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L’evoluzione del trattamento immunoterapico nel carcinoma uroteliale – Prof. Michele De Tursi

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carcinoma uroteliale
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Approfondimento scientifico elaborato dal Prof. Michele De Tursi, Professore di Oncologia Medica presso l’Università “G. D’annunzio” di Chieti-Pescara

Di seguito riportiamo un approfondimento scientifico prodotto dal Prof. Michele De Tursi. In quest’articolo l’esperto tratta l’evoluzione del trattamento immunoterapico nel carcinoma uroteliale. Il focus rientra nell’ambito del progetto ‘Conoscere l’Oncologia’, il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici.

1. Introduzione


L’immunoterapia ha rappresentato negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione copernicana nel trattamento medico dei tumori solidi. Questo perché, per la prima volta, si è spostata l’attenzione dal tumore all’organismo che lo ospita. Infatti, mentre per la classica chemioterapia o per la moderna terapia biologica il fulcro dell’azione terapeutica è rappresentata dalla cellula tumorale, e dai meccanismi che ne possono in qualche modo bloccare la proliferazione, per l’immunoterapia la potenzialità terapeutica si sviluppa attraverso una riattivazione antagonista e difensiva del sistema immunitario dell’organismo contro il tumore. (1)

In realtà, l’idea che il sistema immunitario potesse giocare un ruolo di primo piano nella lotta al tumore è stata coltivata per decenni in tanta ricerca preclinica e clinica. Ma dopo anni di fallimentari tentativi volti a “potenziare” il sistema immunitario, affinché riconoscesse il tumore e lo combattesse direttamente, il punto di svolta è stato quello di riconoscere che il sistema immunitario non doveva essere potenziato, ma più semplicemente “sfrenato”, liberato da uno stimolo inibitorio che il tumore impara a sfruttare per bloccarne l’azione distruttiva. Più in dettaglio, il meccanismo biologico che sta alla base del controllo immunitario dei tumori è stato spiegato ormai da circa un decennio con il cosiddetto modello delle 3 E, per spiegare quel processo (definito Immunoediting) attraverso il quale il tumore riesce a sopprimere la risposta immunitaria (2).

Nella fase primordiale della nascita del tumore, il sistema immunitario riesce perfettamente a riconoscere e a distruggere la cellula neoplastica. Lo fa attraverso l’attivazione di cellule immunitarie effettrici (fase della Eliminazione); successivamente si viene a creare una situazione di stasi, in cui tumore e sistema immunitario riescono a bilanciarsi senza che l’uno prevalga sull’altro (fase dell’Equilibrio); infine, il tumore riesce ad evade al controllo del sistema immunitario e inizia la sua progressione clinica (fase di Escape).

Il punto cruciale in questa fase di escape è rappresentato dalla stimolazione, da parte della cellula tumorale, di freni inibitori della cellula immunitaria, come ad es. CTLA-4, ma anche PD-1, LAG3, ecc… Andare a bloccare farmacologicamente questi freni inibitori, come ad es. fa Ipilimumab con CTLA-4, impedisce al tumore di spegnere la risposta immunitaria (3). Questa idea, apparentemente semplice e intuitiva, ha portato J.P. Allison e T. Honio a vincere il premio Nobel per la medicina nel 2018, per la loro scoperta sul ruolo della inibizione della regolazione immunitaria negativa.

2. I trattamenti immunoterapici nel carcinoma uroteliale

Il primo campo di applicazione clinica di questa intuizione biologica è stato il melanoma metastatico. Si tratta di una patologia rapidamente mortale e fino ad allora sostanzialmente orfana di terapie. Nello studio Checkmate, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2011, l’anti CTLA-4 Ipilimumab riusciva a migliorare i tassi di sopravvivenza della classica chemioterapia fino ad allora utilizzata, ma soprattutto lo studio dimostrava l’esistenza di un 20% circa dei pazienti che poteva giovare in maniera prolungata negli anni del controllo di malattia offerto dalla immunoterapia (4). 

Questa dimostrazione scientifica ha rappresentato la convalida di un presupposto biologico. Ha quindi aperto le porte ad un mondo di opportunità terapeutiche, con l’avvento di molecole diverse (come nivolumab, pembrolizumab, avelumab, durvalumab, ecc..), e che dal melanoma si è esteso a tutti i campi della cura dei tumori solidi, coinvolgendo i tumori polmonari, quelli renali, quelli dell’urotelio, ecc..

