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Lecanemab: alla scoperta del nuovo farmaco per l’Alzheimer

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Gruppo di ricercatori internazionali ha messo a punto uno studio che fa luce sul funzionamento del nuovo farmaco 

Lecanemab è il nuovo farmaco per l’Alzheimer. Il suo utilizzo potrebbe bloccare alcuni aggregati della proteina beta-amiloide che fluttuano nel fluido del tessuto cerebrale raggiungendo anche regioni remote del cervello. Un gruppo di ricercatori ha messo a punto un nuovo ed innovativo studio che fa luce sul nuovo farmaco per l’Alzheimer. “Il nostro lavoro mostra per la prima volta che un farmaco può effettivamente curare le persone con Alzheimer e rallentare il declino cognitivo” – ha affermato Dennis Selkoe, autore principale dello studio. Il lavoro è inoltre stato pubblicato sulla rivista ‘Neuron’.

I ricercatori ipotizzato che l’effetto positivo del farmaco potesse essere associato alla sua capacità di legare e neutralizzare gli aggregati solubili di proteina beta-amiloide, noti anche come protofibrille o oligomeri, piccoli grumi liberamente fluttuanti della proteina beta-amiloide, ma finora nessuno aveva definito con rigore strutturale cosa fosse una protofibrilla o un oligomero a cui si potrebbe legare il lecanemab. Gli autori dello studio hanno identificato proprio quella struttura. In particolare, hanno immerso i tessuti cerebrali post-mortem nei pazienti con Alzheimer in soluzioni saline. Le hanno poi centrifugate ad alta velocità determinandone la struttura atomica fino al singolo atomo.

I ricercatori si concentreranno ora sull’osservazione di come questi minuscoli aggregati di beta-amiloide viaggiano attraverso il cervello degli animali viventi e sullo studio di come il sistema immunitario risponda a queste sostanze tossiche. “Ricerche recenti hanno dimostrato che la reazione del sistema immunitario del cervello alla beta-amiloide è una componente chiave dell’Alzheimer. Ora approfondiremo la questione” – ha concluso Selkoe.

Lecanemab fa parte di una nuova generazione di farmaci allo studio per il trattamento dell’Alzheimer. L’aspetto interessante di lecanemab sta nel suo meccanismo d’azione: si tratta infatti del primo farmaco che mostra una certa efficacia nella riduzione delle placche di proteina beta-amiloide, il cui accumulo costituisce la caratteristica principale della malattia di Alzheimer e dei suoi devastanti effetti sul cervello.

Lo studio nel dettaglio


Lo studio ha coinvolto 1.795 pazienti con declino cognitivo lieve dovuto all’Alzheimer e con presenza di placche. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: al primo è stato somministrato il lecanemab due volte al mese per 18 mesi, gli altri hanno ricevuto solo un placebo. Le condizioni cognitive dei pazienti sono state quindi valutate con lo strumento denominato Cdr-Sb (Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes). Secondo i dati, il farmaco ha ridotto di 0,45 punti il declino cognitivo dei pazienti rispetto al placebo, in una scala che va da 1 a 18. In termini percentuali si tratta di una riduzione del 27% della progressione dei sintomi. Un dato non eccezionale, ma che rappresenta almeno una speranza per il futuro.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Emicrania: elaborata app che suggerisce i farmaci migliori

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Uno studio statunitense ha dimostrato come un’app possa aiutare le persone che soffrono di emicrania a gestire gli attacchi e prendere decisioni sui migliori farmaci da assumere

Un’app per smartphone si dimostra efficace nel gestire gli attacchi di emicrania, offrendo una vasta gamma di opzioni di trattamento utili, soprattutto per coloro che stentano a trovare un farmaco affidabile ed efficace. In che modo riesce? A spiegarlo è un nuovo studio, basato su dati raccolti da quasi 300.000 individui condotto presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota. La ricerca ha rivelato che questa app può facilitare la presa di decisioni in merito ai farmaci. In particolare, il lavoro evidenzia che alcune categorie di farmaci, come i triptani, l’ergot e gli antiemetici, possono risultare da due a cinque volte più efficaci rispetto all’ibuprofene, un comune antidolorifico. Tutti i risultati sono pubblicati sulla rivista Neurology.

“Esistono molte opzioni di trattamento disponibili. Tuttavia, mancano confronti diretti sull’efficacia” – ha affermato l’autore principale dello studio, Chia-Chun Chiang. Durante un periodo di sei anni, i ricercatori hanno analizzato oltre 3 milioni di episodi di emicrania riportati da quasi 300.000 utenti di un’applicazione per smartphone. Questa app offre agli utenti la possibilità di tracciare la frequenza degli attacchi di emicrania, individuare i trigger, monitorare i sintomi e valutare l’efficacia dei farmaci. Nel corso della ricerca, i partecipanti hanno documentato complessivamente 4,7 milioni di tentativi di trattamento utilizzando diversi farmaci, contribuendo così a una vasta raccolta di dati significativa.

Gli effetti dei singoli farmaci

I ricercatori hanno valutato l’utilità di ciascun farmaco, utilizzando tali informazioni per calcolare l’efficacia relativa di ogni sostanza rispetto all’ibuprofene, appartenente alla famiglia degli antiinfiammatori non steroidei (FANS). Nel complesso, sono state esaminate 25 sostanze appartenenti a sette classi di farmaci, includendo diverse dosi e formulazioni. Secondo i risultati dello studio, le tre classi di farmaci più efficaci rispetto all’ibuprofene risultano essere i triptani, che si sono dimostrati cinque volte più efficaci, gli ergotici, con un’efficacia triplicata, e gli antiemetici, che hanno evidenziato un’efficacia due volte e mezzo superiore.

