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Influenza: nei primi sette giorni aumenta il rischio di infarto

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Uno studio appena presentato al Congresso Europeo di Microbiologia mostra una correlazione spesso poco considerata

Influenza e infarto, esiste un chiaro collegamento. Lo dimostra un lavoro presentato al Congresso Europeo di Microbiologia, il quale evidenzia un aspetto poco considerato della questione. Lo studio, condotto da Annemarjin De Boer presso il Julius Center for Life Sciences and Primary Care di Utrecht, ha scoperto che le persone cui è stata diagnosticata l’influenza presentano una probabilità 6 volte maggiore di subire un attacco cardiaco nella settimana successiva alla diagnosi.

Il gruppo di ricercatori ha preso in esame i dati relativi a 16 laboratori dei Paesi Bassi. Sono ben 26.221 i casi di influenza analizzati e confermati fra il 2008 e il 2019: di questi 401 persone hanno subito almeno un infarto del miocardio entro un anno dalla diagnosi di influenza. In totale, gli attacchi cardiaci sono stati 419, 25 dei quali si sono verificati nei primi 7 giorni dopo la diagnosi. Più in particolare i ricercatori hanno calcolato che le persone avevano una probabilità 6,16 volte maggiore di avere un attacco cardiaco nei 7 giorni successivi alla diagnosi di influenza, rispetto all’anno precedente o successivo. 

Le cause della relazione tra influenza e infarto

Ma perché l’influenza avrebbe tale effetto sull’organismo? La chiave per capirlo sta nell’infiammazione indotta dal virus. La febbre fa aumentare la frequenza cardiaca e di conseguenza alimenta lo stress cui viene esposta la parete del cuore. Inoltre, hanno la loro influenza anche la carenza di ossigeno, il rilascio di citochine, l’eccessiva risposta del sistema nervoso simpatico e il conseguente stress che si riflette sulla muscolatura delle arterie.  

Ne fuoriesce che, nel caso in cui esista una placca lungo un’arteria coronarica, quest’ultima può diventare instabile e rompersi a causa dello stress indotto dall’influenza, che di fatto accelererebbe un fenomeno destinato, probabilmente, a manifestarsi nel tempo. In caso di rottura, infatti, il grasso rilasciato causa una trombosi, l’occlusione del vaso sangugno e la comparsa dell’ischemia. Il virus influenzale, inoltre, può propagarsi anche in aree esterne all’apparato respiratorio, ad esempio nelle cellule cardiache. Si parla in tal caso di miocardite, infiammazione del cuore che può provocare scompenso cardiaco e aritmie anche fatali.

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Infarto, identificata proteina con valore predittivo

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Importante scoperta emersa da uno studio pubblicato sul Journal of American Heart Association 

La troponina è una proteina che nel nostro organismo è presente nei muscoli scheletrici e in quello cardiaco. Essa, in particolare, è coinvolta nei meccanismi di contrazione muscolare. Secondo un recente studio, analizzare il valore di questa proteina sarebbe utile in termini di capacità predittiva dell’infarto miocardico. In particolare il valore predittivo nel sospetto di infarto a 1 e 3 ore è molto inferiore nei pazienti con troponina in calo (FP) rispetto a quelli con troponina in aumento (RP). I primi, di conseguenza, hanno un rischio molto più alto di infarto miocardico e di morte. Lo studio in questione è pubblicato sul Journal of American Heart Association firmato da Johannes Neumann, cardiologo presso l’Heart and Vascular Center all’University Medical Center Hamburg-Eppendorf di Amburgo in Germania. 

“Gli algoritmi diagnostici basati sulla troponina cardiaca ad alta sensibilità (hs-cTn) sono di uso comune nei pazienti con sospetto infarto miocardiaco senza sopra-slivellamento del tratto ST – spiegano gli autori del lavoroNonostante rispecchino la lesione miocardiaca in fasi diverse, valori di FP e di RP sono spesso considerati allo stesso modo”.

Sono stati selezionati 3.523 pazienti con sospetto infarto miocardico nei quali sono stati campionati separatamente la troponina I (hs-cTnI) e la troponina T (hs-cTnT) stratificandone i valori in stabili, in calo (FP) e in aumento (RP), confrontando i valori predittivi positivi per infarto miocardico a 1 ora e a 3 ore secondo i criteri della Società Europea di Cardiologia. I dati sono stati illuminanti: anche se i livelli di troponina sono presi in considerazione allo stesso modo quando in calo o in aumento, in realtà il valore predittivo positivo per infarto miocardico è risultato significativamente ridotto nei pazienti con valori di troponina in calo rispetto a quelli con troponina in aumento.

“In altri termini – spiega Neumann – i pazienti con pattern FP avevano una prognosi peggiore rispetto a quelli con pattern RP in termini di mortalità e rischio di infarto del miocardio durante il follow-up. Un dato che dovrebbe indurre i medici a eseguire un iter diagnostico esteso nei casi di calo della troponina e incertezza della diagnosi finale” – conclude l’esperto. 

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio. 