Per quanto riguarda i tumori vescicali, e più in generale i tumori dell’urotelio, la prima terapia ad essere approvata in questo setting di malattia è stato il Pembrolizumab. Infatti, lo studio Keynote 045, che metteva a confronto – in seconda linea di terapia per malattia metastatica – il pembrolizumab versus la classica chemioterapia, aveva dimostrato un vantaggio dell’immunoterapia rispetto alla chemioterapia, sia in termini di controllo della progressione sia in termini di sopravvivenza. Si trattava di un vantaggio minimo (circa 3 mesi), ma comunque clinicamente significativo rispetto agli scarsi risultati ottenuti dalla chemioterapia (5).

Sicuramente si trattava di un miglioramento ancora minimo e insoddisfacente. Ma comunque era la prova che anche nella malattia uroteliale l’immunoterapia poteva giocare un ruolo fondamentale. Il passaggio successivo, e profondamente incisivo nella storia clinica della malattia, è stato poi l’avvento di Avelumab in questa tipologia di pazienti.

A differenza però di pembrolizumab, che veniva utilizzato in seconda linea di malattia, quindi quando la malattia andava in progressione dopo un primo trattamento chemioterapico a base di platino, l’Avelumab è stato sperimentato in fase di “mantenimento”. Questo rappresenta un punto di volta fondamentale nella gestione clinica della malattia, perché si inserisce in un contesto clinico nuovo, quello cioè di una malattia sotto controllo chemioterapico.

Il trattamento con Avelumab, infatti, viene iniziato subito dopo 4-6 cicli di chemioterapia a base di platino, se la malattia non è in progressione; questo significa che si sfrutta il vantaggio di controllo della malattia offerto dalla chemioterapia, e prima ancora che il fenomeno della farmacoresistenza possa selezionare cloni cellulari resistenti e in progressione. Questo anticipo della immunoterapia ad una fase antecedente alla progressione di malattia, si traduce in un significativo e più lungo controllo della malattia metastatica. Lo studio Javelin Bladder 100, infatti, ha dimostrato un miglioramento mediano della sopravvivenza mediana di oltre 8 mesi rispetto al braccio di terapia che non faceva il mantenimento (6).

3. Conclusione

La cura dei tumori solidi ha trovato nella immunoterapia una nuova arma efficace e sostanzialmente ben tollerata. Si tratta di una opportunità terapeutica che si applica in maniera trasversale alle diverse patologie oncologiche, dal melanoma al carcinoma polmonare, dai tumori renali a quelli dell’urotelio. Molto c’è ancora da capire, soprattutto sui fenomeni di resistenza (sia primaria che acquisita) che ne inficiano l’attività terapeutica in una significativa percentuale di pazienti. Ma è indubbio che le potenzialità terapeutiche offerte dalla immunoterapia aprono uno spiraglio di cura per una gran parte delle patologie oncologiche, e soprattutto una cura di lunga durata.

Per quanto riguarda, nello specifico, i tumori uroteliali, tumori tradizionalmente molto resistenti ai trattamenti e dalle aspettative di vita molto brevi, l’avvento dei trattamenti immunoterapici ha messo in moto una strategia terapeutica che già dai suoi primi passi sembra promettere risultati incoraggianti. Sia pembrolizumab che avelumab hanno dimostrato di migliorare il controllo di malattia, in tutti i parametri presi in considerazione, dal tempo alla progressione, alle risposte oggettive fino alla sopravvivenza globale. Ma l’anticipo terapeutico offerto da avelumab, il cui trattamento viene avviato nel momento di massimo controllo della malattia, sembra offrire le garanzie maggiori per un controllo a lungo termine della malattia. Si tratta di una opportunità terapeutica efficace in tutti i setting di pazienti, indipendentemente dall’età, dall’estensione di malattia e dal tipo di terapia effettuato. Si tratta quindi di una opportunità terapeutica che dovrebbe essere proposta a tutti i pazienti con carcinoma uroteliale metastatico.

