Prosegue il focus sul ruolo del chirurgo oncologo. Ancora una volta è l’esperto Prof. Marano a raccontarci nel dettaglio i molteplici compiti di questa delicata figura
La chirurgia oncologica è quella branca della medicina che si occupa della terapia chirurgica del cancro attraverso la rimozione dello stesso dall’organismo del paziente. Quando si rimuove un cancro è possibile anche eliminare parte del tessuto circostante che può contenere cellule cancerose avendo l’obiettivo di essere quanto più radicali possibile. L’operazione è effettuata da parte di un chirurgo oncologo specializzato.
Di recente, Italian Medical News ha intervistato un esperto in materia: il Prof. Luigi Marano, Chirurgo Oncologo presso l’Azienda Ospedaliera-Universitaria Senese e Professore Associato presso l’Università degli Studi di Siena. Nella citata intervista (che puoi leggere cliccandoqui) il Prof. Marano ha esposto una serie di temi e concetti relativi alla figura del chirurgo oncologo: dall’importanza della multidisciplinarietà al concetto della fragilità, passando a necessità urgenti come quella di introdurre, a livello istituzionale, il cosiddetto ‘core curriculum’ specifico per la chirurgia oncologica. Abbiamo deciso dunque di intervistare nuovamente l’esperto, ponendo nuove domande e ricevendo altrettante interessanti risposte.
Un rapporto in evoluzione
Professore, qual è la relazione che si instaura tra il chirurgo oncologo e l’oncologo di trattamento? Come si rapportano queste due figure?
“Innanzitutto si tratta di collaboratori di una stessa equipe. Mi lasci passare la confidenza, in genere parliamo prima di amici e poi di colleghi. Ciò sicuramente ha un risvolto positivo nell’ambito del rapporto professionale. L’oncologo medico così come il radioterapista oncologo sono nostri alleati e tutti insieme combattiamo contro una malattia per conseguire lo stesso obiettivo. Dunque, si tratta di un rapporto di assoluto rispetto, collaborazione e di condivisione di informazioni. Tra l’altro possiamo parlare anche di evoluzione di questo rapporto: infatti, prima l’oncologo medico lavorava separatamente dal chirurgo e dal radioterapista. In passato erano delle discipline che non comunicavano o comunicavano poco fra loro. Oggi si va verso una visione maggiormente olistica del paziente, che pone il malato al centro del sistema di cura. Esiste il malato e non la malattia“.
“Questo è un grande cambiamento. se noi iniziamo ad avere questo approccio filosofico-scientifico, per quanto possa sembrare una contrapposizione, noi siamo in grado di fornire al paziente un trattamento ‘personalizzato’ e un trattamento di precisione. Entriamo quindi nella cosiddetta era della ‘Precision Medicine’ e della ‘Precision Surgery’. Il tutto con una visione globale del paziente, a 360°, e ciò ci permette di offrire il ‘Best Treatment’, ovvero il miglior trattamento possibile al paziente garantendo, nei limiti che pone il preciso contesto, un miglioramento in termini di sopravvivenza e in termini di qualità di vita del paziente. La cura centrata sulla persona sottolinea, quindi, anche l’importanza di conoscere la persona dietro il paziente come un essere umano con ragione, volontà, sentimenti e bisogni, per coinvolgerlo come partner attivo nel processo di cura e nel suo trattamento”.
Sinergia tra conoscenza medica e nuove tecnologie
In prospettiva futura, quali sono gli orizzonti della chirurgia oncologica anche in termini tecnologici?
“Negli ultimi decenni siamo stati spettatori di un progressivo sviluppo della tecnologia, soprattutto nell’ambito delle scienze chirurgiche e, ancor di più, della chirurgia oncologica. Un esempio è rappresentato dallo sviluppo e dall’applicazione sempre più capillare degli approcci mininvasivi. Essi hanno costituito una vera e propria ‘rivoluzione’ concettuale soprattutto nel campo applicativo della chirurgia oncologica. Si è passati dall’era (parliamo del 1800) in cui venivano timidamente eseguite le prime procedure di chirurgia ‘eroica’, con l’obiettivo di asportare la malattia, fino agli anni ’30-40 del ‘900 in cui più si era demolitivi, più si riteneva di ottenere consistenti chances di cura. Oggi, invece, la chirurgia mininvasiva, laparoscopica e robotica, ha contribuito ad invertire tale tendenza. Si sente sempre più spesso parlare di trattamento conservativo: ecco che quindi si adotta un approccio chirurgico resettivo limitato nel tentativo di preservare l’organo e, soprattutto, di conservarne la sua funzionalità”.