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Il digiuno intermittente cura il diabete: lo studio

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Una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista ‘Nature Medicine’, conferma l’efficacia del digiuno intermittente in caso di diabete di tipo 2

Un nuovo studio dimostra l’efficacia del digiuno intermittente per i pazienti che soffrono di diabete di tipo 2 (T2D). Il lavoro, a cui hanno partecipato 209 persone, è firmato da Xiao Tong Teong dell’Università di Adelaide che commenta:” Gli interventi dietetici che comportano una moderata restrizione calorica sono una strategia consolidata per la gestione del peso oltre a ridurre il rischio di T2D. Inoltre, un’area di ricerca emergente in questo ambito è il ruolo dell’orario dei pasti e del digiuno prolungato nell’estendere i benefici della restrizione calorica. Accanto a questi dati – ha proseguito l’esperto insieme ai suoi collaboratori – l’alimentazione a tempo limitato (TRE) è emersa come una nuova forma di digiuno intermittente che enfatizza una finestra alimentare giornaliera abbreviata (4-10 ore) in linea con ritmi circardiani”.

Il digiuno intermittente è stato testato in un protocollo a tre bracci insieme all’alimentazione precoce a tempo limitato (iTRE). Ciò ha consentito al gruppo iTRE di consumare il 30% del fabbisogno calorico di base nei giorni di digiuno, seguito da 20 ore di digiuno ogni tre giorni alla settimana. Il gruppo della moderata restrizione calorica ha visto il ridursi del 30% il fabbisogno calorico giornaliero di base senza seguire un orario specifico dei pasti. I risultati mostrano che iTRE è superiore a CR nel migliorare la tolleranza al glucosio postpranduale negli adulti a maggior rischio di diabete.

Le persone che hanno digiunato 3 giorni alla settimana mangiando soltanto fra le 8 e le 12 in quei giorni hanno mostrato una maggiore tolleranza al glucosio dopo 6 mesi rispetto a chi seguiva una dieta a basso contenuto calorico. Il gruppo iTRE era anche più sensibile all’insulina, sperimentando inoltre una maggiore riduzione dei lipidi ematici rispetto alla dieta ipocalorica.


“Questi risultati indicano che l’orario dei pasti e i consigli sul digiuno estendono i benefici per la salute di una dieta ipocalorica, indipendentemente dalla perdita di peso – ha spiegato ancora TeongServono comunque ulteriori ricerche per verificare se gli stessi benefici si riscontrano con una finestra alimentare leggermente più lunga, cosa che potrebbe rendere più sostenibile la dieta nel lungo periodo”.


Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Utilizzo eccessivo di smartphone aumenta il rischio di ipertensione

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Il particolare nesso è dimostrato da una ricerca pubblicata sulla rivista ‘European Heart Journal – Digital Health’

Sembra uno strano collegamento, ma pare che usare troppo lo smartphone per fare lunghe telefonate possa aumentare il rischio di ipertensione. È quanto emerge da un lavoro pubblicato sullo ‘European Heart Journal’ – Digital Health, da un team della Southern Medical University di Guanzgzhou. A dirigere lo studio, il Prof. Xianhui Qin, che spiega: ”È il numero di minuti che le persone trascorrono a parlare su un cellulare che conta per la salute del cuore. Più minuti significano un rischio maggiore”.

La ricerca si è servita dei dati della Uk Biobank includedo un totale di 212.046 adulti fra i 37 e i 73 anni senza ipertensione. Le informazioni riguardanti l’uso del cellulare per effettuare e ricevere chiamate sono state raccolte con un questionario autosegnalato. Inoltre, includevano dati sulle ore settimanali di utilizzo dello smarthpone e sull’uso di un dispositivo vivavoce. I ricercatori hanno quindi esaminato la relazione fra uso del telefono cellulare e l’ipertensione di nuova insorgenza

I risultati nello specifico

Nel corso del follow up di 12 anni è emerso che gli utenti di smartphone avevano un rischio di ipertensione superiore del 7% rispetto ai non utenti. Chi parlava al cellulare per 30 minuti o più a settimana mostrava una probabilità del 12% maggiore di ipertensione di nuova insorgenza rispetto ai partecipanti che trascorrevano meno di 30 minuti in telefonate. O ancora, rispetto ai partecipanti che hanno trascorso meno di 5 minuti alla settimana a effettuare o ricevere chiamate da cellulare, il tempo di utilizzo settimanale di 30-59 minuti, 1-3 ore, 4-6 ore e più di 6 ore è stato associato rispettivamente a un aumento del rischio di ipertensione arteriosa dell’8%, 13%, 16% e 25%. Non c’era invece correlazione fra gli anni di utilizzo, l’utilizzo del vivavoce e lo sviluppo dell’ipertensione.

Il team ha preso anche in esame il rischio genetico. Dall’analisi è emerso che le probabilità di sviluppare la pressione alta erano maggiori nei soggetti ad alto rischio genetico che passavano almeno 30 minuti alla settimana al cellulare. La loro probabilità era del 33% maggiore rispetto ai soggetti con basso rischio genetico che trascorrevano meno di 30 minuti a settimana al telefono. 

“I nostri risultati suggeriscono che parlare al cellulare potrebbe non influire sul rischio di sviluppare la pressione alta fintanto che il tempo di chiamata settimanale è mantenuto al di sotto della mezz’ora. Sono necessarie ulteriori ricerche per replicare i risultati. Fino ad allora sembra prudente ridurre al minimo le telefonate per preservare la salute del cuore” – ha commentato il Prof. Qin.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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