Il dato emerge da uno studio condotto dalle Università di Oxford e Pechino e pubblicato sulla rivista ‘JACC: Advances’
Chi abita in zone molto trafficate ha talvolta la sensazione che il rumore gli stia facendo esplodere la testa. Una ragione in realtà c’è. Uno studio condotto dalle Università di Pechino e Oxford ha dimostrato come il rumore del traffico, da solo, è sufficiente ad aumentare il rischio di ipertensione, cioè di pressione alta. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivisita scientifica specializzata in salute cardiovascolare: JACC: Advances.
Più che di una scoperta vera e propria si tratta di una conferma. Da tempo infatti si ipotizza vi sia un legame tra l’esposizione continua al rumore delle auto in movimento e probabilità più elevate di sviluppare problemi di pressione. Occorrevano, però, prove più consistenti su questo legame, e restava da comprendere se l’effetto dipendesse soltanto dall’inquinamento acustico o anche da quello atmosferico.
Lo studio prospettico
Nel nuovo lavoro, Jing Huang, scienziato esperto di salute ambientale alla Peking University (Pechino), ha realizzato uno studio prospettico (ovvero che monitora l’evoluzione di un parametro del tempo) utilizzando i dati di 240.000 persone tra i 40 e i 69 anni estratti dallo UK Biobank, un database punto di riferimento per le ricerche mediche. I partecipanti scelti inizialmente non soffrivano di ipertensione. Gli scienziati hanno stimato la quantità di rumore a cui erano esposti, verificando i dati sull’inquinamento acustico nella loro area residenziale e li hanno seguiti nel tempo per un periodo mediano di 8,1 anni, osservando chi nel frattempo avesse avuto episodi di pressione alta.
Nell’arco di tempo analizzato, non solo chi viveva in una via esposta al rumore del traffico aveva sviluppato con maggiori probabilità l’ipertensione, ma il rischio sembrava essere aumentato pari passo con la quantità di rumore ricevuta. Tale collegamento diretto si è dimostrato valido anche isolando l’effetto da quello provocato invece dallo smog. Di certo chi oltre ad essere sottoposto all’inquinamento acustico respira elevate quantità di polveri sottoli corre il rischio di ipertensione più elevato in assoluto.
Intervenire sulle fonti di rumore più assordanti potrebbe migliorare la salute cardiovascolare dei cittadini. Inoltre, di conseguenza, potrebbe prevenire ulteriori costose misure sanitarie. Serviranno ulteriori studi per approfondire il meccanismo attraverso il quale l’inquinamento acustico favorisce l’ipertensione, ma è ormai evidente il collegamento causa-effetto.
Clicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.
Importante scoperta emersa da uno studio pubblicato sul Journal of American Heart Association
La troponina è una proteina che nel nostro organismo è presente nei muscoli scheletrici e in quello cardiaco. Essa, in particolare, è coinvolta nei meccanismi di contrazione muscolare. Secondo un recente studio, analizzare il valore di questa proteina sarebbe utile in termini di capacità predittiva dell’infarto miocardico. In particolare il valore predittivo nel sospetto di infarto a 1 e 3 ore è molto inferiore nei pazienti con troponina in calo (FP) rispetto a quelli con troponina in aumento (RP). I primi, di conseguenza, hanno un rischio molto più alto di infarto miocardico e di morte. Lo studio in questione è pubblicato sul Journal of American Heart Association firmato da Johannes Neumann, cardiologo presso l’Heart and Vascular Center all’University Medical Center Hamburg-Eppendorf di Amburgo in Germania.
“Gli algoritmi diagnostici basati sulla troponina cardiaca ad alta sensibilità (hs-cTn) sono di uso comune nei pazienti con sospetto infarto miocardiaco senza sopra-slivellamento del tratto ST – spiegano gli autori del lavoro. Nonostante rispecchino la lesione miocardiaca in fasi diverse, valori di FP e di RP sono spesso considerati allo stesso modo”.
Sono stati selezionati 3.523 pazienti con sospetto infarto miocardico nei quali sono stati campionati separatamente la troponina I (hs-cTnI) e la troponina T (hs-cTnT) stratificandone i valori in stabili, in calo (FP) e in aumento (RP), confrontando i valori predittivi positivi per infarto miocardico a 1 ora e a 3 ore secondo i criteri della Società Europea di Cardiologia. I dati sono stati illuminanti: anche se i livelli di troponina sono presi in considerazione allo stesso modo quando in calo o in aumento, in realtà il valore predittivo positivo per infarto miocardico è risultato significativamente ridotto nei pazienti con valori di troponina in calo rispetto a quelli con troponina in aumento.
“In altri termini – spiega Neumann– i pazienti con pattern FP avevano una prognosi peggiore rispetto a quelli con pattern RP in termini di mortalità e rischio di infarto del miocardio durante il follow-up. Un dato che dovrebbe indurre i medici a eseguire un iter diagnostico esteso nei casi di calo della troponina e incertezza della diagnosi finale” – conclude l’esperto.
Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.
Una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista ‘Nature Medicine’, conferma l’efficacia del digiuno intermittente in caso di diabete di tipo 2
Un nuovo studio dimostra l’efficacia del digiuno intermittente per i pazienti che soffrono di diabete di tipo 2 (T2D). Il lavoro, a cui hanno partecipato 209 persone, è firmato da Xiao Tong Teong dell’Università di Adelaide che commenta:” Gli interventi dietetici che comportano una moderata restrizione calorica sono una strategia consolidata per la gestione del peso oltre a ridurre il rischio di T2D. Inoltre, un’area di ricerca emergente in questo ambito è il ruolo dell’orario dei pasti e del digiuno prolungato nell’estendere i benefici della restrizione calorica. Accanto a questi dati – ha proseguito l’esperto insieme ai suoi collaboratori – l’alimentazione a tempo limitato (TRE) è emersa come una nuova forma di digiuno intermittente che enfatizza una finestra alimentare giornaliera abbreviata (4-10 ore) in linea con ritmi circardiani”.
Il digiuno intermittente è stato testato in un protocollo a tre bracci insieme all’alimentazione precoce a tempo limitato (iTRE). Ciò ha consentito al gruppo iTRE di consumare il 30% del fabbisogno calorico di base nei giorni di digiuno, seguito da 20 ore di digiuno ogni tre giorni alla settimana. Il gruppo della moderata restrizione calorica ha visto il ridursi del 30% il fabbisogno calorico giornaliero di base senza seguire un orario specifico dei pasti. I risultati mostrano che iTRE è superiore a CR nel migliorare la tolleranza al glucosio postpranduale negli adulti a maggior rischio di diabete.
Le persone che hanno digiunato 3 giorni alla settimana mangiando soltanto fra le 8 e le 12 in quei giorni hanno mostrato una maggiore tolleranza al glucosio dopo 6 mesi rispetto a chi seguiva una dieta a basso contenuto calorico. Il gruppo iTRE era anche più sensibile all’insulina, sperimentando inoltre una maggiore riduzione dei lipidi ematici rispetto alla dieta ipocalorica.
“Questi risultati indicano che l’orario dei pasti e i consigli sul digiuno estendono i benefici per la salute di una dieta ipocalorica, indipendentemente dalla perdita di peso – ha spiegato ancora Teong. Servono comunque ulteriori ricerche per verificare se gli stessi benefici si riscontrano con una finestra alimentare leggermente più lunga, cosa che potrebbe rendere più sostenibile la dieta nel lungo periodo”.
Cliccaqui per leggere l’estratto originale dello studio.
Il particolare nesso è dimostrato da una ricerca pubblicata sulla rivista ‘European Heart Journal – Digital Health’
Sembra uno strano collegamento, ma pare che usare troppo lo smartphone per fare lunghe telefonate possa aumentare il rischio di ipertensione. È quanto emerge da un lavoro pubblicato sullo ‘European Heart Journal’ – Digital Health, da un team della Southern Medical University di Guanzgzhou. A dirigere lo studio, il Prof. Xianhui Qin, che spiega: ”È il numero di minuti che le persone trascorrono a parlare su un cellulare che conta per la salute del cuore. Più minuti significano un rischio maggiore”.
La ricerca si è servita dei dati della Uk Biobank includedo un totale di 212.046 adulti fra i 37 e i 73 anni senza ipertensione. Le informazioni riguardanti l’uso del cellulare per effettuare e ricevere chiamate sono state raccolte con un questionario autosegnalato. Inoltre, includevano dati sulle ore settimanali di utilizzo dello smarthpone e sull’uso di un dispositivo vivavoce. I ricercatori hanno quindi esaminato la relazione fra uso del telefono cellulare e l’ipertensione di nuova insorgenza.
I risultati nello specifico
Nel corso del follow up di 12 anni è emerso che gli utenti di smartphone avevano un rischio di ipertensione superiore del 7% rispetto ai non utenti. Chi parlava al cellulare per 30 minuti o più a settimana mostrava una probabilità del 12% maggiore di ipertensione di nuova insorgenza rispetto ai partecipanti che trascorrevano meno di 30 minuti in telefonate. O ancora, rispetto ai partecipanti che hanno trascorso meno di 5 minuti alla settimana a effettuare o ricevere chiamate da cellulare, il tempo di utilizzo settimanale di 30-59 minuti, 1-3 ore, 4-6 ore e più di 6 ore è stato associato rispettivamente a un aumento del rischio di ipertensione arteriosa dell’8%, 13%, 16% e 25%. Non c’era invece correlazione fra gli anni di utilizzo, l’utilizzo del vivavoce e lo sviluppo dell’ipertensione.
Il team ha preso anche in esame il rischio genetico. Dall’analisi è emerso che le probabilità di sviluppare la pressione alta erano maggiori nei soggetti ad alto rischio genetico che passavano almeno 30 minuti alla settimana al cellulare. La loro probabilità era del 33% maggiore rispetto ai soggetti con basso rischio genetico che trascorrevano meno di 30 minuti a settimana al telefono.
“I nostri risultati suggeriscono che parlare al cellulare potrebbe non influire sul rischio di sviluppare la pressione alta fintanto che il tempo di chiamata settimanale è mantenuto al di sotto della mezz’ora. Sono necessarie ulteriori ricerche per replicare i risultati. Fino ad allora sembra prudente ridurre al minimo le telefonate per preservare la salute del cuore” – ha commentato il Prof. Qin.
Clicca quiper leggere l’estratto originale dello studio.