“Insomma, una vera e propria sinergia tra conoscenza medica e nuove tecnologie. E’ necessario, però, sottolineare che il chirurgo oncologo non può e non deve mai perdere di vista il proprio fine nella scelta dell’approccio: la radicalità del trattamento della malattia neoplastica. Questo obiettivo deve sempre essere perseguito indipendentemente dall’approccioscelto. Se il chirurgo ritiene l’approccio laparoscopico/robotico non efficace in un preciso contesto, è necessario eseguire l’intervento chirurgico secondo l’approccio open tradizionale. Ed ecco che torniamo al concetto precedente: ‘Precision Medicine’ e ‘Precision Surgery’”.
Un prestigioso riconoscimento
Professore, chiudiamo con una domanda un po’ più personale: di recente, la prestigiosa rivista internazionale ‘World Journal of Gastrointestinal Oncology’ l’ha “premiato” dedicandole la copertina del volume uscito lo scorso 9 settembre. Sono state, in particolare, le attività di ricerca scientifica, il trattamento chirurgico delle neoplasie addominali e l’applicazione delle nuove tecnologie mininvasive, laparoscopiche e robotiche a destare la loro attenzione. Cosa può dirci in merito? Che emozione ha provato?
“E’ per me motivo di grande orgoglio aver ricevuto tale premio internazionale che sugella la mia costante attività pluriennale di chirurgo e di ricercatore. E’ il riconoscimento della costanza, della dedizione e soprattutto del sacrificio personale che si sono resi necessari per lo sviluppo e la definizione delle mie numerose ricerche nel campo delle malattie funzionali (ad esempio: acalasia esofagea, malattia da reflusso gastro-esofageo, ernie iatali) ed oncologiche dell’esofago e dello stomaco. In aggiunta a ciò, l’esperienza nel campo della chirurgia mininvasiva laparoscopica e robotica maturata in un gruppo chirurgico di riconosciuto prestigio mi ha consentito di poter essere stato, nel 2018, il primo chirurgo ad eseguire in Italia un delicato intervento chirurgico all’esofago utilizzando contemporaneamente il robot daVinci e la stampa 3D“.
“Non da ultimo, le numerose iniziative attuate durante il periodo in cui ho avuto l’onore e l’onere di coordinare la sezione giovani della Società Italiana di Chirurgia Oncologica, tra cui quella di aver riunito, per la prima volta in Italia, i giovani chirurghi oncologi, oncologi medici e radioterapisti oncologi assieme ai nutrizionisti per tracciare strategie di intervento condivise a livello multidisciplinare per lo screening, la diagnosi ed il trattamento della malnutrizione del paziente oncologico. Insomma, una serie di risultati che hanno contribuito a suscitare l’attenzione dei colleghi d’oltreoceano i quali hanno deciso poi di procedere al conferimento del riconoscimento”.
La ‘vera’ gavetta
L’emozione che ho provato? Soddisfazione immensa che può provare solo un orfano di Carabiniere che, ormai dieci anni or sono, dopo una Laurea in Medicina ed una Specializzazione in Chirurgia Generale conseguite presso l’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, è stato costretto a lasciare la propria famiglia e la propria terra con una valigia di cartone ricolma di sogni, ha dovuto costruire altrove il proprio futuro lottando contro pregiudizi e preconcetti, facendo la ‘vera’ gavetta a partire dal servizio 118, passando per il pronto soccorso ed arrivando poi ai reparti chirurgici solo dopo aver scalato la piramide a partire dal gradino più basso, confidando sempre e solo nelle proprie potenzialità e non perdendo mai di vista il proprio obiettivo. Il tuttocon la consapevolezza e l’entusiasmo di dover assumersi, per il resto della vita, la responsabilità della missione di medico“. (Clicca qui per approfondire il riconoscimento ottenuto dal Prof. Marano).
