Esistono esami specifici capaci di identificare quei soggetti che sono a rischio di malattie aritmogene ereditarie. Scopriamo di più
Il test genetico, se eseguito in maniera appropriata e associato a opportuni controlli cardiologici, può diventare uno strumento utile per identificare soggetti a rischio di malattie aritmogene ereditarie (MAE). Le MAE sono un gruppo di patologie cardiache a eziologia genetica. Rappresentano la principale causa di morte improvvisa in soggetti giovani e apparentemente sani. Comprendono sia le cardiomiopatie,caratterizzate per la presenza di alterazioni strutturali macroscopiche del muscolo cardiaco (ad esempio la cardiomiopatia ipertrofica o dilatativa), sia le cosiddette canalopatie, patologie che predispongono allo sviluppo di aritmie potenzialmente letali in soggetti con cuore dall’aspetto completamente normale. Un esempio di canalopatie sono la sindrome del QT lungo o sindrome di Brugada.
Nel caso di un sospetto clinico di MAE, a seguito di una consulenza genetica pre-test, si esegue un semplice prelievo di sangue. Successivamente, si procede con l’analisi, tramite sequenziamento dei geni responsabili, di quella determinata patologia cardiaca ereditaria. Il test genetico, a seconda del tipo di MAE, può avere diversi ruoli: diagnostico, ma anche prognostico e terapeutico. Inoltre, consente di identificare i potenziali familiari a rischio di eventi cardiaci.
Possibili risultati dei test genetici
Gli esiti dei test possono presentare tre diversi scenari. In un primo caso, la presenza di una mutazione, una variante patogenetica, causa della patologia ereditaria. In un secondo caso, la presenza di una variante di significato incerto, ovvero non chiaramente classificabile come la causa della malattia e quindi non clinicamente utile. Infine, l’ultimo possibile scenario, un test negativo, in cui si esclude che ci siano mutazioni nei geni analizzati, ma non si esclude la presenza della patologia. Per cui, nel caso del test negativo si consiglia di proseguire con controlli cardiologici nel tempo.
Durante la consulenza genetica post-test vengono comunicati al paziente i risultati dell’esame e le sue conseguenze. Inoltre, nel caso dell’identificazione di una variante patogenetica, il test verrà suggerito agli altri membri della famiglia potenzialmente a rischio.
Secondo un lavoro presentato al convegno annuale dell’American College of Cardiology, un uso quotidiano di cannabis aumenta del 34% il rischio di coronaropatie
La cannabis ci va pesante con il cuore. Uno dei più ampi studi mai condotti per verificare la correlazione fra l’utilizzo di marijuana e le conseguenze cardiovascolari dimostra che consumarla ogni giorno aumenta del 34% il rischio di sviluppare coronaropatie. L’impiego più sporadico (mensile o settimanale), lo accresce invece in maniera non significativa. La ricerca in questione è stata appena presentata al convegno annuale dell’American College of Cardiology svoltosi dal 4 al 6 marzo a New Orleans.
Lo studio, coordinato dall’Università di Stanford, California, ha analizzato i dati di 175.000 persone in 340 centri statunitensi. I ricercatori hanno valutato la correlazione fra l’utilizzo di prodotti derivati dalla cannabis e la frequenza di comparsa di coronaropatie negli anni successivi. Da qui, hanno scoperto che esiste un effetto dose-risposta per cui all’aumentare dell’impiego di marijuana sale la probabilità di problemi cardiovascolari.
Il commento del Presidente della Società Italiana di Cardiologia sullo studio americano
“I risultati dell’indagine indicano che un utilizzo quotidiano di cannabis aumenti del 34% il rischio di coronaropatie – ha dichiarato il presidente della Società Italiana di Cardiologia (Sic), Pasquale Perrone Filardi. Questi dati dimostrano che esistono danni correlati all’impiego di questa sostanza. Danni non ancora sufficientemente approfonditi, che è invece opportuno conoscere.Sappiamo che con le altre droghe, per esempio la cocaina – prosegue Filardi – i danni cardiovascolari sono frequenti e gravi, al punto da aver comportato un incremento significativo del numero di infarti in persone molto giovani, anche con meno di 40 anni”.