Nell’analisi specifica dei singoli farmaci, i tre più efficaci sono emersi come l’eletriptan, con un’efficacia sei volte superiore a quella dell’ibuprofene, lo zolmitriptan, risultato cinque volte più efficace, e il sumatriptan, anch’esso cinque volte più efficace. I ricercatori hanno notato che l’eletriptan è stato valutato come utile nel 78% dei casi, lo zolmitriptan nel 74% dei casi e il sumatriptan nel 72% dei casi. In contrasto, l’ibuprofene è risultato utile solo nel 42% dei casi, sottolineando la significativa disparità nell’efficacia tra questi farmaci.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio.

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Sclerosi multipla, ottimi risultati dai test con cellule staminali

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Un team italo-britannico ha dimostrato che l’iniezione di cellule staminali nel cervello di pazienti con sclerosi multipla progressiva è sicura, ben tollerata e ha un effetto protettivo duraturo

Un trial clinico sulla sclerosi multipla progressiva ha riportato risultati promettenti. Un team italo-britannico, infatti, ha confermato la sicurezza e la buona tollerabilità dell’iniezione di un particolare tipo di cellule staminali nel cervello dei pazienti affetti da questa forma di sclerosi multipla (SM). I risultati, pubblicati sulla rivista Cell Stem Cell, indicano inoltre un effetto duraturo che sembra proteggere il cervello da ulteriori danni. Lo studio, condotto da ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Milano Bicocca, dell’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza dell’Ente Ospedaliero Cantonale di Lugano, e dell’Università del Colorado, costituisce un significativo passo avanti nel percorso verso lo sviluppo di una terapia cellulare avanzata per la SM progressiva.

Gli scienziati hanno concluso con successo uno studio clinico di fase iniziale, focalizzato sull’iniezione di cellule staminali neurali nel cervello di 15 pazienti italiani affetti da sclerosi multipla (SM). Il team italiano, in precedenza, aveva già dimostrato la capacità di generare una fornitura praticamente illimitata di tali cellule staminali da un unico donatore. In prospettiva, potrebbe diventare fattibile derivare direttamente queste cellule dal paziente stesso, contribuendo così a risolvere le sfide pratiche associate all’utilizzo di tessuti fetali allogenici.

I risultati dopo un anno di osservazione

Il team ha monitorato attentamente i pazienti per un periodo di 12 mesi, durante il quale non sono stati registrati decessi legati al trattamento o eventi avversi gravi. Al momento dell’inizio dello studio, tutti i pazienti presentavano livelli significativi di disabilità, con la maggior parte di essi confinati su sedia a rotelle. Tuttavia, nel corso dei 12 mesi di osservazione, nessuno ha manifestato un aumento della disabilità o un peggioramento dei sintomi. Complessivamente, secondo gli studiosi, ciò indica una notevole stabilità della malattia, senza segni di progressione.

I ricercatori hanno scoperto che maggiore era la dose di cellule staminali iniettate, minore era la riduzione del volume cerebrale nel tempo. Il team ha anche cercato segni che le cellule staminali stessero avendo un effetto neuroprotettivo. “I nostri risultati sono un passo verso lo sviluppo di una terapia cellulare per trattare la SM” dichiara Stefano Pluchino dell’Università di Cambridge.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio italo-britannico.

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Parkinson, uno strumento innovativo per tornare a camminare

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Il trattamento si è dimostrato in grado di migliorare le abilità motorie di un soggetto con gravi deficit motori dovuti al morbo di Parkinson

L’impianto di una neuroprotesi, seguito dalla stimolazione epidurale della colonna vertebrale, ha consentito a Marc Gauthier, un paziente francese di 62 anni affetto da Parkinson da oltre 30, di riottenere la capacità di camminare. Questo sorprendente risultato, pubblicato su Nature Medicine, è il frutto del lavoro di un team di ricercatori guidato da Grégoire Courtine dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna. 

Il trattamento si è dimostrato efficace nel migliorare le abilità motorie di un individuo con gravi deficit motori causati dal morbo di Parkinson, una patologia che provoca problemi di locomozione, equilibrio e episodi di “freezing of gait“, cioè la sensazione improvvisa di non riuscire a muoversi nonostante il desiderio di farlo. La stimolazione epidurale elettrica mirata (EES) della colonna vertebrale lombosacrale rappresenta una tecnica volta a regolare l’attività dei neuroni responsabili dei movimenti locomotori.

Dettagli e risultati del trattamento

Il team guidato da Courtine ha adattato questa tecnica con l’obiettivo di ripristinare l’attivazione naturale dei neuroni delle gambe. Gauthier, soggetto dello studio, presentava gravi deficit motori nonostante i trattamenti farmacologici e la stimolazione cerebrale profonda. In preparazione all’intervento, è stata creata una mappa anatomica personalizzata delle regioni del midollo spinale da stimolare, fornendo così una guida per l’implantazione chirurgica precisa della neuroprotesi. Successivamente, i ricercatori hanno impiegato sensori wireless per rilevare le intenzioni di deambulazione, attivando l’EES al fine di stimolare i neuroni delle gambe e generare movimenti di camminata naturali.

I risultati dello studio hanno evidenziato un notevole miglioramento dei deficit motori del paziente, il quale ha riportato un sostanziale aumento della qualità della vita. Da ben due anni, il paziente utilizza con successo questa tecnologia, sperimentando soddisfazione nei risultati ottenuti. Tali conclusioni suggeriscono che la stimolazione epidurale elettrica mirata potrebbe rappresentare un’opzione terapeutica promettente per affrontare i deficit di locomozione comuni nei pazienti affetti da Parkinson.

Clicca qui per approfondire. 

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