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Scoperti nuovi biomarcatori per la remissione del diabete di tipo 1

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Un team di esperti ha analizzato, nello specifico, il ruolo del microRNA miR-30d-5p nei processi immunoregolatori che avvengono nella fase di remissione del diabete di tipo 1

Un’importante scoperta deriva da uno studio coordinato da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di immunologia al ‘Germans Trias Pujol Research Institute’ (IGPT) – Autonomous University of Barcellona. Il team ha individuato alcune molecole di Rna che possono agire da biomarcatori per la fase di remissione parziale del diabete di tipo  1. Il gruppo ha analizzato nello specifico il ruolo del microRNA miR-30d-5p nei processi immunoregolatori che avvengono in questa fase.

A commentare il lavoro è la prima autrice del lavoro, l’immunologa Laia Gomes-Muñoz“La fase di remissione parziale del DM1, presente in molti pazienti dopo l’inizio del trattamento insulinico, suscita crescente interesse per la sua associazione con i meccanismi immunoregolatori e rigenerativi delle cellule beta, progressivamente distrutte dal sistema immunitario dei pazienti. È importante specificare che i meccanismi immunitari alla base di questa fase non sono ancora chiarissimi”.

In ogni caso, si tratta del primo studio che mostra una firma da parte del microRNA nella fase di remissione parziale del diabete mellito di tipo 1. Le diverse molecole di microRNA sono correlate a percorsi differenti all’interno del sistema immunitaio come la segnalazione del TGF-β, nonché a processi biologici correlati alla patogenesi del DM1 tra cui l’apoptosi cellulare. 

La duplice funzione del microRNA

Sui topi affetti da diabete i ricercatori hanno dimostrato una duplice funzione del microRNA miR-30d-5p. Esso, da un lato riduce l’espressione dei geni coinvolti nella moltiplicazione delle cellule T regolatorie (T-reg); dall’altro si associa a livelli elevati di PD-1 nelle cellule T, proteina con il compito di frenarne l’attività. Inoltre, il microRNA miR-30-5p si associa sia a una minore infiltrazione di cellule immunitarie nelle isole pancreatiche che a un ridotto numero di cellule T nei linfonodi pancreatici. 

“Questi nuovi biomarcatori basati sull’espressione di microRNA possono essere molto utili. Ad esempio, per stratificare i pazienti nella pratica clinica e per lo screening dei pazienti negli studi clinici. Inoltre, potendo associare per la prima volta uno di questi microRNA con meccanismi immunoregolatori nel diabete di tipo1, speriamo di fare maggiore luce sia sui meccanismi della remissione parziale sia sulla successione delle varie fasi della malattia”. Ha commentato così, in conclusione, Gomez-Muñoz.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Le statine una risorsa per il cancro? Ecco perché è possibile

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Di norma utilizzate per la prevenzione cardiovascolare, le statine potrebbero rivelare un effetto antitumorale significativo. A dirlo è un nuovo studio pubblicato su Nature Communications

Di solito prescritte per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, le statine potrebbero rivelare un inaspettato potenziale antitumorale. A dirlo è un recente studio pubblicato su Nature Communications, condotto da un team dell’Ospedale San Martino di Genova guidato da Alessio Nencioni. Questi risultati aprono la strada a un possibile impiego delle statine e di farmaci antifungini, che riducendo la produzione di colesterolo nelle cellule, possono contrastare specifici tipi di tumori, tra cui melanoma, cancro al pancreas e cancro del colon-retto.

L’approccio terapeutico proposto mira a privare i tumori di nutrienti essenziali e successivamente attaccarli con farmaci in grado di bloccare la crescita delle cellule tumorali. Le statine, agendo sull’inibizione della sintesi di colesterolo, elemento cruciale per soddisfare le esigenze nutritive delle cellule tumorali, potrebbero giocare un ruolo chiave in questo contesto. Combinando le statine con brevi cicli di digiuno, si potrebbe delineare una prospettiva di terapia a basso costo per affrontare tumori particolarmente ostici.

