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Strage nel Maine: cosa passa nella mente del killer?

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Quella del Maine è l’ennesima strage negli Usa con un bilancio molto pesante. Analizziamo le componenti psicologiche di un atto così atroce

Nel cuore del Maine, una caccia all’uomo è in corso dopo l’ennesima strage perpetrata da Robert Card, un uomo bianco di mezza età, già identificato come l’autore di un sanguinoso attacco che ha lasciato almeno 22 persone senza vita. Mentre la polizia di Lewiston cerca disperatamente di rintracciarlo, il paese è sconvolto dai dettagli di una sparatoria che ha avuto inizio alle 6:56 pm in due luoghi pubblici: lo Schemengees Bard and Grille Restaurant e lo Speratime Recreation. Un ristorante e una sala da bowling, animati dalle festività delle famiglie, sono diventati teatro di un orrore inimmaginabile. Card ha successivamente attaccato anche un centro di distribuzione Walmart, mietendo vittime e seminando il terrore.

Mentre la caccia all’uomo è in corso, è inevitabile interrogarsi sui motivi che hanno spinto Card a compiere un gesto così atroce. Cosa passa nella mente di un killer? L’orrore dietro le sue azioni è ulteriormente amplificato dal fatto che Card, 40 anni, è parte della riserva militare della National Guard, con esperienza come istruttore di armi. Questo dettaglio solleva domande sulla relazione tra il suo addestramento militare e l’efficacia mortale del suo attacco.

Psicologia e violenza

Un elemento cruciale da considerare è il suo passato di problemi mentali. Internato l’estate scorsa per disturbi psichiatrici, Card aveva dichiarato di udire voci, un sintomo allarmante di instabilità mentale. Le domande sorgono spontanee: fino a che punto i problemi psicologici hanno contribuito al suo comportamento violento? La società deve affrontare la complessità delle malattie mentali e la loro intersezione con la violenza.

Tuttavia, oltre alla dimensione individuale, emerge un problema sistemico negli Stati Uniti. La facilità con cui le armi sono accessibili a chiunque, anche a individui instabili mentalmente, contribuiendo a tragedie simili. La discussione si concentra su una verità imbarazzante: gli Stati Uniti, nonostante statistiche simili di problemi mentali rispetto ad altri paesi comparabili, devono affrontare la realtà di un accesso indiscriminato alle armi da fuoco.

Il Secondo Emendamento della Costituzione americana, spesso interpretato in modo controverso, garantisce il diritto di possedere armi da fuoco. Questa interpretazione, unita agli interessi della lobby delle armi e alla politica, soprattutto di orientamento repubblicano, complica la risoluzione del problema. La domanda che permane è se la nazione sia pronta ad affrontare la necessità di una riforma delle leggi sulle armi e ad affrontare la complessità delle questioni psicologiche dietro episodi di violenza così devastanti.

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Maine

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Indecisione cronica: ecco cos’è e da cosa proviene

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L’indecisione cronica è l’abitudine di evitare di prendere una decisione. Una recente ricerca, pubblicata su ‘Nature Communications’ ha determinato cosa può innescarla

L’indecisione cronica, in psicologia, è l’abitudine di evitare una decisione. Tale processo può essere attivato a livello inconscio ed il soggetto che ne soffre può andare incontro a stati ansiosi. L’indecisione cronica non è esclusiva a situazioni importanti: riguarda infatti anche di episodi di poco conto, come ad esempio decidere quale film guardare o che vestito indossare. Insomma, l’individuo che ne soffre si ritrova a dover fronteggiare e a vivere come dilemmi esistenziali sia le piccole scelte, che quelle più grandi e importanti. L’indecisione cronica è infatti considerata una vera e propria malattia.

Essa contraddistingue sia un disturbo dell’attività intenzionale, per cui l’individuo si sente incapace di prendere decisioni anche in quelle situazioni di poco conto, sia a un disturbo della motivazione, che si manifesta quando l’individuo non riesce a portare a termine l’azione anche quando questa è desiderata. In entrambi i casi l’indecisione cronica indica un disagio caratterizzato da estrema apatia e/o irrisolutezza. Tale condizione è associata a disturbi d’ansia, depressione, bassa autostima, stress e disturbo ossessivo compulsivo. 

La regione del cervello deputata al processo decisionale è la corteccia prefrontale. In chi soffre di indecisione patologica, tale corteccia sembrerebbe sopraffatta da informazioni e, nel processo cognitivo, l’individuo non riesce a riordinare ed a scandire la priorità. La situazione diventa critica ed il soggetto deve scandagliare tutte le variabili. Si innesca così un circolo vizioso: più la decisione da prendere è difficile, più il processo decisionale si paralizza. La situazione peggiora poi quando la persona reputa di non avere abbastanza informazioni per compiere la scelta: in quel caso l’incertezza si tramuta in ossessione.