L’esperta Endocrinologa e Diabetologa Chiara Di Loreto fa luce sulla questione semaglutide, il farmaco andato a ruba negli ultimi mesi
Definita come una “rivoluzione” contro l’obesità, la semaglutide iniettiva settimanale è diventata stranota per attraversare un periodo di non facile reperibilità nelle farmacie che verosimilmente si protrarrà per tutto il 2023, come la stessa Agenzia Italiana del farmaco (Aifa) ipotizza. Visto anche l’acquisto e l’encomio da parte di numerosi personaggi famosi sui social media come una strategia per la perdita di peso, il nuovo farmaco sta avendo difficoltà di accesso per coloro che lo utilizzano per la terapia del diabete tipo 2 . Per questi motivi Aifa ha incluso Ozempic (il nome commerciale del farmaco) nella lista dei farmaci in carenza, insieme ad un altro farmaco iniettivo della stessa classe. Le difficoltà di produzione/distribuzione dei farmaci sta riguardando anche altre classi di farmaci orali utilizzati nella cura del diabete.
Per fare luce sulla questione, Italian Medical News ha deciso di intervistare un’esperta del settore che ha anni di esperienza di utilizzo della classe degli agonisti recettoriali del GLP-1 e pubblicazioni a riguardo: la Dott.ssa Chiara Di Loreto, Medico Specialista in Endocrinologia e Presidente della sezione regionale Associazione Medici Diabetologi (AMD) dell’Umbria.
Una panoramica generale sulla questione
Dottoressa, cosa pensa lei di tutta la questione semaglutide? Cosa può dirci in merito?
“La semaglutide iniettiva, prescrivibile e rimborsabile in Italia come Ozempic, è un farmaco utilizzato come terapia del diabete. In particolare, Ozempic ha come indicazione principale la cura del diabete mellito di tipo 2. In altre nazioni (Usa, Danimarca, Norvegia e da poco anche Inghilterra) la semaglutide, ma con dosaggi diversi e con nome commerciali differenti (Wegovy), è utilizzata anche per l’obesità; non parliamo semplicemente di sovrappeso ma di una condizione patologica, ossia di una malattia che ha precisi criteri diagnostici e pertanto terapeutici. La questione semaglutide è esplosa negli Usa a fine 2022 per via di una grande diffusione mediatica portata avanti da alcune stars di Hollywood. Questo ha avuto ripercussioni anche in Europa, Italia inclusa. In sostanza, tutto è nato quando questi personaggi noti hanno diffuso sui social gli effetti ‘miracolosi’ di semaglutide parlandone come una ‘semplice’ terapia dimagrante”.
“La questione è la seguente: negli States hanno utilizzato il farmaco per l’obesità facendone anche un disuso in alcune condizioni non particolarmente patologiche; da noi in Italia, come in buona parte d’Europa, quest’onda mediatica ha favorito il reperimento dell’unica forma di semaglutide presente anche nel suo uso off-label, cioè fuori prescrizione. I canali di distribuzione del farmaco sono stati repentinamente rivisti, in modo che Ozempic venisse concesso solo secondo indicazione e cioè nella terapia del diabete tipo 2″.
“Cosa abbia determinato questa difficoltà di reperimento di Ozempic? Io penso che ci sia stato un connubio di situazioni: da un lato un’aumentata richiesta a livello globale e dall’altro un maggiore utilizzo di semaglutide per il diabete mellito di tipo 2, essendosi rivelato il più potente farmaco non insulinico ora disponibile per questa patologia. Aggiungiamoci anche l’uso a livello mondiale dello stesso principio attivo anche per l’obesità. Qualunque previsione di produzione e distribuzione è stata superata dalla richiesta ed è perciò facile comprendere perché i pazienti abbiano avuto e continuino ad avere, seppur attualmente in misura minore, difficoltà a trovare il farmaco nelle farmacie. Purtroppo la domanda ha superato di gran lunga l’offerta”.
Le conseguenze del problema
Chiarissimo Dottoressa. In base a ciò che ci ha appena detto, cosa comporta dunque la difficoltà di reperire Ozempic per i pazienti diabetici?
“Noi diabetologici stiamo vivendo ormai da diversi mesi questa situazione. Ovviamente ci siamo dovuti attrezzare per non lasciare scoperti i pazienti. In ambito diabetologico abbiamo delle alternative anche con lo stesso principio attivo (ad esempio la semaglutide orale), ma anche a base di altre classi di farmaci. Cionondimeno i disguidi sono esistiti e continuano ad esistere sia per i pazienti che per i servizi di diabetologia. Di certo il nostro compito è quello di evitare che il paziente rimanga scoperto per lunghi periodi”.
