Sperimentare l’elettroceutica per curare le lesioni del midollo spinale. Questo l’obiettivo di un gruppo di ricerca europeo
Rigenerare le lesioni del midollo spinale con l’elettroceutica e in particolare con un mini-elettrodo adatto alla curvatura del midollo spinale. Questo l’obiettivo del progetto europeo Riseup (Regeneration of Injured Spinal cord by Electro pUlsed bio-hybrid imPlant) a cui partecipa anchel’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’azienda Rise Technology.
Il nuovo dispositivo rientra nella strategia innovativa basata sulla stimolazione elettrica di cellule staminali trapiantate nella regione danneggiata. “Nella fase di sperimentazione si è osservato come le cellule staminali mesenchimali (Msc) crescano sia sull’elettrodo flessibile che sul supporto – spiega Claudia Consales, coordinatrice del progetto. Le Msc si moltiplicano e risultano vitali fino a otto giorni dopo il posizionamento iniziale, evidenziando come le strutture che compongono il bio-ibrido non abbiano assolutamente alcun effetto nocivo sulle cellule”.
È proprio testare la biocompatibilità delle diverse componenti il compito dell’agenzia italiana (Enea). Il mini-elettrodo flessibile è invece stato messo a punto da Rise Technology, in collaborazione con la Sapienza. “Grazie al lavoro di tutte le parti – aggiunge Consales – quest’anno abbiamo fatto progressi notevoli nello studio degli effetti biologici dei campi elettrici sulle cellule staminali e sulle cellule del sistema immunitario, allo scopo di valutare l’effetto della stimolazione elettrica sia ai fini del differenziamento cellulare che di riduzione dei processi infiammatori”.
Come ricorda Enea in un comunicato, tra le attività portate a termine rientrano la tecnologia per la produzione di un elettrodo completamente flessibile e biocompatibile. Inoltre, a tali attività, bisogna aggiungere la messa a punto di un protocollo di stimolazione elettrica per controllare il destino delle cellule. “Il progetto Riseup vede la partecipazione di tanti giovani dottorandi e assegnisti – spiega ancora la coordinatrice Consales. Loro sono i veri protagonisti delle attività del progetto, da quelle sperimentali, alla comunicazione e al supporto nella gestione. Abbiamo ancora un anno e mezzo di lavoro, ma siamo fiduciosi di poter contribuire alla messa a punto di nuove strategie elettraceutiche, applicabili al trattamento di diverse patologie. Per ora abbiamo iniziato con le lesioni del midollo spinale, ma faremo tanto altro”.
Un gruppo di esperti dell’Università della Pennsylvania ha scoperto il meccanismo biologico che lega lo stress ad un quadro di infiammazione intestinale
Svelato il legame tra stress e mal di pancia. A scoprirlo un gruppo di esperti dell’Università della Pennsylvania guidato da Cristoph Thaiss. In particolare, lo studio condotto dal team statunitense ha identificato il meccanismo biologico che lega lo stress psicologico ad un quadro di infiammazione intestinale. Si tratta di una scoperta che potrebbe migliorare i trattamenti per le patologie gastrointestinali croniche come la malattia infiammatoria intestinale (IBD). I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista ‘Cell’.
La ricerca è stata condotta in un primo momento sui topi con sintomi simili all’IBD. Per una settimana, i ricercatori hanno collocato otto roditori all’interno di piccoli tubi per 3 ore al giorno così da indurre stress. Poi hanno trattato i topi con un irritante chimico per sette giorni così da provocare i sintomi dell’IBD. Successivamente tre topi hanno ricevuto un farmaco per bloccare il rilascio degli ormoni dello stress (glucocorticoidi) da parte del cervello. I ricercatori hanno infine eseguito una colonscopia sui roditori valutando l’infiammazione intestinale e il danno intestinale tra 0 e 15, con punteggio leggermente inferiore a 15: un dato che indica che i glucocorticoidi sono importanti per l’infiammazione intestinale indotta dallo stress.
Conclusioni
Il team ha scoperto che i topi con glucocorticoidi persistentemente elevati presentano un’attività maggiore dei geni pro-infiammatori. L’analisi genetica ha anche rilevato che lo stress altera i neuroni dell’intestino, necessari per guidare la motilità intestinale. L’equipe ha convalidato questi risultati in 63 persone con IBD, raccogliendo e analizzando geneticamente campioni di tessuto dal colon di ognuno. I partecipanti hanno anche compilato un questionario di valutazione dello stress. Le persone più stressate presentavano maggiori danni intestinali e un aumento maggiore dei marcatori infiammatori, simili a quelli osservati nei topi. La scoperta apre alla messa a punto di nuovi trattamenti per il colon irritabile, che tengano conto anche delle condizioni psicologiche della persona.
Nuovo studio svedese conferma la correlazione tra il virus della mononucleosi e la sclerosi multipla, fornendo spiegazioni sui meccanismi sottostanti
Per lungo si è supposto l’esistenza di una correlazione tra il virus della mononucleosi e la sclerosi multipla. Un recente studio condotto dal Karolinska Institutet in Svezia non solo ha confermato questa teoria, ma ha anche approfondito i meccanismi sottostanti di questa pericolosa parentela. Pubblicato sulla rivista Science Advances, lo studio ha rilevato che alcune persone possiedono anticorpi che erroneamente attaccano una proteina presente nel cervello e nel midollo spinale, in risposta al virus.
