Alla lunga lista di disturbi legati al Long Covid, un gruppo di ricercatori della Darmouth University ha aggiunto la prosopagnosia persistente
Continua ad allungarsi la già ampia lista dei sintomi del Long Covid, sindrome post-infezione che si stima riguardi ben 63 milioni di persone nel mondo. Un gruppo di ricercatori della Dartmouth University (Usa) ha identificato un nuovo, raro, disturbo: la prosopagnosia persistente, o ‘cecità facciale’. Tale disturbo consiste nell’incapacità di riconoscere i volti di persone care o note. La teoria del team americano si basa sul caso di una donna di nomeAnnie, 28 anni, che ha contratto il Covid nel marzo del 2020. La paziente, mesi dopo aver eliminato l’infezione iniziale, ha iniziato ad avere difficoltà a riconoscere il volto di suo padre che si sembrava così una persona estranea.
Il caso clinico di Annie è stato pubblicato sulla rivista ‘Cortex’ e, visto che mai prima d’ora era stato stabilito un legame tra Covid e prosopagnosia, i medici temono che questo disturbo non venga diagnosticato o che non venga ricollegato al virus Sars-CoV-2. Secondo l’Università di Harvard la cecità facciale colpisce circa 10 milioni di persone nel mondo e sarebbe più comunemente causata da danni cerebrali, come ictus, trauma cranico, un’infiammazione del cervello (encefalite) o Alzheimer.
I ricercatori del Dartmouth hanno quindi documentato il primo caso noto di prosopagnosia persistente innescata dal Covid. Dopo aver sottoposto la paziente a ripetuti test, gli esperti hanno diagnosticato la rara condizione. I ricercatori affermano che Annie ha notato per la prima volta i suoi sintomi nel giugno dello stesso anno. Nel corso di una riunione di famiglia, la paziente mostrava difficoltà nel riconoscere il volto di suo padre, non riuscendo a distinguerlo da quello di suo zio. “Era come se la voce di mio padre uscisse dal volto di uno sconosciuto” – ha raccontato Annie ai ricercatori.
Una combinazione che ha destato sospetti
Il disturbo ha avuto più effetti negativi sulla vita di Annie, che è una rappresentante del servizio clienti e anche un’appassionata artista. Mentre prima del Covid era in grado di disegnare volti usando solo la memoria, ora necessita di una fotografia. Inoltre, ha riportato anche problemi di orientamento che hanno reso attività quotidiane e semplici una sfida. Ora Annie ha bisogno di segnare sul telefono anche la posizione della sua automobile nel parcheggio. Ad aver insospettito i ricercatori è la combinazione tra difficoltà a riconoscere i volti e i deficit d’orientamento.
“La combinazione di prosopagnosia e deficit di navigazione che aveva Annie è qualcosa che ha attirato la nostra attenzione – ha dichiarato Brad Duchaine, ricercatore del Dartmouth. Questo perché i due deficit spesso vanno di pari passo. Tale co-occorrenza è probabilmente dovuta al fatto che le due abilità dipendono dalle regione cerebrali vicine nel lobo temporale”. Il lobo temporale è la seconda regione più grande del cervello. È responsabile del riconoscimento degli oggetti, della memorizzazione e dei ricordi, così come della comprensione del linguaggio e dell’elaborazione delle reazioni emotive. Per verificarlo, i ricercatori hanno sottoposto Annie ad una serie di test. Dagli esiti sono emerse grosse difficoltà di memorizzazione.
Ulteriori studi condotti su altre 54 persone con Long Covid, hanno portato alla scoperta che la condizione è probabilmente un sintomo della malattia. Più precisamente i ricercatori hanno raccolto i dati da queste 54 persone con Long Covid e da altre 32 senza la sindrome post-infezione. Dai risultati dell’indagine, il gruppo del Long Covid è risultato più propenso ad affermare che le proprie capacità cognitive fossero diminuite da quanto hanno contratto il virus. “Una delle sfide segnalate da molti intervistati è la difficoltà di visualizzare la famiglia e gli amici – dice Duchaine. Un qualcosa che sentiamo spesso dalle persone con prosopagnosia”.
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I pazienti con Long Covid presentano chiare differenze nella funzione immunitaria e ormonale rispetto a chi non ha la condizione
Secondo uno studio condotto dalla Icahn School of Medicine del Mount Sinai e dalla Yale School of Medicine, i pazienti affetti da Long Covid presentano evidenti differenze nella funzione immunitaria e ormonale rispetto a coloro che non hanno questa condizione. “Si tratta di uno dei primi studi – afferma il ricercatore principale, David Putrino– a mostrare differenze chiare e misurabili nei biomarcatori del sangue di persone con Long Covid rispetto a persone che si sono riprese completamente da un’infezione acuta e a un gruppo di persone mai infettate da Sars-CoV-2. Questo è un passo avanti decisivo nello sviluppo di protocolli di analisi del sangue validi e affidabili per il Long Covid”. I risultati della ricerca sono visibili sulla rivista ‘Nature’.
Durante lo studio, gli esperti hanno analizzato complessivamente 271 pazienti provenienti da tre siti diversi: il Mount Sinai Hospital, il Mount Sinai Union Square e la Yale School of Medicine, nel periodo compreso tra gennaio 2021 e giugno 2022. I pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi distinti: coloro che non avevano avuto precedenti infezioni da Sars-CoV-2, coloro che si erano completamente ripresi da un caso clinicamente confermato di Covid e coloro che presentavano sintomi attivi a lungo termine per almeno quattro mesi o più dopo un’infezione confermata. I ricercatori hanno chiesto a ciascun paziente di compilare un dettagliato questionario riguardante i sintomi, la storia medica e la qualità della vita correlata alla salute.
Il team ha poi condotto prelievi di campioni di sangue da tutti i pazienti e hanno identificato sia differenze che somiglianze nei biomarcatori tra i gruppi. Successivamente, hanno applicato analisi di apprendimento automatico per ottenere una migliore comprensione di quali biomarcatori fossero più efficaci nel consentire all’algoritmo di identificare i pazienti con Long Covid. Complessivamente, l’algoritmo ha dimostrato di essere in grado di distinguere con precisione del 96% tra persone con e senza Long Covid, basandosi su caratteristiche distintive rilevate nel sangue. Tra le differenze più pronunciate, si sono riscontrate alterazioni nella funzione immunitaria e ormonale, evidenziate da biomarcatori che indicavano un’attività anomala delle cellule immunitarie T, la riattivazione di vari virus latenti (tra cui il virus Epstein-Barr e altri virus dell’herpes) e significative riduzioni dei livelli di cortisolo.
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Nuova ricerca ha studiato il meccanismo all’origine del Long Covid: una reazione autoimmune che spiega la varietà delle manifestazioni, anche non cardiache
All’interno del nostro corpo circolano migliaia di cellule immunitarie capaci di riconoscere e potenzialmente attaccare i nostri tessuti e i nostri organi. Esiste però un ‘programma di tolleranza’ che, se attivo, impedisce che avvenga l’aggressione ai danni del nostro corpo. Un nuovo studio, condotto dai ricercatori di Humanitas, ha coinvolto pazienti con postumi cardiaci da Covid dimostrando che l’incontro di alcune di queste cellule immunitarie con il Sars-CoV-2 è in grado di spegnere accidentalmente il programma di tolleranza, scatenando le cellule contro il tessuto cardiaco. I risultati, pubblicati sulla rivista Circulation, aprono la strada ad una migliore comprensione del Long Covid. il meccanismo autoimmune identificato, che può persistere per mesi dopo la fine dell’infezione, potrebbe spiegare anche altri sintomi tipicamente associati a questa patologia.
I ricercatori hanno condotto lo studio attraverso l’analisi di campioni di sangue di pazienti ricoverati per Covid-19 presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas. “Le complicanze cardiovascolari sono frequenti nei pazienti guariti da Covid-19, soprattutto in chi ha sofferto di una forma grave dell’infezione – spiega Gianluigi Condorelli, tra gli autori del lavoro. Gli studi ci dicono che la metà dei pazienti ricoverati per Covid-19 con alti livelli di troponina (un indicatore di danno al tessuto cardiaco) presentano anomalie nella risonanza magnetica cardiaca anche a 6 mesi dalla guarigione”.
I due fenomeni post-Covid
In generale, il danno subito da organi e tessuti a seguito di un’infezione come Covid-19 può essere spiegato attraverso due fenomeni, che possono coesistere. Il primo è l’aggressione diretta da parte del virus e il danno collaterale dovuto alla risposta immunitaria scatenata dal virus e poi rivolta (erroneamente) contro il tessuto. “Il secondo fenomeno – ha sottolineato l’esperto Condorelli – è in grado di spiegare il danneggiamento di tessuti che Sars-CoV-2 non ha attaccato direttamente, oltre a spiegare perché questo danno persista anche dopo l’infezione, cioè quando il virus non è più presente, come accade nel Long Covid”.