Ragionando al contrario, che effetto può avere invece un utilizzo inappropriato di semaglutide in quelle persone a cui non era stato prescritto?
“Su questo argomento se ne sono sentite e lette di ogni tipo. Si è addirittura arrivati alla demonizzazione del farmaco stesso. Dire che semaglutide faccia male agli obesi solo per cavalcare l’onda della criticità di reperimento nel diabetico non è corretto. Questo perché Ozempic è semaglutide al dosaggio studiato nella popolazione diabetica. Non mi sento, per rigore medico e scientifico, di affermare che il farmaco possa nuocere all’obeso: parliamo di un medicinale che ha alle spalle studi clinici sperimentati su popolazioni diabetiche. Semaglutide nell’obeso ha un dosaggio differente ed è basato su studi pre-registrativi effettuati su popolazioni obese”.
“In definitiva, non è corretto dire che l’uso di Ozempic su un obeso sia dannoso ma, allo stesso tempo, la somministrazione di semaglutide per l’obesità richiede accortezze particolari partendo dalla cosa più importante: la prescrizione da parte di uno specialista che abbia esperienza con questo tipo di farmaco. Un uso fuori delle indicazioni può infatti significare la comparsa di effetti collaterali difficili da gestire”.
“Come risolvere la situazione? Solo la Novo Nordisk può farlo”
Secondo Lei, come si può risolvere questa situazione di carenza? Da dove bisogna partire?
“Si tratta sicuramente di una domanda difficile a cui rispondere. So per certo che è in corso l’allestimento di impianti produttivi e che l’azienda produttrice [Novo Nordisk N.d.R ] sta tentando di provvedere a questa esagerata richiesta che è andata ogni oltre loro previsione e lo dico senza intenzione giustificativa. Vero è che da aprile-maggio la carenza di ozempic è stata decisamente meno avvertita, soprattutto per la dose da 1 mg. Laddove esiste ancora questa difficoltà, essa è spesso secondaria all’iperapprovvigionamento del farmaco, benchè anche questo aspetto di recente è regolamentato da AIFA che imporrebbe la prescrizione di un pezzo al mese per paziente. Come si può risolvere la situazione? Solo la Novo Nordisk può farlo. Dal punto di vista clinico la risoluzione sta nell’escogitare strategie simili senza recare danni al paziente mentre da quello assistenziale l’unica soluzione è cercare di arginare lo sconforto in cui il paziente cade”.
C’è qualcosa che vuole aggiungere, un commento finale?
“Mi auguro che tutte le parti in gioco, dai mass media ai clinici, cerchino di comprendere l’importanza del diabetologo in questa situazione. Bisogna cercare le strategie giuste con gli specialisti giusti. A me di tutta la situazione ha infastidito la strumentalizzazione delle informazioni poiché ha creato distorsioni della realtà. Si è addirittura parlato di popolazione diabetica contro quella obesa. In ogni caso, la situazione è questa e bisogna prenderne atto, magari inviando messaggi giusti alle persone”.
Intervista alla Dott.ssa Rita Tanas, specialista in Pediatria, Endocrinologia e Malattie del Ricambio, nonché nota esperta di obesità pediatrica
L’obesità costituisce un fattore di rischio cardiovascolare, in grado di indurre una maggiore incidenza di eventi cardio e cerebrovascolari, incrementando la frequenza e la gravità di altri fattori noti di rischio quali la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, l’insulino-resistenza e il diabete. Il problema dell’obesità riguarda non solo gli adulti, ma anche e soprattutto i bambini: da subito infatti anche i più piccoli sperimentano peggiori condizioni di salute fisica e soprattutto mentale per via dell’obesità. Sono comuni anche per loro problemi respiratori, ipertensione, resistenza all’insulina, problemi osteo-articolatori e peggiore qualità della vita.
Per saperne di più sul problema la redazione di Italian Medical News ha deciso di intervistare una figura navigata del settore: la Dott.ssa Rita Tanas, specialista in Pediatria, Endocrinologia e Malattie del Ricambio, nonché nota esperta di obesità in età evolutiva. La Dottoressa ha quindi risposto in modo chiaro ed esaustivo ad una serie di quesiti posti.