4. Bibliografia

  1. 1. Alberto Martini, Daniele Raggi, Giuseppe Fallara, Luigi Nocera, Julianne G. Schultz, Federico Belladelli, Laura Marandino, Andrea Salonia, Alberto Briganti, Francesco Montorsi, Thomas Powles, Andrea Necchi.  Immunotherapy versus chemotherapy as first-line treatment for advanced urothelial cancer: A systematic review and meta-analysis. Cancer Treatment Reviews 104 (2022) 102360
  • 2. Joaquim Bellmunt, Begona P. Valderrama, Javier Puente, Enrique Grande, M. Victoria Bolos, Nuria Lainez, Sergio Vazquez, Pablo Maroto, Miguel ´Angel Climent, Xavier Garcia del Muro, Jose ´Angel Arranz, Ignacio Duran. Recent therapeutic advances in urothelial carcinoma: A paradigm shift in disease management. Critical Reviews in Oncology / Hematology 174 (2022) 103683
  • 3.Petros Grivas, Evgeny Kopyltsov, Po-Jung Su, Francis X. Parnis, Se Hoon Park, Yoshiaki Yamamoto, Peter C. Fong, Christophe Tournigand, Miguel A. Climent Duran, Aristotelis Bamias, Claudia Caserta, Jane Changm, Paul Cislo, Alessandra di Pietro, Jing Wango, Thomas Powles. Patient-reported Outcomes from JAVELIN Bladder 100: Avelumab First-line Maintenance Plus Best Supportive Care Versus Best Supportive Care Alone for Advanced Urothelial Carcinoma. https://doi.org/10.1016/j.eururo.2022.04.016 EUROP EAN UROLOGY 2022

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L’immunoterapia nel trattamento del carcinoma dell’endometrio – Dott.ssa Consiglia Carella

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Approfondimento scientifico elaborato dalla Dott.ssa Consiglia Carella, Oncologo – Dirigente Medico I livello presso il Policlinico “SS.Annunziata” di Chieti

Di seguito riportiamo un approfondimento scientifico prodotto dalla Dott.ssa Consiglia Carella. In quest’articolo l’esperta tratta di immunoterapia nel trattamento del carcinoma dell’endometrio. Il focus rientra nell’ambito del progetto ‘Conoscere l’Oncologia’, il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici.

Introduzione

Il cancro dell’endometrio rappresenta ancora oggi una grande sfida per l’oncologia moderna, nella sua dimensione clinica ma anche nel suo impatto sociale e assistenziale. Colpisce prevalentemente donne di età superiore a 50 anni, soprattutto dopo la menopausa, anche se circa il 25% dei casi può presentarsi in età premenopausale. In Europa circa 2 donne su 100 svilupperanno un tumore dell’endometrio nel corso della propria vita, e questo significa in Italia più di 8.000 nuovi casi all’anno 1

Non si conoscono cause specifiche che possano spiegare lo sviluppo di questo tumore; tra i fattori di rischio che maggiormente sembrano giocare un ruolo importante in questo senso bisogna ricordare l’obesità (un indice di massa corporea > 30 sembra determinare un rischio aumentato di 3-4 volte rispetto alla popolazione con indice più basso). Ma anche il diabete, l’ipertensione e una storia clinica di esposizione cronica agli estrogeni (ovaio policistico, cicli anovulatori, assenza di gravidanze).

Si tratta di tumori che crescono in maniera asintomatica nella stragrande maggioranza dei casi. Tali neoplasie si mostrano solo nelle fasi avanzate con perdita di sangue o, nelle forme ancora più tardive, con dolore legato all’infiltrazione degli organi vicini. L’assenza quindi di segni specifici che possano facilitare la diagnosi nelle fasi precoci di malattia fa si che in molte pazienti l’intervento chirurgico, che rimane l’approccio terapeutico principale, in molti casi non sia risolutivo. Esso infatti, spesso, deve essere integrato da terapie mediche sistemiche che ne tentino di bloccare la progressione.

Per oltre un decennio il trattamento medico del carcinoma endometriale consisteva principalmente nell’utilizzo di due classi di chemioterapici, platini e taxani. Questi, da soli o in combinazione, sono riusciti in qualche modo a migliorare i tassi di guarigione e di sopravvivenza in questa patologia. Tuttavia, solo negli ultimissimi anni si sono aperti nuovi spiragli di cura. Ciò grazie ad una migliore conoscenza delle caratteristiche molecolari della malattia e allo sviluppo di nuove armi terapeutiche, capaci non solo di cronicizzare l’evoluzione di una malattia rapidamente progressiva, ma anche di aumentare nettamente le percentuali di guarigione.

