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Parkinson: da un tampone salivare diagnosi in breve tempo

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Secondo uno studio appena pubblicato sugli ‘Annals of Neurology’ i regolatori della proteina anomala del Parkinson sarebbero svelati con un test che arriverebbe nel giro di qualche giorno. Accuratezza diagnostica che può arrivare al 99%

Svolta diagnostica in ambito neurologico e più precisamente per quanto riguarda la malattia di Parkinson. Secondo un recentissimo studio, appena pubblicato sugli ‘Annals of Neurology’, attraverso un semplice tampone salivare è possibile diagnosticare il cosiddetto morbo di Parkinson. Nel giro di pochi giorni potrebbe infatti arrivare una risposta con un’accuratezza diagnostica che promette di essere addirittura del 99%. Si tratta, tra l’altro, di uno studio condotto da ricercatori dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, diretti dal Prof. Alfredo Berardelli, il quale è anche Presidente della Società Italiana di Neurologia – Sin

Lo studio ha confrontato per due anni 80 pazienti di fresca diagnosi con 62 soggetti sani di pari caratteristiche per età e genere. Trattandosi di malattia a prevalenza maschile, i maschi erano oltre il doppio delle femmine e l’età media generale era di 73 anni e mezzo. Inoltre i soggetti sani sono stati selezionati escludendo malattie che potevano alterare la produzione salivare, poiché ciò avrebbe potuto compromettere l’interpretazione dei risultati. Per confermare la riuscita della diagnosi, i ricercatori hanno sottoposto i ‘parkinsoniani de novo’ a rivalutazioni motorie e cognitive con le scale MDS-UPDRS, NMSS, MoCA, ecc. 

Nuovi marcatori

“Sulla scorta di precedenti sperimentazioni proficue abbiamo cercato nella saliva altri marcatori biochimici distintivi della malattia di Parkinson oltre all’alfa-sinucleina, già nota come principale proteina coinvolta – spiega Giorgio Vivacqua, uno degli autori principali dello studio. Siamo così riusciti – prosegue – a studiare anche i marcatori salivari di altri processi coinvolti. Processi come l’aggregazione proteica, infiammazione e degradazione cellullare (la cosiddetta autofagia): le proteine tau-fosforilata e MAP–LC3beta e la citochina TNFalfa. Proprio queste ultime due si sono rilevate molto più alte in chi soffre di malattia di Parkinson. In particolare la MAP–LC3beta è risultata inversamente proporzionale ai sintomi non motori della malattia. Sintomi quali stipsi, disturbi del sonno, depressione, ecc.”. 

Aldilà di quest’ultima correlazione inversa, in generale gli indici di laboratorio e quelli clinici erano indipendenti fra loro. Occorreranno ulteriori studi per capire fino a che punto nelle fasi iniziali i biomarcatori salivari possono distinguere la vera malattia di Parkinson dai parkinsonismi atipici. Di certo, l’alfa-sinucleina oligomerica rappresenta il marker d’eccellenza che, con una sensibilità quasi del 100% e una specificità del 98,39%, permette di distinguere chi è in fase iniziale di malattia da chi non è affetto. Il tutto con un’accuratezza diagnostica complessiva pari al 99%

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio. 

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Scoperta nuova causa scatenante del morbo di Parkinson

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Una nuova ricerca condotta da esperti della Northwestern University ha identificato un nuovo fattore che porta alla neurodegenerazione

La degenerazione dei neuroni dopaminergici è stata tradizionalmente identificata come il primo evento associato alla comparsa del Parkinson. Tuttavia, un recente studio condotto dai ricercatori della Northwestern University suggerisce una prospettiva diversa, indicando che un malfunzionamento nelle sinapsi dei neuroni ,quei minuscoli spazi attraverso i quali un neurone può trasmettere un impulso a un altro, possa essere il precursore dei deficit di dopamina, precedendo la neurodegenerazione stessa. Il Parkinson, una condizione che colpisce l’1% al 2% della popolazione, è caratterizzato da sintomi quali tremore a riposo, rigidità e bradichinesia (lentezza nei movimenti), causati dalla progressiva perdita di neuroni dopaminergici nel mesencefalo. Queste nuove scoperte, appena pubblicate sulla rivista Neuron, aprono nuove prospettive per lo sviluppo di terapie potenzialmente più efficaci.

“Abbiamo dimostrato che le sinapsi dopaminergiche diventano disfunzionali prima che si verifichi la morte neuronale” spiega l’autore principale dello studio Dimitri Krainc“Sulla base di questi risultati, ipotizziamo che mirare alle sinapsi disfunzionali prima che i neuroni si degenerino possa rappresentare una migliore strategia terapeutica”. Lo studio si è focalizzato sui neuroni del mesencefalo derivati da pazienti. Gli scienziati hanno scoperto che le sinapsi dopaminergiche non funzionano correttamente in diverse forme genetiche del morbo di Parkinson. Questo lavoro affronta una delle principali lacune nel campo: come diversi geni legati al Parkinson portino alla degenerazione dei neuroni dopaminergici umani.