Per capire cosa succede nel caso di complicanze cardiovascolari, i ricercatori hanno coinvolto pazienti ricoverati presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas con Covid-19, concentrandosi in particolare su chi, a distanza di 6 mesi dalle dimissioni, mostrava ancora, alla risonanza magnetica, un danno cardiaco. Si tratta di persone che non avevano una storia di malattie cardiovascolari alle spalle. “Analizzando i campioni di questi pazienti – spiegano i ricercatori Marco Cremonesi e Arianna Felicetta, primi autori dello studio – abbiamo scoperto un’attivazione anomala di alcuni tipi di globuli bianchi, le cellule B, quelle deputate a produrre gli anticorpi, e abbiamo identificato la presenza di alcuni auto-anticorpi che riconoscono i tessuti del cuore. Come abbiamo poi dimostrato in uno studio di laboratorio, questi auto-anticorpi sono assenti nei pazienti ricoverati con Covid-19 ma senza danni cardiaci e sono sufficienti a scatenare una reazione autoimmune contro il cuore”.
“Il danno cardiaco è compatibile con un meccanismo chiamato perdita di tolleranza immunologica”
“I dati dello studio, seppur indicativi e derivati da un piccolo numero di pazienti, supportano la nostra ipotesi di partenza – spiega Marinos Kallikourdis capo del Laboratorio di Immunità Adattiva di Humanitas e docente Humanitas University. Il danno cardiaco è compatibile con un meccanismo chiamato perdita di tolleranza immunologica”. L’ipotesi dei ricercatori di Humanitas è che durante l’infezione da Covid-19 alcune cellule immunitarie fatte per riconoscere i nostri tessuti vengano accidentalmente stimolate dall’incontro con il virus e spengano ‘il freno’ che, in condizioni normali, impedisce loro di orchestrare un’aggressione contro il nostro organismo.
“La perdita di tolleranza immunologica – dice Kallikourdis – potrebbe spiegare anche la varietà dei sintomi del Long Covid: benché si tratti di un meccanismo singolo, può infatti produrre conseguenze cliniche molto diverse tra loro, a seconda del tipo di specificità delle cellule immunitarie che perdono la tolleranza dopo l’incontro accidentale con Sars-CoV-2. Ciò significa che lo stesso meccanismo potrebbe spiegare altre reazioni autoimmuni, ad esempio contro il tessuto nervoso, tipiche del Long Covid”. Se ulteriormente confermati, i risultati ottenuti contribuiranno a dimostrare il ruolo determinante dell’immunità nelle malattie cardiache e l’efficacia dimostrata da alcuni farmaci immunomodulanti nel trattamento dei pazienti Covid.
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Una ricerca svedese ha identificato il gene alla base della maggiore probabilità di sviluppare la sindrome post-virale
Identificato il gene alla base della maggiore probabilità di sviluppare il Long Covid. La scoperta è opera di un gruppo di alcuni ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma. Gli scienziati svedesi, guidati da Hugo Zeberg, hanno analizzato il DNA di migliaia di pazienti, scovando il gene Foxp4, la cui espressione sembra legata all’insorgenza dell’ormai nota malattia. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista ‘Nature’.
Per oltre tre anni il progetto ‘Covid-19 Host Genetics’ ha cercato sequenza di DNA associate al rischio di Covid grave. Il team svedese ha dunque deciso di occuparsi del Long Covid, raccogliendo i dati di 24 studi per un totale di 6.500 persone con questa diagnosi e oltre un milione di casi di controllo. Combinando i dati di undici dei suddetti studi, i ricercatori hanno scovato una particolare regione del genoma associata ad una probabilità di circa 1,6 volte superiore di sviluppare la malattia.
In particolare, si tratta di un segmento del DNA vicino al gene Foxp4, attivo nei polmoni e in altri organi. La variante al Long Covid è stata anche associata a una maggiore espressione di Foxp4 nelle cellule polmonari. Alcune ricerche precedenti avevano collegato lo stesso gene ad un aumento del rischio di Covid grave. “Ma questa variante – spiega Zeberg –ha un impatto molto più forte sul Long Covid rispetto al suo impatto sulla gravità”.
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