Le 5 iniziative da adottare per superare la crisi che stanno attraversando i medici ospedalieri emergono dalla Direzione nazionale di CIMO
Sono molteplici le criticità che affliggono gli ospedali italiani e i medici dipendenti. Dalla mancanza di personale alla chiusura degli ospedali, passando per i sempre più rari e introvabili posti letto. Tra questi però, è probabilmente il continuo calo di medici e in generale di personale sanitario a destare maggiore preoccupazione. È per questo che, nel corso della Direzione nazionale di CIMO – Coordinamento Italiano Medici Ospedalieri, sono emerse cinque richieste principali per tentare di frenare la fuga degli ospedali. (quiil comunicato CIMO).
Innanzitutto, superare il tetto di spesa sul personale, che da 15 anni non consente di dare ristoro alla categoria, costretta a turni massacranti, a sopperire ai buchi di organico e a non ricevere reali incentivi e prospettive di crescita. “Se non si interviene sul tetto di spesa – recita il comunicato CIMO – ogni ipotesi di intervento volto a garantire soddisfazione a medici e professionisti sanitari risulterà irrealizzabile. È tempo di passare dalle parole ai fatti”.
In secondo luogo, assumere medici a tempo indeterminato, anticipare l’ingresso degli specializzandi nel SSN e introdurre strumenti finalizzati a disincentivare il ricorso a società di servizi o cooperative. “In particolare, la Direzione nazionale propone che ogni ora di lavoro, oltre le 38 settimanali previste dal contratto, venga retribuita almeno 120 euro, così da rendere economicamente svantaggioso il ricorso ai medici dipendenti come ‘tappabuchi’ e indurre le Aziende a bandire i concorsi. Inoltre il sindacato vigilerà attentamente sulla correttezza e sulla legalità delle gare di appalto con cui si affida la gestione di numerosi pronto soccorso e reparti al personale proposto da società private”.
Diritto al riposo, rispetto del contratto di lavoro nazionale e l’eliminazione del vincolo al numero massimo di Strutture
La terza priorità è il garantire il diritto al riposo dei medici. “Sfiancati dopo più di due anni di pandemia – si legge ancora nel comunicato – con livelli di stress e burnout che mettono a rischio la salute stessa dei professionisti. Oltre a migliori opportunità economiche e di carriera, i medici chiedono prima di tutto migliori condizioni di lavoro e un giusto equilibrio tra la vita privata e la professione. Obiettivi irraggiungibili se non si incrementa il personale in corsia”.
La quarta iniziativa da adottare secondo il sindacato medico è avviare azioni legali che obblighino le Aziende a concludere le trattative dei contratti integrativi. Secondo CIMO le trattative sono spesso ritardate “in modo ingiustificabile dai Direttori generali che impediscono l’applicazione delle disposizioni economiche, normative e di carriera. Disposizioni previste dal CCNL firmato nel 2019“.
L’ultima richiesta è quella di “eliminare il vincolo al numero massimo si Strutture complesse e semplici. Strutture tagliate rispettivamente tra il 2009 e il 2019 del 35,8% e del 44,1%, appiattendo in modo importante le possibilità di carriera dei medici. Oggi l’84% dei medici non ha alcuna chance di crescita. Per ovviare a tale criticità, l’ultimo CCNL ha previsto l’introduzione di 9.500 incarichi di altissima professionalità. Tuttavia solo lo 0,5% dei posti risulta assegnato. Per incentivare i medici a rimanere nel SSN andrebbero dunque assegnati gli incarichi di altissima professionalità.E’ da eliminare inoltrel’attuale rapporto di una Struttura complessa ospedaliera per ogni 17,5 posti letto e di 1,31 Strutture semplici per ogni Struttura complessa”.
Il pensiero finale del Presidente CIMO
Il comunicato CIMO termina con un pensiero del proprio Presidente nazionale, Guido Quici. “La nave sta affondando, e con essa la tutela della salute dei cittadini. Dobbiamo fare la nostra parte per tentare di salvarla. Lo dobbiamo ai medici, a maggior ragione dopo due anni di emergenza sanitaria, e lo dobbiamo ai nostri pazienti. Ogni dimissione di un medico ospedaliero, e ormai sono decine quelle che vengono presentate quotidianamente, è una sconfitta per tutto il sistema, che ci avvicina al suo fallimento. Non possiamo arrenderci a questo scenario, è il momento di cambiare la rotta”.