Ripercorrendo la storia personale dell’indeciso cronico, la sua condizione patologica sembrerebbe essere il risultato diretto dell’eccessivo coinvolgimento delle figure primarie di attaccamento: i genitori. Tali figure hanno manifestato, durante i primi anni di vita, un comportamento intrusivo e non hanno permesso lo sviluppo di sé ben differenziato. Dietro l’indecisione patologica vi è una scarsa autonomia perché fin da bambino, l’indeciso patologico è stato in qualche modo ammonito. Probabilmente ogni tentativo di indipendenza era punito dal genitore. Pertanto, il bambino è cresciuto associando sensi di colpa all’indipendenza. Succede quindi che l’indeciso patologico, anche da adulto, tenderà a sentirsi subordinato al genitore e non sarà trattato, dal genitore appunto, come un suo pari. 

L’innovativa scoperta

Una recente ricerca, pubblicata su ‘Nature Communication’ ha individuato la cellula del cervello che regola le decisioni. Il lavoro, condotto dai ricercatori dell’Unità di Neuroimmunologia dell’Irccs Ospedale ‘San Raffaele’ di Milano, è stato effettuato utilizzando un modello sperimentale in vivo (topolini geneticamente modificati). I risultati hanno portato ad identificare una popolazione di cellule del cervello – le cellule staminali periventricolaried una proteina, IGFBPL1, la cui mancanza abbasa notevolmente le capacità decisionali. In altre parole, rende più indecisi. 

Altro punto interessante della ricerca è la dimostrazione della correlazione tra persone affette da sclerosi multipla, che manifestano disturbi cognitivi quali la difficoltà a processare le informazioni, e la presenza di lesioni cerebrali dovute alla malattia proprio nell’area periventricolare dove sono presenti, appunto, le staminali produttrici di IGFBPL1. Il ruolo IGFBPL1 è quello di garantire la sopravvivenza e stimolare la crescita di alcune cellule situate in una area cerebrale profonda denominata corpo striato. Queste cellule sono gli interneuroni a picco rapido (fast-spiking) che sono essenziali per i nostri processi cognitivi. La capacità di queste cellule è quella di filtrare i messaggi ‘elettrici’. In questo modo transiteranno solo quelli destinati a diventare appunto una decisione, giusta o sbagliata che sia. 

I ricercatori sono riusciti a dimostrare tutto ciò, eliminando geneticamente nei topolini le cellule staminali periventricolari e/o la proteina IGFBPL1. I piccoli animali, infatti, hanno dimostrato, in seguito a queste delezioni, indecisioni nei test comportamentali. In particolare, essi non erano in grado di regolare adeguatamente gli impulsi volti a facilitare o inibire un certo comportamento, pur mantenendo intatta la capacità di apprendimento e di memorizzazione. 

Questa scoperta rappresenta un ulteriore mattoncino verso la comprensione della ‘biologia’ che si cela dietro il nostro modo di pensare e, nello specifico, di decidere. Inoltre, rende ‘raggiungibili’ quelli che sono ritenuti meccanismi straordinariamente complessi che sono regolati, in realtà, da meccanismi molecolari individuabili. I suoi sviluppi potrebbero essere determinanti per scoprire dunque come curare l’indecisione cronica. Inoltre, potrebbe essere l’apripista per lo sviluppo di interventi mirati per migliorare le performances cognitive nelle persone affette da malattie neurodegenerative.

Clicca qui per leggere l’estratto originale della ricerca.

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La pandemia ha cambiato le nostre personalità? Lo studio

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Una nuova ricerca americana conferma la tendenza, post-pandemica, delle persone ad essere sempre meno aperte e estroverse

Per molti di noi, alcune caratteristiche della personalità rimangono le stesse per tutta la vita, mentre altre nel tempo cambiano in modo graduale. Tuttavia, ci sono eventi significativi nella nostra vita personale che possono indurre stress o traumi gravi che a loro volta rischiano di causare rapidi cambiamenti della nostra personalità. Secondo un’innovativa ricerca statunitense, pubblicata su ‘Plos one’, la pandemia da Covid-19 sarebbe uno di quegli eventi capaci di modificare la nostra personalità. O meglio, lo studio ha dimostrato che è andata proprio così.

Nello specifico, i ricercatori hanno scoperto che le persone erano (e sono) meno estroverse, meno empatiche e anche meno coscienziose nel 2021 e nel 2022 rispetto alla vita pre-pandemia. Lo studio ha coinvolto più di 7.000 partecipanti negli Stati Uniti, di età compresa tra 18 e 109 anni. Le persone coinvolte sono state valutate prima dell’avvento del Covid (dal 2014 in poi), all’inizio della pandemia nel 2020 e poi nella fase pandemica relativa agli anni 2021-2022.

I partecipanti hanno completato il BigFive Inventory, uno strumento di valutazione che misura la personalità su una scala attraverso cinque dimensioni. Nello specifico: estroversione contro introversione, gradevolezza contro antagonismo, coscienziosità contro mancanza di direzione, nevroticismo contro stabilità emotiva e apertura contro chiusura all’esperienza. Il dato interessante è che il notevole calo di caratteristiche come estroversione, apertura mentale etc. è relativo agli anni 2021 e 2022 piuttosto che al 2020 stesso. Dato che evidenzia proprio gli effetti a lungo termine della pandemia sulla personalità dell’uomo. 

I più soggetti sono i giovani adulti


Ulteriore dato interessante è che secondo lo studio, le personalità dei giovani adulti sono cambiate di più. Hanno mostrato marcati cali di gradevolezza e coscienziosità oltre ad un aumento significativo nel nevroticismo nel biennio 2021-2022 rispetto al pre-pandemia. Questo può essere dovuto in parte anche all’ansia sociale del rientro in società, dopo la perdita di (circa) due anni di normalità. 

Ci sono poi una serie di specificità e di atteggiamenti modificati. Ad esempio, secondo lo studio, molti di noi durante la pandemia sono diventati particolarmente attenti alla salute. Ad esempio mangiando meglio e facendo più esercizio fisico. Altri invece hanno cercato qualsiasi connessione sociale (anche in maniera virtuale) ed hanno cercato di rifocalizzare la propria attenzione sulla crescita psicologica, emotiva e intellettuale, ad esempio esercitandosi sulla propria consapevolezza o coltivando nuovi hobby. Nonostante questo, la salute mentale e il benessere sono diminuiti in modo significativo e tutto questo è facilmente spiegabile visti i drastici cambiamenti che conosciamo.  Ad esempio, le persone che riferiscono alti livelli di coscienziosità, gradevolezza o estroversione hanno maggiore probabilità di sperimentare il più alto livello di benessere. Tutti questi cambiamenti rilevati in questo studio potrebbero spiegare dunque la diminuzione del benessere verificatasi durante la pandemia. 

Leggi l’estratto originale dello studio qui

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Depressione post partum, un fenomeno in forte crescita

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Depressione post partum
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Focus sui cambiamenti fisici e psichici dettati dalla cosiddetta depressione post partum, fenomeno, purtroppo, sempre più presente

Gli squilibri ormonali che caratterizzano il periodo immediatamente successivo al parto possono provocare nella donna la cosiddetta depressione post partum. Questa condizione colpisce oltre il 15% delle donne, soprattutto nei paesi di cultura occidentale. L’Italia, segue perfettamente la media occidentale con circa 60-70.000 donne colpite ogni anno da questa patologia. La percentuale è purtroppo in continua crescita, anche in correlazione al numero di parti rispetto al passato. In estrema sintesi, ci sono meno nascite ma più depressioni generate dai parti stessi. 

La depressione post partum è caratterizzata da tre fasi: il baby-blues, la vera e propria depressione e la psicosi post-partum. Crisi di pianto immotivate, disturbi del sonno e dell’alimentazione, stanchezza eccessiva, irritabilità e umore altalenante sono i sintomi del baby blues, che è la forma depressiva più lieve e temporanea. Spesso, infatti, si risolve circa in 10 giorni, senza lasciare conseguenze.

Quando, invece, questa forma di ‘tristezza’ prosegue per un periodo più lungo si parla di depressione post partum vera e propria. Quest’ultima, inizia a manifestarsi nel secondo mese e raggiunge il suo picco tra il terzo e il sesto mese dopo il parto. I sintomi variano dalle difficoltà nel gestire i rapporti all’interno della famiglia fino a provare una forte insicurezza della propria capacità materna. In casi estremi si arriva a colpevolizzarsi per il fatto di non provare gioia nell’accudire il proprio figlio. La donna dopo il parto può anche andare incontro alla psicosi puerperale che, fortunatamente, è molto più rara (circa 1 per mille) ed è caratterizzata da sintomi quali allucinazioni e deliri.  

Cause e possibili rimedi

A provocare questo fenomeno sono le modificazioni ormonali. In particolare la diminuzione del progesterone e l’aumento degli estrogeni e della prolattina, che si verificano già poco prima del parto. A ciò vanno aggiunti possibili fattori quali l’aver sofferto in precedenza di depressione, il timore della nuova responsabilità e il sentirsi impreparata, tutti possibili elementi che possono favorire questa forma di depressione. 

Ma cosa si può fare per affrontare questa patologia? In primis è fondamentale riconoscerla e riconoscere che si ha bisogno di aiuto. Altrettanto importante è accettare quest’aiuto dalle persone vicine (partner, parenti e amici). Un esempio è lasciare che questi sbrighino le faccende domestiche o che passino un po’ di tempo col piccolo, consentendo alla donna di dedicarsi a ciò che più piace e rilassa. Non bisogna assolutamente rimproverarsi e provare sensi di colpa, mentre aiuta svolgere attività fisica regolarmente. È sempre utile rivolgersi ad un medico specialista che prescriverà, a seconda dei casi, cicli di psicoterapia o rimedi farmacologici. 

Fonte: Iss – Istituto Superiore della Sanità

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