Tra le nuove opportunità terapeutiche un ruolo cruciale l’ha assunto indubbiamente l’immunoterapia. Tale trattamento nella fase avanzata della malattia è riuscita ad offrire risultati clinici fino a poco tempo fa inaspettati e impensabili. Si tratta di una nuova frontiera terapeutica che, nel volgere di pochissimi anni è riuscita a stravolgere gli algoritmi terapeutici di molte neoplasie. Ma soprattutto ad offrire possibilità di cura inimmaginabili fino a pochi anni fa. Alla base di queste possibilità di cura vi è la scoperta che il tumore, nella sua fase di crescita, riesce ad inibire la sorveglianza da parte del sistema immunitario. Tale inibizione è possibile attraverso il blocco di una serie di freni presenti nel sistema offensivo del sistema immunitario.

Aver compreso questo meccanismo inibitorio che blocca la risposta immunitaria ha portato allo sviluppo di tutta una serie di farmaci capaci di “inibire l’inibizione” del sistema immunitario. È così facilitata, quindi, una risposta anticorpale efficace e duratura nei confronti della malattia neoplastica, anche nella cura dei tumori dell’endometrio.

Caso clinico

Il caso clinico che qui si vuole presentare riguarda una paziente di 79 anni, in buone condizioni cliniche, ma con una storia clinica molto articolata. Nel 1989 subisce un intervento di mastectomia destra. Nel 2016 la mastectomia sinistra, è affetta da ipertensione arteriosa ed è stata sottoposta anche a nefrectomia sinistra per malattia renale cronica secondaria a nefroangiosclerosi. Infine è affetta anche ad alterata glicemia a digiuno (IFG).

Nel mese di novembre 2021 la paziente è stata sottoposta ad intervento chirurgico di isterectomia totale con annessiectomia bilaterale, asportazione omento infracolico, biopsie peritoneali e linfoadenectomia pelvica per carcinoma endometrioide dell’endometrio, scarsamente differenziato, che invade più della metà la parete del miometrio con macrometastsi in un linfonodo otturatorio destro, perdita di espressione per i geni MHL1 E PMS2, p53 non mutata, Ki67 80 %.  Stadio IIIC1 secondo la classificazione FIGO. 

La TC preoperatoria, oltre al tumore primitivo in cavità endometriale, aveva evidenziato anche tumefazioni linfonodali lungo la catena iliaca esterna destra. La natura sospetta delle tumefazioni veniva confermata anche da una successiva PET di ristadiazione. Questo poteva giustificare anche il rialzo del marcatore tumorale CA125 che anche dopo l’intervento chirurgico rimaneva su valori elevati (69). Alla luce della stadiazione di malattia, nel mese di dicembre 2021 la paziente ha iniziato un trattamento chemioterapico con Carboplatino AUC 2 e Paclitaxel 60mg/mq giorno 1-8-15 ogni 28 giorni, schema settimanale proposto alla luce dell’età della paziente e delle comorbidità associate, anche se la valutazione cardiologica pre-chemioterapia aveva documentato una buona situazione di compenso cardiologico.

Alla luce della storia anamnestica e clinica della paziente, veniva richiesta anche una consulenza genetica che documentava comunque assenza al test di varianti molecolari di significato patogenetico. 

La paziente ha eseguito 4 cicli di chemioterapia come da indicazione, ben tollerata e in assenza di tossicità rilevanti; tuttavia la PET di rivalutazione eseguita dopo questi primi 4 cicli documentava un incremento dell’ipercaptazione metabolica a livello sia del moncone vaginale, sia con la comparsa di nuovi linfonodi patologici, e sia con incremento metabolico a livello dei linfonodi già presenti: un quadro PET indicativo di evidente progressione di malattia, confermata anche da una successiva visita ginecologica. 

Pertanto, in considerazione della netta progressione di malattia dopo questa prima linea di chemioterapia con Carboplatino e Paclitaxel, e alla luce della condizione di instabilità dei microsatelliti (MSI), per la paziente è stato avviato l’iter autorizzativo per un trattamento di seconda linea con Dostarlimab in un programma di accesso allargato. Oltre alla progressione radiologica, anche le condizioni cliniche e laboratoristiche della paziente peggiorano. Ciò accade con comparsa di sanguinamenti vaginali (trattati con radioterapia palliativa bulky vaginale per una dose totale di 20 Gy). Ma anche con l’aumento dei valori della creatininemia (cosa che rende necessario il posizionamento di una nefrostomia destra).