Parla l’esperto

“La cura dei pazienti oncologici ha costi molto elevati, che a volte limitano l’accesso a terapie efficaci soprattutto nei Paesi a basso reddito spiega Nencioni, coordinatore dello studio assieme ad Amr Khalifa e Irene Caffa. Per questo – prosegue – esiste un interesse crescente nel valutare la possibilità di riciclare come antitumorali farmaci non oncologici, approvati e impiegati da tempo per altre patologie: si tratta infatti di medicinali che in genere sono a basso costo, essendo scadute le coperture brevettuali, e che grazie all’esperienza di utilizzo su larga scala sappiamo avere un profilo di sicurezza spesso buono“.

Statine più digiuno: la strategia

L’ipotesi dei ricercatori è che il digiuno renda vulnerabili i tumori, che così possono essere efficacemente colpiti anche da farmaci low cost come le statine. “I risultati mostrano che farmaci che riducono la sintesi di colesterolo, tra cui le statine, diventano capaci di arrestare la crescita di vari tipi di neoplasie quando combinati con brevi cicli di digiuno settimanale – ha aggiunto l’esperto. Il digiuno riduce la capacità delle cellule tumorali di sintetizzare il proprio colesterolo e inoltre le induce ad espellere il colesterolo che contengono”.

“In questa situazione, esporre i tumori a farmaci che riducono ulteriormente la produzione di colesterolo fa sì che le cellule maligne sperimentino un’improvvisa forte carenza di questo lipide, cruciale per vari aspetti del loro metabolismo e della loro crescita, e che perciò non siano più in grado di crescere. I nostri dati confermano la possibilità di utilizzare dunque le statine come antitumorali in associazione al digiuno” – ha concluso Nencioni.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Studio elabora nuova strategia per colpire le cellule tumorali

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La ricerca si basa sul cosiddetto ‘riposizionamento farmacologico’: un approccio di ricerca di nuovi farmaci che negli ultimi anni è cresciuto notevolmente, soprattutto nella lotta contro il cancro

Riposizionamento farmacologico, DNA, telomeri e tumori al seno triplo negativo sono i concetti centrali di un progetto di ricerca i cui risultati sono da poco visionabili sulla prestigiosa rivista ‘Aging Cell’. Il lavoro, che si è posto l’obiettivo di identificare nuovi ed efficaci farmaci con attività antitumorale, è stato condotto da Annamaria Biroccio e dal suo gruppo di ricerca afferente all’Unità i Oncogenomica Traslazionale, presso l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena, in collaborazione con centri di ricerca nazionali ed esteri. La Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e il Ministero della Salute hanno sostenuto lo studio.

Che cos’è il riposizionamento farmacologico

Il riposizionamento farmacologico, una prospettiva di ricerca farmaceutica in costante crescita, ha acquisito particolare rilevanza negli ultimi anni, soprattutto nel contesto della lotta contro il cancro. Questo approccio implica la valutazione di farmaci precedentemente sviluppati per altre patologie o condizioni, al fine di determinare la loro efficacia contro specifici tipi di tumore. L’idea di ‘riciclare’ farmaci già esistenti si basa sulla loro capacità di influenzare meccanismi specifici delle cellule tumorali. Il riposizionamento offre vantaggi significativi: questi farmaci, avendo già superato prove di sicurezza, tollerabilità, assorbimento e distribuzione nell’organismo umano, sono in un certo senso ‘pronti per l’uso’. In altri termini, non necessitano di elaborati interventi di chimica farmaceutica e, in alcuni casi, hanno già ricevuto valutazioni cliniche e l’approvazione per l’uso umano da parte delle autorità regolatorie competenti.

I dettagli dello studio

In questa circostanza, i ricercatori hanno iniziato con un gruppo di 527 farmaci già conosciuti, con l’obiettivo di individuare un composto in grado di provocare modifiche ai telomeri. Queste strutture costituiscono le estremità dei cromosomi e il loro mantenimento è di vitale importanza per impedire la proliferazione incontrollata delle cellule tumorali.

“Il farmaco identificato in questo studio, – spiega Anna Biroccio, coordinatrice della ricerca – è conosciuto con il nome commerciale di Daporinad (FK866). Era stato sviluppato come inibitore dell’enzima nicotinamide fosforibosil transferasi per la terapia di tumori come la leucemia linfocitica cronica a cellule B, il melanoma, e il linfoma a cellule T. In alcuni studi aveva inoltre mostrato una qualche efficacia contro forme di colangiocarcinoma. Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che è capace, a livello molecolare, di causare la morte delle cellule tumorali attraverso un nuovo meccanismo di stress ossidativo che induce la perdita dei telomeri, provocando danni a regioni del DNA ricche nel nucleotide guanina”.

