Il risultato emerge da una ricerca statunitense presentata al meeting della ‘Radiological Society of North America – RSNA’
L’intelligenza artificiale (AI) può essere un potente strumento al servizio della medicina moderna. In realtà in parte già lo è. Le applicazioni, infatti, si moltiplicano in tutti gli ambiti, dalla diagnostica alla chirurgia, dallo sviluppo dei farmaci alla riabilitazione e sono destinate a crescere. Inoltre, l’intelligenza artificiale può essere fondamentale anche per snellire e rendere più efficiente la sanità. A confermare i grossi benefici che può portare, è una recente ricerca statunitense che ha dimostrato la possibilità dell’intelligenza artificiale nel prevedere problemi al cuore. Più precisamente, tramite una semplice lastra al torace uno strumento basato sull’AI stima in modo accurato il rischio di andare incontro ad eventi cardiovascolari nei 10 anni successivi.
Il risultato emerge da uno studio condotto da Jakob Weiss, del Massachusetts General Hospital e presentato al meeting della Società Americana di Radiologia (Radiological Society of North Aerica – RSNA). Gli esperti hanno programmato il loro strumento su un campione di oltre 40.000 individui e oltre 141.000 lastre al torace. Successivamente hanno confermato la validità e accuratezza dello strumento su un campione indipendente di 11.000 individui sottoposti alla lastra.
Si tenga conto che, attualmente, per stabilire il rischio di eventi cardiovascolari di un individuo si tiene conto di tanti fattori: sesso, età, pericolo ipertensione, obesità, vizio del fumo su tutti. Si tratta dunque di una stima complessa che serve al medico per stabilire se rilasciare o meno terapie preventive (come le statine) per ridurre rischio di eventi come infarti ed ictus. Secondo questo studio, tramite lo questo innovativo strumento in pochissimo tempo è possibile stimare con elevata accuratezza il rischio cardiovascolare di un preciso soggetto. Addirittura, data la semplicità e appunto l’accuratezza del metodo, gli autori sostengono che dovrebbe entrare a stretto giro nella pratica clinica di routine.
Le parole di Jakob Weiss
“Il nostro modello di apprendimento approfondito offre una soluzione potenziale per lo screening opportunistico basato sulla popolazione del rischio di malattie cardiovascolari. Il tutto utilizzando immagini radiografiche del torace – spiega Jakob Weiss, principale autore dello studio. “Questo tipo di screening potrebbe essere utilizzato per identificare gli individui che potrebbero beneficiare di farmaci statina, ma sono attualmente non trattati.”
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Il dato emerge da uno studio condotto dalle Università di Oxford e Pechino e pubblicato sulla rivista ‘JACC: Advances’
Chi abita in zone molto trafficate ha talvolta la sensazione che il rumore gli stia facendo esplodere la testa. Una ragione in realtà c’è. Uno studio condotto dalle Università di Pechino e Oxford ha dimostrato come il rumore del traffico, da solo, è sufficiente ad aumentare il rischio di ipertensione, cioè di pressione alta. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivisita scientifica specializzata in salute cardiovascolare: JACC: Advances.
Più che di una scoperta vera e propria si tratta di una conferma. Da tempo infatti si ipotizza vi sia un legame tra l’esposizione continua al rumore delle auto in movimento e probabilità più elevate di sviluppare problemi di pressione. Occorrevano, però, prove più consistenti su questo legame, e restava da comprendere se l’effetto dipendesse soltanto dall’inquinamento acustico o anche da quello atmosferico.
Lo studio prospettico
Nel nuovo lavoro, Jing Huang, scienziato esperto di salute ambientale alla Peking University (Pechino), ha realizzato uno studio prospettico (ovvero che monitora l’evoluzione di un parametro del tempo) utilizzando i dati di 240.000 persone tra i 40 e i 69 anni estratti dallo UK Biobank, un database punto di riferimento per le ricerche mediche. I partecipanti scelti inizialmente non soffrivano di ipertensione. Gli scienziati hanno stimato la quantità di rumore a cui erano esposti, verificando i dati sull’inquinamento acustico nella loro area residenziale e li hanno seguiti nel tempo per un periodo mediano di 8,1 anni, osservando chi nel frattempo avesse avuto episodi di pressione alta.
Nell’arco di tempo analizzato, non solo chi viveva in una via esposta al rumore del traffico aveva sviluppato con maggiori probabilità l’ipertensione, ma il rischio sembrava essere aumentato pari passo con la quantità di rumore ricevuta. Tale collegamento diretto si è dimostrato valido anche isolando l’effetto da quello provocato invece dallo smog. Di certo chi oltre ad essere sottoposto all’inquinamento acustico respira elevate quantità di polveri sottoli corre il rischio di ipertensione più elevato in assoluto.