Stabilizzato il quadro clinico, nel mese di luglio 2022 la paziente ha iniziato quindi una seconda linea di trattamento con Dostarlimab (500 mg giorno 1 ogni 21 giorni per 4 cicli) 2; il trattamento è stato ben tollerato con miglioramento delle condizioni cliniche generali. Ha inoltre visto una netta riduzione del marcatore CA 125 che rientra nel range di normalità. 

La PET di rivalutazione eseguita dopo questi primi 4 cicli di immunoterapia ha messo in evidenza una pressoché totale regressione dei reperti focali ipermetabolici precedentemente descritti a livello del moncone vaginale e dei linfonodi addomino-pelvici, attualmente ridotti per dimensioni e privi di significativa attività metabolica. In considerazione della risposta ottenuta dalla fase di induzione, nel mese di ottobre 2022 la paziente ha iniziato schedula di Dostarlimab a 1000 mg ev ogni 6 settimane, tuttora in corso. Peraltro, nel mese di novembre 2022 la paziente ha eseguito anche una consulenza urologica che, in considerazione della risposta alla terapia sistemica, ha disposto la rimozione della nefrostomia destra.

Nello scorso mese di gennaio 2023, la paziente ha eseguito una nuova PET di rivalutazione che ha documentato l’assenza di ipercaptazione patologiche. Inoltre ha confermato la risposta metabolica completa al trattamento con immunoterapia. Le condizioni cliniche della paziente sono decisamente migliorate, in assenza di tossicità al trattamento in corso, con un miglioramento non solo del quadro clinico, ma con un impatto molto favorevole sulla qualità di vita.

Discussione

Il caso clinico presentato vuole essere un esempio paradigmatico di come si sia evoluta la strategia terapeutica nel carcinoma metastatico dell’endometrio nel corso degli ultimissimi anni. L’immunoterapia, infatti, offre oggi possibilità di cura che fino ad un anno fare erano decisamente precluse per pazienti resistenti al trattamento chemioterapico di prima linea. Un trattamento che offre la possibilità di un significativo controllo della malattia e un possibile vantaggio di sopravvivenza.

La paziente in esame aveva presentato una netta progressione di malattia sotto il trattamento chemioterapico gold standard di prima linea. La malattia era dunque inquadrata come fortemente resistente ai trattamenti convenzionali. Nonostante tale farmaco resistenza primaria, l’immunoterapia invece è riuscita a dare una riduzione significativa della malattia, se non una vera e propria risposta completa. Il tutto con un grande impatto sul miglioramento clinico della paziente e sulla sua qualità di vita.

Bisogna anche sottolineare come il trattamento immunoterapico proposto sia stato facilmente implementato anche in una paziente “fragile” come quella in esame, con tante comorbidità e tanti limiti laboratoristici; questo a riprova non solo di una straordinaria efficacia del trattamento immunoterapico, ma anche di una sua incoraggiante tollerabilità.

Conclusione

Da poco più di un lustro l’immunoterapia si è affacciata nella pratica clinica corrente dell’oncologia moderna. La cura ha aperto spiragli terapeutici innovativi e duraturi in molte patologie neoplastiche. Il razionale biologico che sottende al suo meccanismo d’azione, ossia l’inibizione dei freni biologici che bloccano il sistema immunitario, rende questa opzione terapeutica trasversale alle molte facce della malattia neoplastica. Opzione terapeutica altamente efficace, con profili di tollerabilità molto interessanti e durate delle risposte clinicamente assai significative.

Anche per l’endometrio è stato recentemente aperto questa nuova frontiera terapeutica. Frontiera che lascia ipotizzare rapidi e incisivi miglioramenti di sopravvivenza anche in questa patologia così resistente ai trattamenti chemioterapici convenzionali.

Il caso clinico presentato offre la testimonianza di come l’approccio terapeutico immunoterapico possa cambiare la storia naturale del carcinoma endometriale metastatico. Il tutto indipendentemente dalle condizioni cliniche della paziente, e con margini di cura assai promettenti.