L’infezione da virus Epstein-Barr (EBV) colpisce la maggior parte delle persone nelle prime fasi della vita e persiste nel corpo senza sintomi evidenti. Recenti evidenze scientifiche suggeriscono che l’infezione da EBV precede lo sviluppo della sclerosi multipla e che tale correlazione sia legata agli anticorpi diretti contro il virus. Secondo uno studio condotto dal Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del già citato istituto svedese, l’EBV potrebbe svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo della sclerosi multipla. Olivia Thomas, ricercatrice post-doc e co-autrice dello studio, afferma che la sclerosi multipla è una malattia estremamente complessa e che la ricerca fornisce un pezzo importante del puzzle, spiegando perché alcune persone ne sono affette. In particolare, è stato scoperto che alcuni anticorpi specifici contro il virus Epstein-Barr, che normalmente dovrebbero combattere l’infezione, possono erroneamente danneggiare il cervello e il midollo spinale.
Lo studio nel dettaglio
Attraverso l’analisi di campioni di sangue provenienti da oltre 700 pazienti affetti da sclerosi multipla e 700 individui sani, i ricercatori sono arrivati a interessanti conclusioni. Hanno infatti scoperto che gli anticorpi diretti contro una proteina chiamata EBNA1 presente nel virus Epstein-Barr possono anche legarsi a una proteina simile nel cervello e nel midollo spinale chiamata CRYAB . Il ruolo di CRYAB è quello di prevenire l’aggregazione delle proteine durante lo stress cellulare, come l’infiammazione.
Tuttavia, questi anticorpi cross-reattivi possono erroneamente danneggiare il sistema nervoso, causando gravi sintomi tra cui problemi di equilibrio, mobilità e affaticamento. Si è riscontrato che questi anticorpi erano presenti in circa il 23% dei pazienti affetti da sclerosi multipla e nel 7% degli individui nel gruppo di controllo. Thomas afferma che, sebbene queste risposte anticorpali non siano sempre indispensabili per lo sviluppo della malattia, possono essere coinvolte nella sclerosi multipla in una percentuale significativa, fino a un quarto dei pazienti.
“Questo dimostra anche l’elevata variazione tra i pazienti, evidenziando la necessità di terapie personalizzate – sottolinea l’esperta. Le attuali terapie sono efficaci nel ridurre le ricadute nella sclerosi multipla, ma sfortunatamente nessuna può impedire la progressione della malattia”.
I ricercatori hanno inoltre scoperto che probabilmente esiste una reattività crociata simile tra le cellule T del sistema immunitario. “Stiamo attualmente espandendo la nostra ricerca per studiare come le cellule T combattono l’infezione da EBV e come queste cellule immunitarie possono danneggiare il sistema nervoso nella sclerosi multipla, contribuendo così alla progressione della malattia” – conclude Mattias Bronge, ricercatore del Karolinska Institutet e co-autore dello studio.
Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.
La scoperta arriva da un team del Wellcome Sanger Institute di Hinxton, nel Regno Unito. I risultati sono stati pubblicati su ‘Nature Genetics’
Dieci alterazioni genetiche sarebbero alla base di un maggior rischio di insorgenza del morbo di Crohn. Lo dimostra uno studio pubblicato su ‘Nature Genetics’ da un gruppo di esperti del Wellcome Sanger Institute di Hinxton, nel Regno Unito. I geni individuati rappresentano una conferma del ruolo delle cellule dell’immunità innata e adattativa e dell’autofagia nella patogenesi del morbo. Inoltre, sottolineano anche il ruolo delle cellule mesenchimali nello sviluppo e nel trattamento dell’infiammazione intestinale.
“La maggior parte degli esseri umani avrà alcune delle varianti genetiche che aumentano la suscettibilità alle malattie infiammatorie intestinali come il morbo di Crohn – spiega Aleksejs Sazonovs, primo autore dello studio. Altre varianti, più rare, possono aumentare di quattro o cinque volte la probabilità che una persona sviluppi queste malattie. Quindi è particolarmente importante individuarle e comprendere quali processi biologici influenzano”.
Precedenti studi avevano già identificato oltre 200 regioni nel genoma che contribuiscono al rischio della malattia. I ricercatori hanno analizzato i dati di sequenziamento dell’esoma di circa 30.000 pazienti affetti da morbo di Crohn e di circa 80.000 persone sane. In questo modo sono state individuate varianti genetiche in 6 geni divisi in regioni non connesse in precedenza con la malattia. Scoperti, inoltre, 4 geni in regioni già associate alla malattia infiammatoria intestinale dagli studi di associazione genome-wide (GWAS), ovvero studi che generalmente identificano varianti che sono al di fuori dei geni codificanti proteine.
Infine, il team ha individuato una variante rara nel gene TAGAP che ha invece l’effetto opposto, ovvero riduce il rischio della malattia. Identificare nuove varianti genetiche che aumentano o riducono il rischio di una malattia è un aspetto fondamentale per lo sviluppo di nuove terapie.
Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio.