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Sla: arrivano grandi risultati dal nuovo farmaco Tofersen

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tofersen
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I risultati dello studio sul nuovo farmaco sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale ‘New England Journal of Medicine’

Un nuovo farmaco potrebbe davvero rappresentare una svolta nel trattamento della sclerosi laterale amiotrofica, più conosciuta col nome di ‘Sla’. Un team di ricercatori internazionali ha infatti pubblicato uno studio riguardante la scoperta di una nuova nuova cura, particolarmente adatta ad un gruppo di pazienti con una specifica mutazione genica. I risultati della ricerca sul nuovo farmaco sono stati pubblicati sul ‘New England Journal of Medicine’.

Ecco un estratto dello studio: “Un totale di 72 partecipanti ha ricevuto tofersen mentre altri 36 hanno ricevuto placebo. Tofersen ha portato a una maggiore riduzione delle concentrazioni di SOD1 (La mutazione SOD1 rappresenta il 2-2,5% della popolazione SLA) nel CSF e delle catene leggere di neurofilamento nel plasma rispetto a placebo. Nel sottogruppo a progressione più rapida (analisi primaria), il cambiamento alla settimana 28 nel punteggio ALSFRS-R è stato 6,98 con tofersen e 8,14 con placebo (differenza, 1,2 punti; intervallo di confidenza del 95% [CI],  3,2 a 5,5; P = 0,97)”.

Conclusioni dello studio

“Nelle persone con SOD1 ALS, tofersen ha ridotto le concentrazioni di SOD1 in CSF e di catene leggere del neurofilamento in plasma in 28 settimane ma non ha migliorato i punti finali clinici ed era associato con gli eventi avversi. Gli effetti potenziali di un’apertura anticipata rispetto all’avvio ritardato delle operazioni di sostituzione sono oggetto di un’ulteriore valutazione nella fase di estensione”. Come dichiarato nelle ultime righe dell’estratto dello studio, ci vorranno nuovi studi per confermare la validità e il conseguente successo di tofersen. Di sicuro però, le aspettative sono davvero molto alte.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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Neurologia

Fattore neurotrofico cerebrale e depressione: esiste un rapporto?

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BDNF
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Vari studi ipotizzano un legame eziologico tra lo sviluppo della depressione Il fattore neurotrofico cerebrale (BDNF). Vediamo perché

Il fattore neurotrofico cerebrale è una proteina appartenente alla famiglia delle neurotrofine. È noto in inglese col nome di brain-derived neurotrophic factor, da cui l’acronimo BDNF. Esso, la quale trascrizione è codificata da un gene specifico ed omonimo, è stato isolato per la prima volta dal cervello di maiale nel 1982 da Yves-Alain Barde e Hans Thoenen. Ma a cosa serve il fattore neurotrofico cerebrale? Il BDNF stimola la sopravvivenza e il differenziamento di alcuni neuroni e sinapsi appartenenti al sistema nervoso centrale (SNC) e periferico (SNP)

Nel cervello, il fattore di crescita neurotrofico è attivo nell’ippocampo, nella corteccia e nel proencefalo basale. Si tratta di aree vitali per l’apprendimento, la memoria e il pensiero superiore. Il BDNF è infatti molto importante soprattutto per la memoria a lungo termine. Infatti, sebbene nei mammiferi la stragrande maggioranza dei neuroni nel cervello di formi durante lo sviluppo intrauterino (prima della nascita), alcune parti dell’organo adulto mantengono la capacità di far crescere nuovi neuroni dalle cellule staminali neurali. Ciò è possibile grazie ad un processo noto come neurogenesi. IL BDNF è una delle neurotrofine più attive nello stimolo e controllo della neurogenesi.

Sono molti gli studi che hanno mostrato possibili collegamenti tra BDNF e condizioni patologiche o disagevoli come la depressione. È stato infatti dimostrato come l’esposizione allo stress e al corticosterone, l’ormone dello stress, diminuisce l’espressione di BDNF nei ratti. In caso di esposizione persistente può verificarsi un’atrofia dell’ippocampo. Dato che l’atrofia dell’ippocampo e di altre strutture limbiche si verifica negli esseri umani che soffrono di depressione cronica, si ipotizza che esista un legame eziologico tra lo sviluppo della depressione e il BDNF. In particolare, un recente studio ha indicato che l’infiammazione lipopolisaccaride indotta provochi il fenotipo della depressione, alterando la segnalazione di BDNF nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo.