Il ruolo di due particolari geni

I geni Parkin e PINK1 possono essere paragonati a veri e propri custodi nell’ambito del sistema di riciclaggio all’interno delle cellule nervose. La loro principale responsabilità è quella di gestire il recupero e il riciclaggio dei mitocondri, i ‘generatori di energia’ cellulari, quando questi diventano troppo anziani o esausti. La permanenza di mitocondri disfunzionali all’interno delle cellule potrebbe potenzialmente generare problemi di funzionalità cellulare. Questo complesso processo di riciclaggio o rimozione dei vecchi mitocondri è noto come mitofagia.

In una situazione di normale funzionamento cellulare, il gene PINK1 svolge un ruolo attivo nell’attivare il gene Parkin, collaborando così per spostare i mitocondri invecchiati lungo un percorso che li condurrà alla loro successiva rigenerazione o eliminazione. È ben documentato che individui portatori di mutazioni su entrambe le copie dei geni PINK1 o Parkin possono sviluppare la malattia di Parkinson, principalmente a causa di una mitofagia inefficiente.

La storia delle due sorelle

La ricerca è stata arricchita dalla storia di due sorelle che hanno affrontato la sfortuna di nascere senza il gene PINK1, poiché entrambi i loro genitori non possedevano una copia di questo gene cruciale. Questo ha esposto le due sorelle a un elevato rischio di sviluppare il Parkinson, ma in modo sorprendente, una delle sorelle è stata diagnosticata con la malattia all’età di 16 anni, mentre l’altra solo a 48 anni. Questa disparità ha stimolato gli scienziati a effettuare una scoperta innovativa e rilevante.

Nel caso della sorella che ha ricevuto la diagnosi a 16 anni, è emerso che aveva subito una perdita parziale anche del gene Parkin, che, per conto suo, non dovrebbe essere sufficiente a causare la malattia di Parkinson. Questo ha innescato una domanda chiave: come mai la sorella con solo una perdita parziale di Parkin ha sviluppato la malattia più di 30 anni prima dell’altra? La risposta a questa interrogativo ha rivelato agli scienziati un nuovo livello di comprensione delle funzioni del gene Parkin. È emerso che Parkin svolge un ruolo cruciale in un’altra via di segnalazione completamente diversa, presente nei terminali sinaptici, non correlata al suo compito di riciclaggio. In questa via, il gene regola il rilascio di dopamina, un aspetto che in precedenza era sconosciuto e che assume un ruolo fondamentale nella comprensione della malattia di Parkinson.

Le conclusioni ricavate

Aver capito cosa sia successo alle due sorelle ha portato gli scienziati della Northwestern a pensare a una nuova opportunità per potenziare Parkin e, potenzialmente, di prevenire la degenerazione dei neuroni dopaminergici. “Abbiamo scoperto un nuovo meccanismo per attivare Parkin nei neuroni dei pazienti – sottolineano i ricercatori. Ora dobbiamo sviluppare farmaci che stimolino questa via, correggano la disfunzione sinaptica e, si spera, prevengano la degenerazione neuronale nel Parkinson”

Clicca qui per leggere l’estratto originale del lavoro. 

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Identificata nuova tipologia di cellula nel cervello

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La scoperta, opera di un gruppo di esperti dell’Università di Losana e del Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra, è destinata a sconvolgere le neuroscienze

Grandissima novità nel mondo delle neuroscienze. Un gruppo di scienziati ha indiviuduato un nuovo tipo di cellula nel cervello. Il team, formato da ricercatori dell’Università di Losanna e del Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra, ha scoperto che le due grandi famiglie di cellule che compongono il cervello, i neuroni e le cellule gliali, nascondono segretamente una cellula ibrida, a metà strada tra queste due categorie: si tratta degli astrociti glutammatergici. I risultati dello studio aprono la strada a nuovi approcci per comprendere meglio e contrastare alcune patologie del cervello. Il team ha pubblicato i risultati della scoperta sulla rivista ‘Nature’.