Il farmaco ha dimostrato la sua efficacia in sperimentazioni di laboratorio, coinvolgendo cellule tumorali provenienti da varie tipologie di cancro. Il potenziale antitumorale di questo trattamento si preannuncia particolarmente promettente per i tumori mammari tripli negativi, una forma di cancro al seno che presenta ancora notevoli sfide terapeutiche, anche a causa della tendenza a sviluppare resistenza ai farmaci attualmente approvati.

“I risultati di questo studio – dichiara Gennaro Ciliberto, Direttore scientifico IRE – sono un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno continuo, rivolto alla ricerca di nuovi approcci per la terapia dei tumori. Questi ultimi si difendono dai farmaci attraverso molteplici meccanismi di resistenza. È quindi necessario sviluppare un armamentario sempre più ricco di farmaci che, combinati assieme, possano ridurre o abolire la capacità dei tumori di sviluppare resistenza”.

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Studiare l’invecchiamento per colpire la Sla: la ricerca

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Innovativo studio ha approfondito le interconnessioni tra invecchiamento e malattie degenerative come la Sla

L’invecchiamento rappresenta la somma delle trasformazioni che si verificano nelle cellule e nei tessuti nel corso degli anni, aumentando la suscettibilità a malattie e mortalità. Questi cambiamenti seguono una sequenza predefinita e sono principalmente caratterizzati dalla declinazione delle funzioni cognitive e delle capacità motorie. Tali manifestazioni si sovrappongono ai sintomi di disturbi neurodegenerativi come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), l’Alzheimer e il Parkinson, indicando una possibile condivisione di base molecolare tra queste patologie e il processo di invecchiamento.

Recentemente, i risultati di uno studio approfondito sulle correlazioni tra invecchiamento e malattie degenerative sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death and Discovery. Il coordinamento di questa ricerca è stato affidato a Fabian Feiguin del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università di Cagliari e da Laura Ciapponi del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma.

Lo studio nel dettaglio

Nello specifico, la ricerca ha approfondito le modifiche epigenetiche associate all’invecchiamento. Si tratta di variazioni nella struttura della cromatina, la sostanza situata nel nucleo cellulare composta da DNA e proteine, che incidono sull’espressione genica. Quest’ultima rappresenta il processo attraverso il quale l’informazione contenuta in un gene viene trasformata in una proteina, senza alterare la sequenza del DNA. Tali modifiche possono influenzare i livelli di espressione dei fattori di rischio associati alle malattie neurodegenerative. “Nel nostro studio – spiega il Prof. Feigun – abbiamo scoperto per la prima volta la proteina TDP-43, che ha un ruolo centrale nella patogenesi della SLA, riduce gradualmente la sua espressione man mano che invecchiano i cervelli del comune moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e del modello murino”.

Lo studio ha identificato un nuovo ruolo dell’enzima Suv39. Attraverso il meccanismo di metilazione, questo enzima induce la modifica chimica di una particolare proteina istonica, componente principale della cromatina. Tale processo ha un impatto sulla regolazione dell’espressione genica. “Il nostro lavoro – spiega Marta Marzullo del team della Sapienza – ha evidenziato che durante l’invecchiamento sia nel moscerino della frutta che nel modello murino la metiltransferasi Suv39 agisce sul gene TDP-43 riducendone l’espressione”.

“Sorprendentemente sottolinea Laura Ciapponi dell’ateneo romanoquando abbiamo inattivato genicamente o chimicamente l’attività di Suv39 abbiamo osservato livelli più elevati di TDP-43, e soprattutto una significativa riduzione del declino locomotorio dipendente dall’età”.

Secondo gli autori dello studio, i risultati ottenuti identificano un nuovo ruolo dell’enzima Suv39 nella regolazione dell’espressione di TDP-43 e nella senescenza locomotoria. Inoltre, suggeriscono che la modulazione delle attività enzimatiche coinvolte in queste modifiche epigenetiche potrebbe costituire un approccio promettente per comprendere e potenzialmente trattare le malattie neurodegenerative associate all’invecchiamento, come la SLA.

Per approfondire: https://www.nature.com/articles/s41420-023-01643-3

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