Bibliografia

  1. https://snlg.iss.it/wp-content/uploads/2022/09/LG-486-AIOM_Ca-Cervice-Endometrio.pdf
  1. Ana Oaknin, Lucy Gilbert, Anna V Tinker, Jubilee Brown, Cara Mathews, Joshua Press, Renaud Sabatier, David M O’Malley, Vanessa Samouelian, Valentina Boni, Linda Duska, Sharad Ghamande, Prafull Ghatage, Rebecca Kristeleit, Charles III Leath, Wei Guo, Ellie Im, Sybil Zildjian, Xinwei Han, Tao Duan, Jennifer Veneris, Bhavana Pothuri: Safety and antitumor activity of dostarlimab in patients with advanced or recurrent DNA mismatch repair deficient/microsatellite instability-high (dMMR/MSI-H) or proficient/stable (MMRp/MSS) endometrial cancer: interim results from GARNET-a phase I, single-arm study. J Immunother Cancer 2022 Jan;10(1):e003777.  doi: 10.1136/jitc-2021-003777.
  1. Vanshikha Singh, Afsana Sheikh, Mohammed A S Abourehab, Prashant Kesharwani: Dostarlimab as a Miracle Drug: Rising Hope against Cancer Treatment. Biosensors (Basel)  2022 Aug 8;12(8):617.  doi: 10.3390/bios12080617.

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Il problema della malnutrizione nei pazienti oncologici – Dott.ssa Sara Cardellini

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La Dott.ssa Sara Cardellini, Biologa Nutrizionista presso il ‘San Raffaele’ di Milano, descrive quella che viene definita una vera e propria ‘malattia nella malattia’: la malnutrizione nei pazienti oncologici

‘Conoscere l’Oncologia’ è il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici. Per farlo, intervisteremo diversi specialisti provenienti da tutta Italia, trattando numerosi temi riguardanti l’oncologia. In questo nuovo appuntamento trattiamo del rapporto tra nutrizione e oncologia, in particolare sottolineando il problema della malnutrizione. La valutazione nutrizionale costituisce, infatti, un elemento imprescindibile nell’approccio al paziente affetto da patologia oncologica, già nel corso della prima visita. Per questi motivi, la redazione di Italian Medical News ha deciso di intervistare un’esperta del settore: la Dott.ssa Sara Cardellini, Biologa Nutrizionista presso IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. 

Dottoressa, cosa comporta la malnutrizione nei pazienti oncologici?

“Con malnutrizione si intende una condizione dovuta ad uno squilibrio energetico, proteico o di altri nutrienti. Tale squilibro è responsabile di effetti negativi su composizione corporea e outcome clinico. Nei pazienti oncologici la malnutrizione è descritta come ‘una malattia nella malattia’ dato che compromette lo stato di salute e, se non riconosciuta e correttamente gestita, può penalizzare l’efficacia delle terapie antitumorali; questa problematica porta a comparsa o progressivo peggioramento di astenia, oltre a: riduzione della tolleranza ai trattamenti, prolungamento dei ricoveri ospedalieri, aumento delle complicanze post-operatorie, compromissione della qualità della vita e riduzione della sopravvivenza”.


“Spesso è inizialmente scatenata dal calo di appetito. Questo perché la perdita di tale desiderio purtroppo influisce negativamente sulle porzioni di alimenti introdotte. Di conseguenza, causa progressivamente riduzione del peso corporeo non riuscendo a raggiungere il fabbisogno calorico giornaliero necessario per mantenere l’organismo in forze ed affrontare i trattamenti in programma. La malnutrizione viene innescata anche a seguito dell’insorgenza di nausea, vomito, alterazione dei sapori, sazietà precoce, difficoltà e dolore durante la deglutizione. SI tratta di tutti fattori che incidono sfavorevolmente sull’assunzione di cibo, oltre che sulla qualità di vita in generale e sul performance status (dato che spesso tutto ciò è associato ad ansia e depressione)”.

L’importanza dei supplementi nutrizionali orali (ONS)

Chiarissimo Dottoressa. Come è possibile aiutare i pazienti a raggiungere il loro fabbisogno calorico-proteico giornaliero?

“I supplementi nutrizionali orali (ONS) sono alimenti a fini medici speciali destinati alla prevenzione o al trattamento della malnutrizione calorico-proteica. In particolare, sono utili a tal scopo per permettere ai pazienti di introdurre nutrienti in formula concentrata ad elevata densità calorica. Sono presenti in forma liquida, cremosa o in polvere e sono un valido supporto che può essere utilizzato già dalla diagnosi se il paziente viene valutato in prima visita malnutrito o a rischio di malnutrizione”.