Non solo neuroni e cellule gliali

Da quando le neuroscienze hanno fatto la loro comparsa, si è sempre ritenuto che il cervello funzionasse principalmente grazie ai neuroni e alla loro abilità nell’elaborare e trasmettere rapidamente informazioni attraverso le loro reti. Per sostenere questa funzione, le cellule gliali svolgono una serie di compiti, tra cui funzioni strutturali, energetiche e immunitarie, oltre a stabilizzare le costanti fisiologiche. Alcune di queste cellule gliali, conosciute come astrociti, circondano strettamente le sinapsi, i punti di contatto in cui i neurotrasmettitori vengono rilasciati per veicolare le informazioni tra i neuroni. Questo è il motivo per cui gli scienziati hanno a lungo ipotizzato che gli astrociti potrebbero avere un ruolo attivo nella trasmissione sinaptica e partecipare all’elaborazione delle informazioni.

Tuttavia, finora, gli studi condotti per dimostrarlo hanno prodotto risultati contrastanti e non hanno ancora raggiunto un consenso scientifico definitivo. Per risolvere questa questione, i neuroscienziati hanno identificato un nuovo tipo di cellula con le caratteristiche di un astrocita e hanno individuato il meccanismo molecolare necessario per la trasmissione sinaptica. Ciò ha concluso anni di controversie. Per confermare o confutare l’ipotesi che gli astrociti, simili ai neuroni, siano in grado di rilasciare neurotrasmettitori, i ricercatori hanno inizialmente esaminato il contenuto molecolare degli astrociti utilizzando moderne tecniche di biologia molecolare. Il loro obiettivo era individuare segni del meccanismo necessario per la rapida secrezione del glutammato, il principale neurotrasmettitore utilizzato dai neuroni.

Le parole dei protagonisti

“La precisione consentita dagli approcci di trascrittomica unicellulare ci ha permesso di dimostrare la presenza nelle cellule con profilo astrocitico di trascritti delle proteine ​​vescicolari, VGLUT, incaricate di riempire le vescicole neuronali specifiche per il rilascio di glutammato – spiegano i ricercatoriQuesti trascritti sono stati trovati in cellule di topi, e sono apparentemente conservati nelle cellule umane. Abbiamo anche identificato altre proteine ​​specializzate in queste cellule”. 

In seguito, i neuroscienziati hanno cercato di determinare se queste cellule ibride fossero effettivamente funzionanti, ovvero capaci di rilasciare glutammato con una velocità comparabile a quella della trasmissione sinaptica. Per raggiungere questo obiettivo, il gruppo di ricerca ha impiegato una tecnica di imaging avanzata in grado di rilevare il glutammato rilasciato dalle vescicole nei tessuti cerebrali e nei topi vivi. Abbiamo identificato un sottogruppo di astrociti che rispondono a stimolazioni selettive con rapido rilascio di glutammato, che si verifica in aree spazialmente delimitate di queste cellule” – ha dichiarato Andrea Volterra, tra gli autori principali dello studio

Inoltre, è da notare che questo rilascio di glutammato esercita un’influenza significativa sulla trasmissione sinaptica e sul controllo dei circuiti neuronali. Il gruppo di ricerca è riuscito a dimostrarlo sopprimendo l’espressione di VGLUT da parte delle cellule ibride. Roberta de Ceglia, la prima autrice dello studio e ricercatrice senior dell’Università di Losanna, spiega: “Queste cellule svolgono un ruolo cruciale nella modulazione dell’attività neuronale, controllando il livello di comunicazione e di eccitazione dei neuroni”. Senza questo meccanismo funzionale, lo studio ha rivelato che il potenziamento a lungo termine, un processo neurale coinvolto nei meccanismi di memorizzazione, viene compromesso, con conseguenze negative sulla memoria dei topi.

Una scoperta potenzialmente rivoluzionaria

Le implicazioni di questa scoperta sono potenzialmente di vasta portata. Attraverso la specifica soppressione degli astrociti glutammatergici, il gruppo di ricerca ha dimostrato effetti sul consolidamento della memoria e ha rilevato legami con patologie come l’epilessia, che potrebbero essere exacerbate dalle crisi epilettiche. Inoltre, lo studio ha evidenziato anche che gli astrociti glutammatergici svolgono un ruolo nella regolazione dei circuiti cerebrali responsabili del controllo del movimento, suggerendo la possibilità di sviluppare bersagli terapeutici per affrontare la malattia di Parkinson.

“Tra neuroni e astrociti, ora abbiamo a portata di mano un nuovo tipo di cellula – spiega Volterra. La sua scoperta apre immense prospettive di ricerca. I nostri prossimi studi – conclude – esploreranno il potenziale ruolo protettivo di questo tipo di cellula contro i disturbi della memoria nella malattia di Alzheimer, così come il suo ruolo in regioni e patologie diverse da quelle qui esplorate”.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dell’articolo. 