Intervenire sulle fonti di rumore più assordanti potrebbe migliorare la salute cardiovascolare dei cittadini. Inoltre, di conseguenza, potrebbe prevenire ulteriori costose misure sanitarie. Serviranno ulteriori studi per approfondire il meccanismo attraverso il quale l’inquinamento acustico favorisce l’ipertensione, ma è ormai evidente il collegamento causa-effetto.
Clicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.
La denervazione renale rappresenta una soluzione alternativa al problema dell’ipertensione. Ne parla una ricerca pubblicata su ‘Jama Cardiology’
Un dispositivo per il rilascio di ultrasuoni che disattivano alcune terminazioni nervose che si trovano lungo le pareti esterne delle arterie renali. In altri termini, la cosiddetta denervazione renale. Una vera e propria soluzione alternativa al problema dell’ipertensione, da utilizzare quando i farmaci non sembrano sufficienti a riportare i valori di massima e minima nella norma. Una ricerca condotta dall’Università della Columbia e pubblicata su Jama Cardiology dimostra l’efficacia dell’approccio. Gli ultrasuoni riescono infatti a ridurre mediamente di oltre 8 punti i valori pressori nei soggetti di mezza età.
I dato presentati nello studio si riferiscono ad oltre 500 pazienti in età adulta, con ipertensione di vario grado e sottoposti a trattamenti farmacologici, ottenuti in tre diversi trial. Rispetto al gruppo di controllo (che si è limitato a proseguire il trattamento precedente) il numero di pazienti che ha raggiunto l’obiettivo dei 135/85 millimetri di mercurio è stato doppio. “Il risultato – rileva Ajay Kirtane, tra gli autori dello studio – è quasi identico nei diversi gruppi d studio. Ciò dimostra definitivamente che il dispositivo può abbassare la pressione sanguigna in un’ampia popolazione di pazienti”.
La denervazione renale spegne l’attività del sistema nervoso simpatico che influenza direttamente il sistema nervoso. I segnali nervosi diretti ai reni contribuiscono a regolare il flusso sanguigno renale, la ritenzione dei sali e l’attivazione del sistema renina-angiotensina, che interagisce con la pressione. I segnali che invece dai reni vanno verso il sistema nervoso mettono in moto meccanismi che favoriscono l’aumento pressorio. I soggetti trattabili con la denervazione renale sono quelli con ipertensione resistente. Si tratta di quei soggetti con un controllo non soddisfacente dei livelli di pressione sistolica e diastolica anche utilizzando diversi farmaci.
Per maggiori informazioni in merito clicca qui e leggi l’estratto originale dello studio.
Secondo uno studio pubblicato sull’European Heart Journal dormire meno di cinque ore a notte si associa a un rischio raddoppiato di malattia vascolare delle arterie periferiche
Che una buona qualità del sonno fosse importante in termini di salute è qualcosa di ormai noto. Arrivano però sempre più studi che confermano tale teoria. Infatti, dormire meno di cinque ore a notte si associa a rischio quasi doppio di malattia vascolare delle arterie periferiche. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sull’European Heart Journal che ha coinvolto oltre 650.000 persone.
“Il nostro studio suggerisce che dormire sette-otto ore a notte è una buona abitudine per ridurre il rischio di questa condizione” – ha dichiarato il principale autore dello studio, Shuai Yuan, dell’istituto ‘Karolinska’ di Stoccolma. Oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di arteriopatia periferica, una condizione in cui le arterie delle gambe sono ostruite, limitando il flusso sanguigno e aumentando il rischio di ictus e infarto.
Il procedimento
I ricercatori hanno analizzato le associazioni tra durata del sonno e sonnellino diurno con il rischio di arteriopatia periferica. Successivamente hanno utilizzato una tecnica chiamata ‘randomizzazione mendeliana’ per esaminare l’esistenza di un eventuale nesso di causa-effetto tra disturbi del sonno e arteriopatia periferica. È dunque emerso che dormire meno di cinque ore a notte si associa a un rischio quasi doppio di arteriopatia periferica rispetto alle sette-otto ore. Per quanto concerne l’esistenza di una associazione causa-effetto tra le due condizioni (sonno disturbato e arteriopatia periferica) si è visto che da un lato chi dorme poco ha un aumento del rischio di arteriopatia periferica; dall’altra chi già soffre di tale patologia ha una maggiore probabilità di dormire poco. In altri termini, un disturbo causa l’altro e viceversa.
“Sono necessarie ulteriori ricerche su come interrompere l’esame bidirezionale tra sonno ridotto e arteriopatia periferica – spiega Yuan. I cambiamenti dello stile di vita che aiutano le persone a dormire di più, come l’essere fisicamente attivi, possono ridurre il rischio di sviluppare la condizione. Inoltre, per chi già ne soffre, la gestione del dolore associato alla malattia potrebbe consentire ai pazienti di dormire bene”.
Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.
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