La denervazione renale rappresenta una soluzione alternativa al problema dell’ipertensione. Ne parla una ricerca pubblicata su ‘Jama Cardiology’
Un dispositivo per il rilascio di ultrasuoni che disattivano alcune terminazioni nervose che si trovano lungo le pareti esterne delle arterie renali. In altri termini, la cosiddetta denervazione renale. Una vera e propria soluzione alternativa al problema dell’ipertensione, da utilizzare quando i farmaci non sembrano sufficienti a riportare i valori di massima e minima nella norma. Una ricerca condotta dall’Università della Columbia e pubblicata su Jama Cardiology dimostra l’efficacia dell’approccio. Gli ultrasuoni riescono infatti a ridurre mediamente di oltre 8 punti i valori pressori nei soggetti di mezza età.
I dato presentati nello studio si riferiscono ad oltre 500 pazienti in età adulta, con ipertensione di vario grado e sottoposti a trattamenti farmacologici, ottenuti in tre diversi trial. Rispetto al gruppo di controllo (che si è limitato a proseguire il trattamento precedente) il numero di pazienti che ha raggiunto l’obiettivo dei 135/85 millimetri di mercurio è stato doppio. “Il risultato – rileva Ajay Kirtane, tra gli autori dello studio – è quasi identico nei diversi gruppi d studio. Ciò dimostra definitivamente che il dispositivo può abbassare la pressione sanguigna in un’ampia popolazione di pazienti”.
La denervazione renale spegne l’attività del sistema nervoso simpatico che influenza direttamente il sistema nervoso. I segnali nervosi diretti ai reni contribuiscono a regolare il flusso sanguigno renale, la ritenzione dei sali e l’attivazione del sistema renina-angiotensina, che interagisce con la pressione. I segnali che invece dai reni vanno verso il sistema nervoso mettono in moto meccanismi che favoriscono l’aumento pressorio. I soggetti trattabili con la denervazione renale sono quelli con ipertensione resistente. Si tratta di quei soggetti con un controllo non soddisfacente dei livelli di pressione sistolica e diastolica anche utilizzando diversi farmaci.
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Dopo un infarto è maggiore il rischio di deficit cognitivo a lungo termine. A parlarne è una ricerca americana pubblicata su ‘Jama Neurology’
Un infarto del miocardio non è associato a una riduzione della funzione cognitiva nell’immediato. Secondo un nuovo studio, però, i soggetti colpiti mostrano un maggior rischio di deficit cognitivo a lungo termine rispetto alla media. La ricerca in questione, pubblicata sulla rivista ‘Jama Neurology’, è stata condotta da un gruppo di esperti della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, guidato da Michelle Johansen.
È proprio Johansen a spiegare i motivi che hanno portato alla conduzione dello studio. “L’entità del cambiamento cognitivo dopo l’infarto miocardico incidente non era chiara – precisa l’esperta. Per questo abbiamo cercato di valutare se l’infarto incidente fosse associato a cambiamenti nella funzione cognitiva dopo l’aggiustamento per le traiettorie cognitive pre-infarto”.
I ricercatori americani hanno analizzato soggetti senza infarto, demenza e ictus che avevano partecipato a studi di coorte basati sulla popolazione negli Stati Uniti condotti dal 1971 al 2019. L’outcome primario era il cambiamento nella cognizione generale, mentre quelli secondari erano i cambiamenti nella memoria e nella funzione esecutiva. Hanno fatto parte dello studio 30.465 adulti, di cui 1.033 avevano subito uno o più infarti miocardici.
Nel complesso l’infarto miocardico non è un risultato associato a una riduzione di cognizione globale, funzione esecutiva o memoria. Tuttavia, i soggetti che hanno subito un infarto hanno mostrato un calo più rapido della cognizione generale, della memoria e della funzione esecutiva negli anni successivi all’episodio. “Questi risultati suggeriscono che la prevenzione dell’attacco cardiaco può essere importante per la salute del cervello a lungo termine” – concludono gli autori.
Anche Eric Smith (University of Calgary) e Lisa Silbert (Oregon Health & Science University) hanno commentato lo studio in un editoriale di accompagnamento. “I medici devono essere consapevoli che I pazienti con una storia di infarto possono essere a rischio di declino cognitivo – si legge nell’editoriale. A tali pazienti dovrebbero essere poste periodicamente domande sui sintomi cognitivi. L’invio a uno specialista cognitivo o neuropsicologo può essere giustificato in casi selezionati”.
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Secondo i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità quanto emerso nel loro studio sarebbe un risultato di estrema importanza nella prospettiva di un’applicazione contro diversi tipi di malattie oncologiche
Vaccines, rivista facente parte del gruppo Nature, ha appena pubblicato gli ultimi risultati di uno studio preclinico, sull’applicazione contro la malattia indotta dal virus SARS-Cov-2, di una originale piattaforma vaccinale basata sull’ingegnerizzazione delle vescicole extracellulari sviluppata esclusivamente da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).
Applicata all’infezione da SARS-CoV-2, i dati mostrano che, utilizzando la proteina N del virus come antigene, questo metodo si è rivelato efficace nel ridurre anche più di 1000 volte i livelli di replicazione del virus nei polmoni di topi di laboratorio, e questo effetto antivirale si è visto persistere anche a distanza di mesi dalla vaccinazione.
“Questo particolare metodo di vaccinazione – spiega Maurizio Federico, coordinatore della ricerca – consiste nell’introdurre la proteina immunogenica di interesse (antigene) all’interno delle vescicole extracellulari naturalmente rilasciate dalle cellule muscolari. Le nanovescicole così prodotte sono in grado di diffondersi in ogni distretto tissutale, inducendo una potente risposta da parte dell’immunità cellulare che riesce ad eliminare selettivamente le cellule che esprimono l’antigene selezionato”.
“Uno degli aspetti più promettenti dimostrati in questi studi riguarda proprio la capacità di questo metodo nell’indurre una forte e soprattutto duratura immunità cellulare in vari tessuti – ha spiegato l’esperto dell’ISS. Tessuti come quello polmonare, che di norma lasciano penetrare con difficoltà le cellule immunitarie presenti nel sistema circolatorio. Questo è un risultato di estrema importanza se valutato anche nella prospettiva di una applicazione contro diversi tipi di malattie oncologiche”.
Sulla base di questi risultati, che promettono significative ricadute anche in oncologia, come spiegato da Federico, sarà ora possibile procedere con i test sull’uomo. Inoltre, studi addizionali in programma stabiliranno la sicurezza della piattaforma vaccinale e della sua tollerabilità.
Importante scoperta emersa da uno studio pubblicato sul Journal of American Heart Association
La troponina è una proteina che nel nostro organismo è presente nei muscoli scheletrici e in quello cardiaco. Essa, in particolare, è coinvolta nei meccanismi di contrazione muscolare. Secondo un recente studio, analizzare il valore di questa proteina sarebbe utile in termini di capacità predittiva dell’infarto miocardico. In particolare il valore predittivo nel sospetto di infarto a 1 e 3 ore è molto inferiore nei pazienti con troponina in calo (FP) rispetto a quelli con troponina in aumento (RP). I primi, di conseguenza, hanno un rischio molto più alto di infarto miocardico e di morte. Lo studio in questione è pubblicato sul Journal of American Heart Association firmato da Johannes Neumann, cardiologo presso l’Heart and Vascular Center all’University Medical Center Hamburg-Eppendorf di Amburgo in Germania.
“Gli algoritmi diagnostici basati sulla troponina cardiaca ad alta sensibilità (hs-cTn) sono di uso comune nei pazienti con sospetto infarto miocardiaco senza sopra-slivellamento del tratto ST – spiegano gli autori del lavoro. Nonostante rispecchino la lesione miocardiaca in fasi diverse, valori di FP e di RP sono spesso considerati allo stesso modo”.
Sono stati selezionati 3.523 pazienti con sospetto infarto miocardico nei quali sono stati campionati separatamente la troponina I (hs-cTnI) e la troponina T (hs-cTnT) stratificandone i valori in stabili, in calo (FP) e in aumento (RP), confrontando i valori predittivi positivi per infarto miocardico a 1 ora e a 3 ore secondo i criteri della Società Europea di Cardiologia. I dati sono stati illuminanti: anche se i livelli di troponina sono presi in considerazione allo stesso modo quando in calo o in aumento, in realtà il valore predittivo positivo per infarto miocardico è risultato significativamente ridotto nei pazienti con valori di troponina in calo rispetto a quelli con troponina in aumento.
“In altri termini – spiega Neumann– i pazienti con pattern FP avevano una prognosi peggiore rispetto a quelli con pattern RP in termini di mortalità e rischio di infarto del miocardio durante il follow-up. Un dato che dovrebbe indurre i medici a eseguire un iter diagnostico esteso nei casi di calo della troponina e incertezza della diagnosi finale” – conclude l’esperto.
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