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Le ondate di calore favoriscono l’Alzheimer: lo studio

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Le persone con patologie neurodegenerative e, in particolare, demenza e Alzheimer, potrebbero essere particolarmente a rischio a causa delle continue ondate di calore 

Uno studio dei ricercatori dell’Università di Trieste, in collaborazione con docenti e neurologi dell’Environmental Neurology Specialty Group della World Federation of Neurology, evidenzia come le persone con patologie neurodegenerative e, in particolare, demenza e Alzheimer, potrebbero essere particolarmente a rischio a causa delle continue ondate di calore che, anche a causa del cambiamento climatico e del global warming, continuano ad aumentare. Si tratta della prima review che ha raccolto e analizzato tutta la letteratura sinora dedicata a questo tema. Il lavoro è stato pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale ‘Current Alzheimer Research’.

I risultati dello studio indicano che tra i numerosi effetti negativi che le patologie neurodegenerative possono avere sulle capacità cognitive e funzionali di chi ne è affetto, è presente anche una ridotta capacità di termoregolazione dell’organismo, soprattutto negli anziani. Per questo motivo, se sottoposti a forti ondate di calore, i malati di Alzheimer o quelli affetti da demenza potrebbero non riuscire a mantenere costante la temperatura del proprio corpo, esponendosi così a rischi maggiori rispetto alle altre persone. Inoltre, il riscaldamento globale potrebbe essere indirettamente associato allo sviluppo di condizioni cliniche, tra cui malattie renali o infettive, che possono danneggiare ulteriormente la salute dei soggetti fragili aumentando il rischio di disidratazione e infezioni.

Le parole degli autori

“Sulla base dei dati presenti in letteratura, emerge come durante le ondate di calore siano proprio le persone anziane e quelle con patologie croniche, tra cui i decadimenti cognitivi e un maggior grado di dipendenza, a riportare un più alto rischio di ospedalizzazione e di mortalità – Sottolinea Alex Buoite Stella, primo autore dello studioGià piccoli aumenti di temperatura ambientale media, specialmente con alti tassi di umidità, possono ridurre l’efficacia termoregolatoria in alcune di queste condizioni, rendendo più difficile disperdere calore sia tramite le risposte fisiologiche, che quelle comportamentali”.

“I periodi di calore sempre più intensi e frequenti rappresentano un fattore di rischio per le persone più fragili aggiunge Paolo Manganotti, tra gli autori del lavoro. Ma soprattutto hanno un effetto negativo sul sistema nervoso centrale, a partire dai ‘colpi di calore’, in combinazione con il rischio di disidratazione, con effetti più gravi su persone già in parte affette da patologie neurodegenerative come il decadimento cognitivo ed il Parkinson. È importante essere consapevoli di dover affrontare questo ulteriore fattore di rischio ambientale stagionale con strategie adatte e calate sulla persona”.

Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute

Sotto l’aspetto fisiologico, le persone con disturbi cognitivi e malattie neurodegenerative potrebbero essere colpite dal riscaldamento globale attraverso diversi meccanismi. Basti pensare allo stress da calore che potrebbe comportare un aumento dell’eccitotossicità, dello stress ossidativo e della neuroinfiammazione. Se concomitanti, questi effetti potrebbero promuovere l’accumulo del peptide beta amiloide e della proteina tau, molecole ritenute i principali responsabili della malattia di Alzheimer. 

Inoltre, le persone con malattia di Alzheimer possono avere schemi circadiani alterati, ovvero variazioni della temperatura corporea nel corso del giorno diverse da quelle fisiologiche e corrette. Ciò può portare la comparsa di anomalie della termoregolazione, cioè difficoltà da parte dell’organismo ad alzare o abbassare la temperatura del corpo per adattarsi alle condizioni ambientali.

Vi sono anche fattori comportamentali a contribuire alla maggiore difficoltà delle persone con deficit cognitivi e malattie neurodegenerative nel far fronte a eventi di caldo estremo. Ad esempio, un’alterazione della percezione del rischio e della capacità di prendersi cura di sé. Infatti, è stato ipotizzato che il forte aumento dei decessi tra le persone con gravi deficit cognitivi (demenze di varia origine, tra cui quelle derivanti da ictus o morbo di Alzheimer) durante le precedenti ondate di calore potrebbero essere state causate dall’incapacità di una persona di percepire le condizioni ambientali, la soglia della sofferenza e ascoltare i meccanismi di difesa fisiologici, tra cui anche la sete.

“La ricerca a livello internazionale ha preso in seria considerazione il problema degli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute – ha aggiunto ancora Alex Buoite StellaA partire dai modelli fisiologici delle risposte dell’organismo agli stress termici è possibile quindi individuare le strategie ottimali per mitigare i rischi di malattie caldo-correlate, attraverso gli strumenti e gli obiettivi della medicina personalizzata e grazie al supporto delle nuove tecnologie”.

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