativa riveste un’importanza cruciale, poiché consente di prevenire la chetoacidosi, una complicanza acuta grave associata all’esordio della malattia diabetica.

L’importanza di una diagnosi tempestiva

Attualmente, il 40% delle diagnosi di diabete di tipo 1 avviene in ritardo, con la malattia che si manifesta drammaticamente attraverso la chetoacidosi, portando a ricoveri d’urgenza e possibili danni permanenti. È imperativo emanare tempestivamente i decreti attuativi della legge per individuare i bambini e i ragazzi a rischio, evitando che si giunga a uno scompenso che potrebbe mettere in pericolo la loro vita.

L’insorgenza precoce del diabete, soprattutto nei bambini al di sotto dei 10 anni, comporta una significativa perdita di aspettativa di vita. Tuttavia, una diagnosi tempestiva, seguita da cure adeguate e un controllo accurato, consente di mantenere un’aspettativa di vita simile a quella della popolazione senza la patologia. Gli endocrinologi pediatrici svolgeranno un ruolo chiave nell’educazione e nella prevenzione, informando i genitori sui sintomi da monitorare e garantendo controlli regolari della glicemia.

Incidenze in crescita

Lo screening non solo identifica i soggetti a rischio, ma apre la strada a nuove terapie, come il teplizumab, che può ritardare l’esordio del diabete di tipo 1. È essenziale considerare che l’incidenza di diabete di tipo 1 è in crescita, soprattutto dopo la pandemia di Covid-19, passando da un incremento del 2-4% ogni due anni prima del 2020 a un aumento del 27% fra il 2019 e il 2021.

Diabete di tipo 2 sempre più frequente tra i giovanissimi

In aggiunta è da notare un crescente fenomeno di insorgenza del diabete di tipo 2 tra i giovanissimi, il quale è spinto principalmente da fattori come sovrappeso, obesità e stili di vita scorretti. Questa realtà rappresenta una sfida significativa per gli endocrinologi pediatri, che si trovano ora in prima linea per affrontare questa emergenza sanitaria in evoluzione. Per contrastare efficacemente questa crescente epidemia di diabete tipo 2 tra i giovani, è essenziale che gli specialisti in endocrinologia pediatrica si concentrino attentamente su azioni informative, programmi educativi mirati e iniziative di prevenzione.

L’obiettivo primario dovrebbe essere quello di informare la comunità sulle cause e le implicazioni del diabete tipo 2 nei giovani. L’educazione rivolta ai genitori, agli insegnanti e agli stessi giovani può svolgere un ruolo determinante nel promuovere scelte di vita più consapevoli e nella prevenzione della comparsa precoce di questa patologia. Parallelamente, programmi educativi mirati possono fornire alle famiglie strumenti pratici per implementare abitudini alimentari salutari e incoraggiare uno stile di vita attivo. L’obiettivo è ridurre i fattori di rischio associati al diabete tipo 2, contribuendo così a contrastare la sua diffusione tra i giovani.

Inoltre, l’importanza della prevenzione attraverso esami regolari e monitoraggio della salute dovrebbe essere enfatizzata, con l’obiettivo di individuare precocemente segnali di rischio o sintomi in modo da poter intervenire tempestivamente. Questo approccio proattivo potrebbe significativamente contribuire a mitigare l’incidenza del diabete tipo 2 tra i giovani e migliorare la qualità della vita delle future generazioni.

Fonti: Istituto Superiore di Sanità – Ministero della Salute – Società Italiana di Diabetologia

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Giornata Mondiale del Diabete

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Diabete: la grande minaccia dei cibi ultra-processati

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Ricerca italiana dimostra che il consumo di cibi ultra-processati aumenta il rischio di morte per persone con diabete di tipo 2, indipendentemente dalla qualità nutrizionale di una dieta attenta e salutare

Le persone cui viene diagnosticato il diabete di tipo 2 devono prestare attenzione non solo alle calorie e ai nutrienti presenti negli alimenti, ma anche al grado di lavorazione degli stessi. Infatti, una dieta sana da sola non è sufficiente. La ricerca condotta dal Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, pubblicata sulla rivista American Journal of Clinical Nutrition, ha evidenziato che i prodotti definiti come ‘ultra-processati’ sono associati a un significativo aumento del rischio di mortalità, sia per malattie cardiovascolari che per altre cause. Pertanto, è importante considerare attentamente il tipo di alimenti consumati per mantenere uno stile di vita sano e ridurre i rischi legati al diabete di tipo 2.

Cosa sono gli alimenti ultra-processati

Gli alimenti ultra-processati sono prodotti che hanno subito processi di trasformazione intensi, spesso utilizzando sostanze che raramente o mai vengono impiegate in cucina, come proteine idrolizzate, maltodestrine e grassi idrogenati. Questi alimenti contengono inoltre una serie di additivi, come coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti. L’obiettivo principale di tali additivi non è migliorare le proprietà nutrizionali degli alimenti, ma piuttosto accentuarne il sapore, l’aspetto e prolungarne la durata.

Esempi comuni di alimenti ultra-processati includono snack confezionati, bevande gassate e zuccherate, pasti pronti per il consumo e cibi fast-food. Tuttavia, è da notare che questa categoria di alimenti non si limita solo a quelli evidenti, ma può estendersi anche a cibi ‘insospettabili’ come yogurt alla frutta, cereali per la colazione, cracker e molti sostituti vegetali della carne. Il livello di lavorazione di un alimento rappresenta quindi una caratteristica da tenere in considerazione quando si cerca di seguire una dieta sana e bilanciata.

I commenti degli autori

La ricerca italiana ha preso in esame 1.066 partecipanti che al momento dell’ingresso nello studio erano affetti da diabete di tipo 2. “Esaminando l’evoluzione della loro salute nel corso di 12 anni – spiega Marialaura Bonaccio, primo autore dello studio – è stato possibile evidenziare che una alimentazione ricca di alimenti ultra-processati esponeva le persone con diabete ad una ridotta sopravvivenza. Quelle che riportavano un consumo più elevato di cibi ultra-processati mostravano un rischio di mortalità per ogni causa del 60% più alto, rispetto ai pazienti che consumavano questi prodotti in quantità minore. Il rischio di mortalità – conclude Bonaccio – per malattie cardiovascolari, che sono già frequenti nella popolazione con diabete, aumentava più del doppio”.

“Uno dei risultati più interessanti di questo studio – aggiunge Licia Iacoviello, co-autrice della ricerca – è che l’aumento di rischio legato ai cibi ultra-processati si osserva anche se si è scrupolosamente attenti a ciò che si mangia. Ad esempio, una persona con diabete sceglie generalmente cibi salutari tipici della dieta mediterranea. Ma se nella sua alimentazione sono presenti anche molti cibi sottoposti a lavorazione, i vantaggi si annullano, con un evidente aumento di rischio per la salute”. 

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Approvata la prima terapia cellulare per il diabete di tipo 1

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D’ora in poi il diabete di tipo 1 potrà essere curato non solo con l’insulina. La validità del trattamento è stata riconosciuta dalla Food and Drug Administration

Non soltanto l’insulina. D’ora in avanti il diabete di tipo 1, negli Usa, potrà essere curato (in seconda linea) anche in maniera radicale. O quasi, con l’infusione di isole pancreatiche prelevate da donatori deceduti, purificate in laboratorio e preparate per l’infusione. Uno studio portato avanti dall’azienda CellTrans, spin-off dell’Università dell’Illinois, ha messo a punto il trattamento con donislecel (Lantidra il nome commerciale) che standarizza la procedura di trapianto delle isole pancreatiche. La validità del trattamento è riconosciuta dalla Food and Drug Administration, che ha autorizzato la terapia per quei pazienti adulti non in grado di gestire i livelli di glicemia attraverso l’iniezione di insulina.

Una seconda possibilità

Latindra rappresenterà infatti la seconda possibilità per quei malati che “non sono in grado di raggiungere il target dell’emoglobina glicata – si legge dal sito dell’ente regolatorio statunitense. Alla base della risposta a quello che è a tutti gli effetti un trapianto allogenico, c’è la capacità che le cellule beta del pancreas hanno di continuare a produrre insulina anche una volta infuse in un altro organismo. La sicurezza e l’efficacia del trattamento sono state valutate in due studi non randomizzati a braccio singolo, in cui 30 pazienti con diabete sono stati trattati con un numero di infusioni di cellule beta pancreatiche purificate (direttamente nel tratto epatico della vena porta) compreso tra uno e tre.

Complessivamente, 21 persone non hanno più avuto bisogno di ricorrere all’insulina per almeno un anno. Risultato che in 11 casi si è protratto fino a cinque anni. E che in altri 10 è proseguito oltre. Da qui la convinzione che una sola infusione, ognuna delle quali contiene cellule beta pancreatiche proveniente da un unico donatore, possa essere sufficiente e che le successive siano necessarie soltanto in caso di una risposta non soddisfacente al primo trattamenti.

La terapia cellulare appena approvata negli States rappresenta un momento di svolta nella gestione del diabete di tipo 1. Una patologia che finora ha potuto fare affidamento esclusivamente sull’insulina.


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Insulina una volta a settimana: svolta per diabetici

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Si tratta di un cambio epocale per la qualità di vita dei pazienti diabetici con un passaggio da 365 a sole 52 iniezioni di insulina in un anno

Una vera e propria rivoluzione della terapia sembra essere prossima per i 500 milioni di pazienti diabetici in tutto il mondo (in Italia oltre 3,5 milioni di persone). Per questa categoria di pazienti, infatti, si potrebbe passare da 365 a sole 53 iniezioni di insulina in un anno. Si tratterebbe di un vero e proprio cambio epocale per la qualità di vita di queste persone. Il tutto grazie ad una nuova insulina basale a somministrazione settimanale che offre la stessa efficacia di quelle tradizionali ma con una differenza in termini di qualità di vita enorme. 

Lo confermano due differenti studi pubblicati su Jama e sul New England Journal of Medicine“Questa nuova molecola ha il potenziale di semplificare la terapia del diabete che richiede insulina, eliminando per i pazienti il disagio della iniezione giornaliera ed aumentando così l’aderenza alla terapia insulinica” – spiega il Prof. Roberto Trevisan, unico ricercatore italiano che ha partecipato alla stesura finale dello studio sul New England Journal of Medicine. L’esperto riferisce anche che ora è attesa l’approvazione della nuova molecola da parte degli Enti regolatori del farmaco per renderla disponibile.

Il passaggio dall’assunzione giornaliera a quella settimanale rappresenta un grande vantaggio per i diabetici di tipo 2. Parliamo infatti, spesso, di soggetti anziani, con più patologia, e che devono assumere diverse terapie con frequenza quotidiana. Un altro vantaggio della formulazione della terapia su base settimanale è la possibilità di ridurre l’impegno richiesto agli operatori sanitari che si occupano di diabetici che richiedono insulina, soprattutto per quelli ricoverati nelle strutture sanitarie residenziali a lungo termine. 

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio pubblicato sul New England Journal of Medicine.  

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