“Queste nuove evidenze preoccupano, perché indicano che qualcosa di analogo potrebbe avvenire con l’uso di droghe ancora più diffuse come la marijuana o l’hashish, derivati dalla cannabis. Del resto – spiega ancora l’esperto – sappiamo che in cuore e vasi ci sono recettori per il tetraidrocannabinolo. Il tetraidrocannabinolo è il mediatore degli effetti psicoattivi della cannabis, che proprio interagendo con tali recettori sembra in grado di indurre infiammazione locale e quindi favorire la comparsa di placche aterosclerotiche che possono provocare coronaropatie”.
Un’ulteriore analisi
Lo studio statunitense ha anche realizzato un’analisi genomica dei partecipanti per verificare se vi fosse un’associazione fra tratti genetici che predispongano all’uso problematico di cannabis e alle malattie cardiovascolari. A commentare tale presunta associazione è Ciro Indolfi, past president della Sic.
“I dati dimsotrano che esiste un’associazione causale – dichiara Indolfi. Le persone geneticamente predisposte a un disturbo da un abuso di cannabis, in cui il consumo è quotidiano, hanno una maggiore probabilità di coronaropatie, a prescindere dall’impiego concomitante di tabacco e/o alcol”.
“Di recente – prosegue Indolfi – erano già emerse correlazioni analoghe con un maggior rischio di problemi cardiovascolari. Problemi come fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, ictus ed embolia polmonare. Inoltre esistono anche importanti dati che indicano come l’utilizzo prolungato di prodotti della cannabis si associ a un maggior rischio di aterosclerosi a 10 anni. Questo, soprattutto per gli uomini. Tutto ciò indica la necessità di studiare meglio i meccanismi che potrebbero sottostare al danno cardiovascolare da cannabis”.
Il dato emerge da una ricerca coordinata dal Vanderbilt University Medical Center di Nashville (Usa) e pubblicata sul Journal of the American Association
Avere abitudini del sonno irregolari favorisce lo sviluppo dell’aterosclerosi. Una condizione che può provocare ictus o infarto. È questo il risultato derivante da uno studio coordinato dal Vanderbilt Medical Center di Nashville (Usa) e pubblicato sul Journal of the American Heart Association. In realtà, da tempo è noto il legame tra cattiva qualità del sonno e malattie cardiovascolari, ma il lavoro in questione ha approfondito l’argomento.
Nello studio, i ricercatori si sono concentrati in particolare sugli effetti dell’irregolarità del sonno. Per irregolarità del sonno si intende l’alternarsi di diverse durate del riposo notturno durante la settimana. Il team ha analizzato i dati di oltre 2.000 individui tra i 45 e gli 84 anni in modo da comprendere come le abitudini notturne si ripercuotessero sul rischio di sviluppare aterosclerosi. L’aterosclerosi consiste in una perdita di elasticità delle pareti delle arterie a causa dell’accumulo di calcio, colesterolo, cellule infiammatorie e materiale fibrotico.
Il gruppo di esperti ha quindi scoperto che le persone la cui durata del sonno subiva variazioni settimanali maggiori di due ore presentavano un rischio fino al 40% maggiore di avere calcificazioni alle arterie coronarie. Ma anche, un rischio del 12% in più di avere placche alle carotidi e addirittura del 91% in più di avere occlusioni alle arterie degli arti inferiori. A commentare lo studio è proprio la prima firmataria, Kelsie M. Full. “Mantenere abitudini del sonno regolari e diminuirne la variabilità è un comportamento di vita facilmente regolabile – spiega l’esperta. Un comportamento che da un lato aiuta a migliorare il sonno e dall’altro aiuta a ridurre il rischio cardiovascolare. È davvero molto importante dormire in modo regolare”.
Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.