“La tipologia di prodotto si deve scegliere sulla base di eventuale disgeusia e disfagia: la prima consiste in un’alterazione dei sapori, che porta il paziente a non riuscire a tollerare, per esempio, alcuni gusti di integratori; la seconda (disfagia) è invece la difficolta durante la deglutizione. Inoltre, la tipologia di prodotto va riadeguata costantemente sulla base dell’evoluzione dell’andamento ponderale. Può capitare, infatti, che nel corso del trattamento insorgano delle difficoltà nel tollerare consistenze o gusti che a inizio percorso venivano gestiti senza problemi. Senza un cambio di strategia rapido ed efficace, la scarsa compliance da parte del paziente nell’assunzione degli ONS porta ad un peggioramento del suo stato nutrizionale e rende poi ancora più difficile il recupero ponderale”.


Referenze:

1. Muscaritoli M, Lucia S, Farcomeni A et al. Prevalence of malnutrition in patients at first medical oncology visit: the PreMiO study. Oncotarget. 2017 Aug 10.

2. Muscaritoli M, Arends J, Bachmann P et al. ESPEN practical guideline: clinical nutrition in cancer. Clin Nutr 40 2021 mar.

3. Prado, C.M., Laviano, A., Gillis, C. et al. Examining guidelines and new evidence in oncology nutrition: a position paper on gaps and opportunities in multimodal approaches to improve patient care. Support Care Cancer 2021 Nov.

4. Bossi P et al. Malnutrition management in oncology: An expert view on controversial issues and future perspectives. Front Oncol. 2022 Oct. 

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Malnutrizione

 

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Il tumore del distretto testa-collo spiegato dal Dott. Andrea Sponghini

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Proseguono gli appuntamenti di ‘Conoscere l’Oncologia’, il format dedicato agli approfondimenti oncologici. Seconda intervista al Dott. Andrea Pietro Sponghini – Responsabile degenza della S.C.D.U. di Oncologia presso l’A.O.U. ‘Maggiore della Carità’ di Novara. Il tema è il tumore del distretto testa-collo

‘Conoscere l’Oncologia’ è il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici. Per farlo, intervisteremo diversi specialisti provenienti da tutta Italia, trattando numerosi temi riguardanti l’oncologia. In quest’appuntamento tratteremo di un gruppo di patologie oncologiche che rappresentano circa il 10-12% di tutti i tumori maligni negli uomini e il 4-5% nelle donne: I tumori della testa e del collo. Lo faremo intervistando un esperto del settore: il Dott. Andrea Pietro Sponghini – Responsabile degenza della S.C.D.U. di Oncologia presso l’A.O.U. ‘Maggiore della Carità’ di Novara. Con il Dott. Sponghini di recente abbiamo trattato anche di Counseling in oncologia (intervista che puoi leggere cliccando qui).

Una zona del corpo deputata a tante funzioni

 

Dottore, quali sono gli organi e le strutture del corpo su cui può insorgere il tumore del distretto testa collo?

“Parliamo di una zona del corpo molto importante perché è deputata a tante funzioni del nostro corpo. Basti pensare alla deglutizione o all’atto di respirare. Inoltre è una zona vascolarizzata, dunque ricca di vasi sanguigni ma anche ricca di ghiandole e quindi di linfonodi. L’esperto che si approccia a trattare una patologia, nel caso specifico quella oncologica, che riguardi questa area sa bene che dunque si tratta di un qualcosa molto importante e delicato per l’essere umano. Bisogna fare delle differenziazioni importanti: il naso faringe, l’orofaringe e l’ipofaringe sono tre componenti che riguardano tutta la zona della faringe, la parte essenziale per la deglutizione; c’è poi tutta la zona del cavo orale, dunque la bocca, la lingua, il palato duro; infine abbiamo le componenti relative alla laringe come la trachea e la tiroide. Tutto il resto del collo è pieno zeppo di linfonodi, cioè di ghiandole che possono ammalarsi dei tumori cosiddetti squamocellulari. Questa è tutta la parte anatomica che riguarda i tumori del distretto testa-collo”. 

 

Quali sono i sintomi relativi a questa tipologia di tumore?

 “Nonostante non sempre è semplice individuarli, sono due i sintomi principali: disfagia e disfonia. La disfagia è la difficoltà ad ingerire del cibo, o comunque nell’avvertire fastidio nell’atto del mangiare. La disfonia consiste invece nel parlare con una voce modificata, ad esempio rauca o più lieve. Ovviamente tali sintomi diventano preoccupanti quando persistono per alcune settimane. In tutto ciò gioca un ruolo importante il dolore: dolore che può riguardare varie zone (orecchio o naso per fare degli esempi) ma che soprattutto rimane nel tempo. È questo un punto fondamentale dei sintomi: la persistenza nel tempo”.