Per un maggiore approfondimento, riportiamo le fonti ufficiali degli studi.
1) https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26786147/ 
2) https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/36049659/

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Fattore neurotrofico cerebrale

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Ragazzo malato di Alzheimer a 19 anni: è il caso più giovane di sempre

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Un ragazzo cinese di soli 19 anni d’età è il più giovane paziente al mondo ad aver ricevuto una diagnosi di Alzheimer. Il clamoroso caso è descritto sul Journal of Alzheimer’s Disease

Diagnosticata la malattia di Alzheimer ad un ragazzo cinese di soli 19 anni. Si tratta del caso più giovane della storia della malattia. Il clamoroso evento è descritto sul ‘Journal of Alzheimer’s Disease’ dall’equipe di Jia Jianping, neurologo del Friendship Hospital e del National Clinical Research Center for Geriatric Diseas, Pechino. Il giovane paziente avrebbe iniziato a mostratre i primi sintomi di demenza due anni prima di essersi rivolto ad un medico. Il tutto, con episodi sempre più gravi di perdita della memoria. Non riusciva a ricordare dove riponeva i suoi effetti personali, se avesse mangiato o bevuto e tendeva ad isolarsi dalla famiglia e dagli amici.

Tutto è iniziato quando aveva 17 anni, con problemi di studio e concentrazione tra i banchi di scuola. Il ragazzo non riusciva più a leggere come prima, aveva difficoltà nello svolgere i compiti e presentava evidenti deficit di memoria a breve termine. È per questi motivi che, due anni dopo, il giovane paziente cinese è stato sottoposto a una batteria di test neuropsicologici che hanno mostrato un evidente deficit della memoria. Come primo test una risonanza magnetica volumetrica ha rilevato una perdita di volume degli ippocampi, ovvero le centraline di alcuni tipi di memoria. Successivamente è stata una PET-FDG a mostrare un ipometabolismo nei lobi temporali dei due emisferi cerebrali: in altri termini, una marcata riduzione di consumo energetico in centri del cervello molto importanti per i processi di memorizzazione e apprendimento.

Infine una puntura lombare con l’esame del liquido cerebrospinale ha mostrato un’alterata concentrazione di sostanze che nell’Alzheimer portano alla formazione delle placche di beta-amiloide fuori dalle cellule nervose e dei grovigli neurofibrillari all’interno delle medesime. Tutti segnali che hanno portato all’ufficiale diagnosi di Alzheimer. 

Clicca qui per leggere la descrizione originale del caso. 

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Elaborati atlanti che tracciano lo sviluppo del cervello dei neonati

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Gli atlanti, a partire dalle due settimane di età e fino ai due anni, registrano lo sviluppo cerebrale mese per mese


Nasce un nuovo strumento in ambito neurologico. Un gruppo dell’University of North Carolina Health Care (Usa) ha realizzato una serie di atlanti del cervello nei neonati che, a partire dalle due settimane di età, mese per mese e fino ai due anni, registrano importanti dettagli spazio-temporali. Una novità che potrebbe permettere ai medici di individuare precocemente eventuali disturbi del cervello. Il lavoro che ha portato allo sviluppo degli atlanti è pubblicato su ‘Nature Methods’.

Secondo gli autori, questa serie di atlanti potrà essere utilizzata dai medici per capire l’andamento nel tempo dello sviluppo cerebrale e cogliere aspetti cruciali dello sviluppo precoce del cervello. L’obiettivo dichiarato dal team è quello di rendere più facile la valutazione di eventuali sintomi di sviluppo anomalo. In particolare, disturbi di deficit di attenzione/iperattività (ADHD), dislessia e paralisi cerebrale infantile. Nel corso dei primi due anni di vita il cervello umano va incontro a complessi processi cellulari che portano a una rapida crescita cerebrale. È in questa fase, infatti, che il cervello cambia a livello strutturale e riorganizza i suoi circuiti neurali. 

Gli atlanti hanno rilevato anche che le cortecce nelle regioni temporali, paretali e prefrontali del cervello sono più spesse delle cortecce visive e sensomotorie primarie. Tutto questo è coerente con la scoperte che le funzioni di ordine superiore del cervello infantile (come l’attenzione, la memoria di lavoro, l’inibizione e la risoluzione dei problemi) maturano più lentamente delle aree del cervello responsabili delle funzioni visive, motorie e sensoriali. 

Di seguito, si riporta una dichiarazione di Pew-Thian Yap, principale autore del lavoro“Speriamo che questi atlanti diventino un quadro di coordinate comune per facilitare la scoperta di nuove intuizioni sui processi di sviluppo alla base della cognizione infantile e del comportamento sociale”. 

Clicca qui per leggere l’estratto del lavoro. 

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