Una definizione cambiata nel tempo
Dottoressa, partiamo da una domanda generale: può dirci sommariamente in cosa consiste l’obesità?
“La definizione di obesità sembra molto semplice e scontata, ma non è così, ed è anche cambiata nel tempo. Una volta si pensava che fosse conseguenza di un modo di vivere, di una libera scelta. Oggi è risaputo che si tratta di una vera e propria malattia che non consiste solo in un eccesso di peso o un aumento del tessuto adiposo. Ormai tutte le organizzazioni internazionali hanno accettato una definizione più complessa di questa patologia. Secondo l’OMS l’obesità è un eccesso di tessuto adiposo che compromette o mette a rischio la salute. L’obesità è una malattia neuro-comportamentale complessa, multifattoriale, cronica, progressiva, recidivante e curabile, in cui l’aumento del grasso corporeo ne promuove la disfunzione, con conseguenze negative sulla salute metabolica, biomeccanica e psicosociale”.
Le cause: non solo lo stile di vita
Quali sono le principali cause di questa patologia?
“Le cause sono tantissime e conoscerle è molto importante poiché spesso si pensa che siano esclusivamente o prevalentemente i ‘cattivi’ comportamenti alimentari e motori. Questo pensiero porta alla colpevolizzazione del paziente, a coprirlo di colpa e vergogna, diventando un ostacolo insormontabile alla cura. Bisogna quindi conoscere tutte le cause dell’obesità oltre a quelle menzionate: mi riferisco a determinanti come genetica (50-80% delle cause), livello socio-economico, livello culturale, eventi avversi precoci, qualità del sonno, contesto ambientale, i nuovi cibi ultra-processati poco salutari, la pubblicità su questi cibi rivolta ai bambini e diffusa senza regole dagli ambienti digitali, alcuni farmaci, come antistaminici e cortisonici, e lo stigma del peso.
Quest’ultimo è il punto su cui si sta ponendo più attenzione negli ultimi anni perché veramente cruciale. Lo stigma, derisione e discriminazione legata al peso corporeo, è diffuso in tutti gli ambienti di vita, per cui, col tempo, viene interiorizzato da bambini e adolescenti e riduce le loro possibilità di realizzarsi appieno in ogni ambito: cognitivo, emotivo e sociale.Lo stigma professionale del peso, infine, è la chiave di volta per cambiare approccio e poter avere successo nella prevenzione e cura di questa malattia.
Aggiungo anche il Covid-19, che, soprattutto nella fase di lockdown, ha cambiato lo stile di vita, le abitudini e la mentalità delle persone, ha promosso l’espandersi dell’obesità. L’obesità dipende, quindi, da un insieme di fattori che sfuggono al controllo del singolo, molti sono immodificabili ed altri difficilmente modificabili dalla società intera; pertanto il fattore alimentare-motorio ha un impatto sul problema minore di quanto comunemente ritenuto.
Come agire per ridurre il problema
Cosa si può fare per tentare di ridurre il problema?
“Uno dei determinanti su cui possiamo e dobbiamo agire in maniera incisiva è proprio lo stigma del peso, ovvero il pensiero che le persone con obesità siano meno capaci delle altre e dunque da discriminare. I bambini con obesità, già a partire dai tre anni vengono derisi in famiglia e rifiutati dai coetanei. Tutto questo determina una situazione psicologica negativa. Se ci si pensa, lo stigma sul peso è l’unica forma di razzismo ammessa e condivisa universalmente, anzi addirittura ritenuta da alcuni come motivante e quindi ‘terapeutica’. Gli studi per fortuna hanno dimostrato che non è assolutamente così. Bisogna lavorare molto sullo stigma del peso. Le azioni sono tante e a vari livelli. Come professionista sanitario ‘lavoro’ contro ogni tentativo di semplificazione per spiegare la complessità delle cause e della cura di questa malattia e per cambiare la mentalità tradizionale della responsabilità individuale”.