Il dato emerge da un sondaggio condotto da Anaao Assomed, sindacato dei medici ospedalieri. Alla survey hanno risposto 2130 camici bianchi
Un medico ospedaliero su tre vorrebbe cambiare lavoro per avere più tempo libero e retribuzioni più alte. Fra i camici bianchi più avanti con l’età compare anche l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. La fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal maggior sindacato dei medici ospedalieri, Anaao Assomed. Hanno partecipato alla survey 2130 tra medici e dirigenti sanitari.
I dati e le percentuali
Entriamo nel dettaglio. Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro. Inoltre, 1 su 4 (26,1%) risulta scontento della propria qualità di vita in particolare per quanto concerne la relazione familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e alienazione Un’insoddisfazione che aumenta con il crescere della anzianità di servizio e delle responsabilità. Infatti, i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata, tra i quali si raggiunge l’apice di insoddisfazione tra i 45 e i 55 anni: un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che però il nostro sistema non riesce a garantire.
Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il primo posto è occupato daincrementi degli stipendi con il 63,9%, seguito a ruota dall’esigenza di una maggiore disponibilità di tempo. Singolare notale come ci sia prevalenza del fattore tempo per le donne sugli uomini che invece mirano, in maggiore misura, a retribuzioni più adeguate. Il sondaggio evidenzia inoltre come per gli over 65 (15,8%) sia prioritaria unamaggiore sicurezza rispetto ai colleghi più giovani (6,3%). Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e per il tempo libero è più alta (37,9%) rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio (27,6%). In generale, l’aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera.
Il 36%, ovvero poco più di 1 su 3, soprattutto nelle classi di età tra i 45 e i 55 anni, appare disposto a cambiare il lavoro attuale. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema. La crisi della professione è più sentita al sud rispetto al nord. Si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del centro per finire al sud e isole con ben il 64,3% di insoddisfatti. “Ma il dato appare – osserva Anaao Assomed – talmente diffuso da configuare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esista vaccino o terapia”.
L’esigenza di un nuovo modello
È opportuno pensare che pesi il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità. Si tratta infatti della cifra più bassa tra i paesi del G7. Una cifra, ben al di sotto della media europea che si aggira intorno al 11,3% del Pil per la sanità. “Occorre immaginare – propone il sindacato – un nuovo modello. Modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura”.
Lo Stato ha chiesto alle imprese del settore di ripianare metà dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Ora le aziende fornitrici degli ospedali sono in ginocchio e molte, specie le più piccole, rischiano di chiudere
Molti dispositivi medici potrebbero mancare negli ospedali a partire da gennaio. Dispositivi salvavita, strumenti per dialisi, valvole cardiache, protesi, ferri chirurgici sono solo alcuni dei strumenti che numerosi medici di tutta Italia rischiano di non avere a disposizione in adeguata misura. Le aziende fornitrici degli ospedali sono infatti in ginocchio e molte, soprattutto le più piccole, rischiano di chiudere. Questo perché lo Stato ha chiesto a ognuna di loro di partecipare al 50% dello sforamento della spesa sanitaria per i dispositivi medici. Si tratta di un conto salato da 2,1 miliardi da pagare entro trenta giorni.
A lanciare gli allarmi sugli effetti del payback è Massimo Riem, presidente della Federazione italiana fornitori in sanità (Fifo). “Abbiamo una fortissima preoccupazione – afferma Riem. Da gennaio molti ospedali non saranno in grado di assicurare interventi chirurgici e prestazioni perché mancheranno le forniture dei dispositivi medici. È un rischio concreto per i cittadini che avranno bisogno di assistenza. La aziende – prosegue – sono in allarme perché proprio in questi giorni stanno partendo le richieste per gli anni 2015-2018 e si parla di 2,1 miliardi. Questo causerà scompensi inaccettabili”. Quello dei fornitori ospedalieri è un settore composto nel 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100.000 lavoratori coinvolti.