Il futuro del cuore, tra nuovi farmaci e interventi soft, è pronto ad un anno di grande progressi. Ad anticipare le novità attese per il prossimo anno sono gli esperti della Società italiana di Cardiologia
Forti progressi per combattere le malattie del cuore. È questa la promessa del 2023 lanciata dai maggiori cardiologi italiani, riuniti a Roma in occasione dell’89° edizione del congresso nazionale della Società italiana di Cardiologia (Sic). Si prospetta infatti un anno straordinario sul fronte dei progressi nelle cure, soprattutto per quanto concerne lo scompenso cardiaco, l’ipercolesterolemia e non solo. Secondo gli esperti si sta aprendo la strada a un cambio di paradigma della cardiologia nei prossimi 10 anni.
Nuove cure contro l’ipercolesterolemia
Partiamo dal primo punto: la lotta all’ipercolesterolemia. Per farlo, riportiamo le dichiarazioni del presidente della Sic, Ciro Indolfi. “Il 2023 sarà l’anno dell’Inclisiran, un farmaco innovativo, da ottobre scorso rimborsabile dall’SSN, che sta entrando nella pratica clinica. Il nuovo farmaco a RNA interferente, che inibisce l’RNA che codifica PCSK9, è capace di ridurre del 50% il colesterolo LDL. Il tutto senza nessun effetto collaterale sui reni e fegato, con due sole iniezioni sottocutanee l’anno”.
Ma non è l’unica grossa novità di trattamento per l’ipercolesterolemia. “Un altro passo in avanti per migliorare il controllo del colesterolo – dichiara Pasquale Perrone Filardi, presidente eletto Sic – è l’acido bempedoico, disponibile fra pochi mesi anche in Italia. Esso interviene sulla biosintesi del colesterolo con un meccanismo d’azione analogo a quello delle statine. Studi clinici recenti hanno dimostrato l’efficacia nel ridurre circa il 20% il livello di colesterolo ma senza dolori muscolari, principale effetto delle statine in associazione con l’ezetimibe. L’acido bempedoico riduce l’LDL del 38%”.
Le glizofine per combattere lo scompenso cardiaco
Importanti novità anche per la cura dello scompenso cardiaco, che rappresenta un grave problema di salute pubblica che colpisce 15 milioni di persone in Europa e oltre 1 milione in Italia, con esito fatale nel 50% dei pazienti entro 5 anni dalla diagnosi, se non adeguatamente trattato. “La terapia dello scompenso cardiaco – spiega Gianfranco Sinagra, ordinario di Cardiologia all’Università di Trieste – si è rafforzata da poco meno di un anno con una nuove classe di farmaci: le glizofine. Queste, nate come antidiabetici, hanno mostrato un’efficacia straordinaria in tutti i pazienti con insufficienza cardiaca anche se non diabetici e indipendentemente dalla gravità della malattia. Le glizofine hanno trovato conferma nelle più recenti linee guida. Nel futuro la prognosi dell’insufficienza cardiaca sarà molto migliorata e si potranno evitare fino a 40.000 decessi l’anno”.
Interventi ‘soft’ contro le malattie valvolari
Altro ambito cardiologico che ha avuto una straordinaria evoluzione negli ultimi anni è quello delle malattie valvolari. “A distanza di esattamente 20 anni da quando la TAVI (impianto valvolare aortico transcatetere N.d.R.) è stata la prima volta utilizzata in Italia per riparare la valvola aortica, abbiamo grosse novità – spiega Indolfi. Ora, infatti, un intervento ‘soft’ simile è destinato a diventare il gold standard per i pazienti con insufficienza della valvola tricuspide”. L’insufficienza della valvola tricuspide è una valvulopatia che secondo le stime colpisce in maniera clinicamente rilevante circa il 2% delle persone over 70. Per questi pazienti una terapia medica non esiste e la chirurgia a cuore aperto è una procedura ad alto rischio con il risultato che molte persone non vengono trattate.
“Il nuovo intervento di riparazione – prosegue Indolfi – consiste nell’impatto di un dispositivo medico simile a una clip che, posizionata in maniera mininvasiva dalla vena femorale di una gamba, ripara i lembi della valvola. Tale procedura ripristina la normale chiusura della valvola ad ogni battito del cuore, in modo da ridurre il grado di insufficienza con notevole beneficio per la salute del paziente”.
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