“Oltre ad agire sullo stigma del peso, c’è anche bisogno di fare ‘rete’. Cominciando dalla famiglia, dalla scuola e dalla sanità, per continuare con industria e politica, magari controllando meglio la pubblicità sui cibi ultra-processati ed aumentandone la tassazione. Fondamentali sono gli operatori sanitari che possono collaborare fattivamente ad un progetto salutare di prevenzione e trattamento. Si può pensare che l’obesità a certi livelli sia una malattia ‘inguaribile’, ma non è più accettabile considerarla ‘incurabile’”.
“Bisogna sapersi difendere da certi bombardamenti mediatici e rispolverare la nostra Dieta Mediterranea, che abbiamo un po’ dimenticato. Non è solo alimentazione con più frutta, verdura e legumi, ma anche stile di vita, convivialità, formazione a scuola, attività motoria, tradizioni, riduzione dello spreco. In più la Dieta Mediterranea è in sintonia col progetto di protezione della Terra e del suo ecosistema. Tutte cose che conosciamo già: facciamole!”.
In termini prettamente medico-sanitari, cosa si sta programmando per il futuro?
“Lo scorso primo marzo c’è stata una riunione molto importante al Ministero della Salute nel quale si è visto che l’atteggiamento sta cambiando. Innanzitutto è maggiormente diffusa la posizione contro lo stigma del peso in tutti gli ambiti sanitari e questo è molto importante. In più si sta cercando di fare rete, nel senso che gli operatori non sono più chiamati a fare prevenzione o terapia da soli, ma a costruire reti e team, condividendo modi e obiettivi. Se tutti diventassimo meno giudicanti e più accoglienti nei confronti delle persone con obesità, questo permetterebbe loro di smettere di difendersi e cominciare a curarsi. Ciò vale anche e soprattutto per i bambini ed i ragazzi. Lavorare sul contrasto allo stigma del peso e sul concetto di rete è dunque fondamentale”.
Il bisogno di formazione
Chiarissimo Dottoressa. Vuole chiudere con un commento finale?
“Tutti i professionisti sanitari presenti alla riunione dello scorso primo marzo citata poc’anzi, hanno chiesto più formazione. Gli strumenti essenziali per garantire questa formazione sono l’Educazione Terapeutica e il Colloquio di Motivazione; si tratta di strumenti che da vari anni circolano nell’ambito sanitario e possono essere condivisi anche nella cura dell’obesità. A tal proposito è importante un cambio di passo della formazione sanitaria a partire dal formare i formatori all’estendere la formazione dal periodo universitario fino alla formazione continua di tutti i professionisti che svolgono attività educativa. Attenzione, non mi riferisco solo ai professionisti della salute, ma anche a maestri, professori, psicologici, pedagogisti e così via. Se vogliamo sperare in adulti più sani dobbiamo cambiare prospettiva….”
“Purtroppo, abbiamo scoperto che il nostro cervello si adatta al tessuto adiposo presente nel corpo, lo considera una risorsa e cerca di difenderlo, pertanto, ridurlo è difficile e mantenerne la riduzione a vita ancor di più. Dobbiamo smettere di dare colpe e giudicare e, invece, avere come obiettivo solo i comportamenti più salutari, non il peso, per aiutare i bambini e le famiglie con obesità ad adottarli”.
Interessante intervista alla Dott.ssa Pisana Ferrari, socio fondatore e presidente dell’Associazione Ipertensione Polmonare Italiana (AIPI). Fari puntati sulla centralità delle Associazioni di Pazienti nell’ambito del sistema sanitario
“Verso la fine degli anni ‘90 l’ipertensione polmonare era ancora pressoché sconosciuta, non c’erano informazioni, non c’erano ancora farmaci e qualche raro centro medico iniziava solo allora a occuparsene. Non c’erano pazienti nella mia città né nella mia regione, nessuna possibilità di incontro e di condivisione. AIPI è nata proprio dall’esigenza di fare uscire i pazienti da questo isolamento. Dunque, di fornire loro informazioni sulla malattia, e un aiuto concreto per la vita di tutti i giorni, di vario tipo, materiale, legale, economico”.
Cosa rappresenta AIPI oggi per i pazienti che ne fanno parte?