“A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”
Le imprese evidenziano un ‘effetto payback’ che rischia di abbattersi anche sulle cure e le prestazioni offerte ai cittadini: quelli forniti dalle aziende messe in difficoltà dal payback, come sottolineato da Massimo Riem, “sono prodotti anche salvavita. Un dispositivo medico è la protesi chirurgica, la protesi vascolare, lo stent, i sistemi per l’ossigenazione della circolazione extracorporea etc. . Sono tutti prodotti che servono al nostro sistema sanitario, nei nostri ospedali, per garantire assistenza ai malati. E le forniture rischiano di essere interrotte perché il decreto attuativo del payback, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 settembre scorso, porterà al fallimento la gran parte delle aziende che operano in questo segmento. Le imprese – prosegue il presidente Fifo – non saranno più in grado di fornire dispositivi medici. A gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”.
Ma non finiscono qui le dichiarazioni del presidente della Federazione italiana fornitori in Sanità. “Al Governo chiediamo una cosa molto semplice: la cancellazione di questa norma del payback – afferma Riem. Una norma inapplicabile che distrugge un tessuto di aziende che quotidianamente garantiscono, con le loro forniture agli ospedali, la possibilità di erogare prestazioni ai cittadini. Si rischia seriamente di distruggere un settore strategico”.
Soprattutto negli ospedali Hub il “boarding” è diventato ormai una regola. La maggior parte dei pazienti arriva ad aspettare anche oltre 5 giorni
L’attesa di un posto letto in reparto da parte di un paziente, dopo la decisione di ricovero, è un fenomeno talmente frequente che ha ormai un preciso nome: “boarding”. Purtroppo si tratta di un fenomeno ormai regola nei pronto soccorso, specie negli ospedali Hub. Le iniziative per tentare di gestirlo sono limitate a documenti ufficiali che ne definiscono la durata massima fissata a 6 ore. La realtà però dice che la maggioranza dei pazienti non aspetta 6 ore, bensì dai 2 fino ai 5 giorni o addirittura oltre. Ma come nasce questo fenomeno e soprattutto in che modo si potrebbe contrastarlo?
Le cause del boarding
Il boarding è una conseguenza dei tagli degli ultimi anni, come il taglio dei Posti Letto per acuti e lungodegenza: in Italia infatti, dal 2010 al 2020 sono stati tagliati 30.492 posti letto per acuti, con una riduzione del 19%. Il taglio maggiore ha riguardato il Molise, la Calabria, la Puglia e la Liguria: in queste regioni è stato tagliato più di 1 posto letto su 4. Ma la riduzione più pesante ha riguardato la lungodegenza, dove si è verificata una diminuzione media nazionale di posti letto che sfiora il 30%.
Ai problemi già citati si aggiunge poi quello dell’occupazione dei posti letto. La maggior parte dei pazienti in boarding è infatti rappresentata da anziani con patologie internistiche, con un tasso di occupazione di posti letto nei reparti di medicina pari al 97,6%. Va infatti ricordato che il tasso ottimale, per evitare aumento di mortalità e morbilità, viene considerato non superiore all’85%, pur se aumentato al 90% dal Decreto Ministeriale n° 70/2015 sugli standard ospedalieri. Per gestire il problema boarding è dunque attuare delle azioni economiche per incrementare i posti letto, come proposto in più occasioni da Anaao Assomed. C’è necessità di più letti per acuti e più letti di lungodegenza.
Non solo mancanza di posti letto, ma anche di medici
Un altro difficile capitolo si apre in relazione alla carenza di medici. Il numero di camici bianchi ha toccato il suo massimo nel 2009, per poi diminuire incessantemente fino al 2020, riducendosi di 4.800 unità. In realtà, su questo dato ha inciso positivamente il reclutamento di personale medico causato dalla pandemia da Covid-19 che ha visto l’immissione di circa 1.000 medici. Infatti, se si guardasse il trend fino al 2019, la diminuzione di personale medico sarebbe ancora più accentuata (5.800 unità).