Fumo, alcol e agenti chimici

 Quali sono invece i principali fattori di rischio?

“Sono i fattori ormai conosciuti da tantissimi anni. Fattori che possono sommarsi come possibilità di aggravamento. In primis menziono il fumo: potremo parlare molto del fumo, tra quantità, qualità, tempo d’espulsione, tutte caratteristiche che incidono. È chiaro che una persona che fuma due pacchetti al giorno da trent’anni presenta molte più probabilità d’insorgenza del tumore testa-collo rispetto a chi fuma due sigarette al giorno. Questo è uno dei fattori di pericolo principali per questo tumore. Il fumo è un rischio che si somma ancora di più nei soggetti che sono forti bevitori. L’abuso di alcol e il fumo rappresentano infatti un mix micidiale per questo tipo di neoplasie. È vero invece il contrario, ovvero che i forti bevitori ma non fumatori non hanno un rischio così elevato come i forti fumatori ma non bevitori. C’è poi tutta una parte particolare relativa alle persone che sono esposte ad agenti chimici: ad esempio quei soggetti che lavorano il cuoio, o le pelli. In questo caso si può parlare di malattie professionali. Ovviamente è possibile in questo caso attuare misure preventive adeguate come maschere protettive”.  

 Come si applica la diagnosi (o le diagnosi) per il tumore del distretto testa-collo?

“Innanzitutto c’è un problema di base che delle volte si verifica: quello di sottostimare eventuali problematiche, dinamica che può provocare un ritardo nella diagnosi. In ogni caso parliamo quasi sempre di diagnosi clinica, è importantissima, ed è dovuta nella maggior parte dei casi ad un incontro con l’otorinolaringoiatra. L’otorino è la prima persona generalmente che da il via all’iter di diagnosi, che in una seconda fase prevede la biopsia che è compito dell’oncologo. C’è poi tutta la parte strumentale che può consistere in una tac, in una risonanza magnetica, ecografia etc. a seconda di quello che è il preciso contesto. È fondamentale dunque il rapporto tra otorinolaringoiatra e oncologo. Devo anche aggiungere che spesso si presenta un ulteriore problema relativo alla diagnosi: ovvero che ci sono alcuni pazienti che, magari per abuso di fumo o di alcol, non sono sensibili e non si accorgono di determinate variazioni/alterazioni riguardanti organi del distretto testa-collo. Questo è un problema da non sottovalutare poiché causa ritardi nella diagnosi”.

Prevenzione e multidisciplinarietà: due concetti fondamentali

 In base a ciò che ci ha appena detto, quanto è importante la prevenzione?

La prevenzione è praticamente tutto. La cosa principale da attuare è cercare di non esporsi ai fattori di rischio principali. Attenzione, non vuol dire che una persona non può bere un bicchiere di vino o una birra. Parliamo di individui che abusano di alcolici in quantità costante e importante, magari mischiando varie gradazioni e magari sommando il tutto al fumo. Se dunque si attua una prevenzione all’alcol, al fumo, e se aggiungiamo anche un buon igiene orale si crea un’ottima strategia preventiva”.

 È corretto affermare che il tumore testa-collo richiede un approccio multidisciplinare?

“Questa domanda è molto importante. La multidisciplinarietà, concetto oggi molto in voga, nasce proprio per i pazienti affetti da tumore testa-collo. Possiamo infatti definire questa neoplasia come malattia emblematica di una sinergia di specialisti che devono lavorare insieme per risolverla. C’è necessità dunque di tanti supporti: innanzitutto quello nutrizionale. Supporto nutrizionale legato al problema di disfagia, vista la difficoltà del paziente nel deglutire e quindi nel mangiare. Poi il supporto dei radioterapisti, otorini, oncologi, chirurgi maxillo-facciali, anatomopatologi etc. . È dunque una patologia che richiede davvero una multidisciplinarietà. Posso tranquillamente affermare che quando ci riuniamo per discutere dei nostri casi siamo almeno una dozzina di specialisti. Ci sono tante figure insieme che collaborano per poter dare il massimo in termini di cura. Chi si ammala di tumore testa-collo ha sempre avuto il supporto di tanti specialisti”.

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tumore testa-collo

 

 


 

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