“AIPI è diventata una comunità, una grande famiglia. In questi 20 anni siamo diventati un punto di riferimento importante per i nostri quasi 1500 tra soci e sostenitori. Abbiamo attivato tutta una serie di servizi e attività di supporto ai pazienti e ai loro familiari, tra cui due linee telefoniche dedicate 24/7, materiali informativi su vari aspetti della malattia, una rivista trimestrale, sito web, pagine social, incontri tra pazienti, assemblea annuale dei Soci. Forniamo consulenza previdenziale e legale e aiutiamo concretamente i soci in difficoltà attraverso un Fondo di Solidarietà che viene rifinanziato di anno in anno. Abbiamo anche realizzato della campagne di sensibilizzazione sulla malattia con testimonial importanti. Svolgiamo, inoltre, azioni di tutela dei diritti dei pazienti presso ASL e istituzioni”.
AIPI collabora con altre associazioni di pazienti?
“AIPI collabora in Italia con AMIP, un’associazione di pazienti con ipertensione polmonare che ha sede a Roma e con OMAR, Osservatorio Malattie Rare. A livello europeo fa parte della federazione europea per l’ipertensione polmonare, PHA Europe, che riunisce 33 associazioni di pazienti con ipertensione polmonare da tutta Europa e con la quale abbiamo dei progetti comuni, come ad esempio la Giornata Mondiale per l’ipertensione polmonare, il 5 maggio di ogni anno”.
Un ruolo complementare a quello del servizio sanitario nazionale
Usciamo dal tema dell’ipertensione polmonare e passiamo al generale. Quanto sono importanti, secondo Lei, le associazioni di pazienti, di qualsiasi disciplina, al giorno d’oggi in Italia?
“Le associazioni di pazienti svolgono da sempre un ruolo molto importante di sostegno ai pazienti e alle loro famiglie e di tutela dei loro diritti. Un ruolo in qualche modo complementare a quello del servizio sanitario nazionale. L’Istituto Superiore di Sanità scrive sul suo sito: ‘L’associazionismo è uno dei beni più preziosi per la comunità dei pazienti, in particolare di quelli con malattia rara, per la loro capacità di favorire la consapevolezza e la capacità di autodeterminazione del paziente e di offrire un bagaglio di conoscenza diverso e complementare a quello medico e/o istituzionale, stimolando ricerche, azioni ed interventi sociosanitari’. Purtroppo, la nostra associazione, come tante altre, ha problemi di sostenibilità economica Pur affidandosi prevalentemente al lavoro di volontari e beneficiando del 5xmille, che rappresenta una risorsa molto importante. Non è sempre facile garantire lo svolgimento delle varie attività e servizi”.
Un nuovo modello di sanità
Secondo lei il ruolo del paziente è cambiato negli ultimi 10-20 anni?
“Siamo in un momento storico di passaggio da una visione tradizionale della medicina, diciamo ‘paternalistica’, in cui il paziente era un soggetto passivo, a un nuovo modello di sanità in cui il paziente è più informato, non solo grazie a una maggiore scolarizzazione e all’avvento di internet, ma anche al lavoro di sensibilizzazione svolto delle associazioni, e quindi più partecipe alle decisioni riguardo il proprio percorso di cura. Si parla sempre di più infatti di medicina partecipativa, che colloca al centro il paziente, i suoi bisogni, le sue preferenze e potenzialità. Questo nuovo modello può favorire una migliore aderenza alle cure, una maggiore soddisfazione del paziente e anche migliori esiti medici”.
Vuole aggiungere altro?
“Sì, tengo ad aggiungere che in questi ultimi anni è sempre più riconosciuto il valore della ‘conoscenza esperienziale’ dei pazienti (ovvero l’esperienza diretta della malattia che viene a completare la conoscenza dei medici). I pazienti e i loro rappresentanti oggi sono chiamati a partecipare a vario titolo a processi decisionali in sanità. Cito il mio esempio: io sono stata chiamata più volte come paziente esperta dall’ EMA – Agenzia Europea del Farmaco, per dare il punto di vista del paziente su nuovi farmaci. Per la Società Europea di Cardiologia, che riunisce 40.000 cardiologi da tutto il mondo, ho fatto parte di una task force per l’elaborazione delle nuove linee guida 2022 per l’ipertensione polmonare, e sono anche stata nominata Co-Presidente Onorario del Congresso Annuale 2023 della Società Europea per il Trapianto di Organi. Tutte cose assolutamente impensabili solo pochi anni fa e che promettono bene per il futuro!”.
Pingback: Ruolo del chirurgo oncologo, intervista col professor Luigi Marano - umbriajournal.com