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L’evoluzione del trattamento immunoterapico nel carcinoma uroteliale – Prof. Michele De Tursi

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carcinoma uroteliale
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Approfondimento scientifico elaborato dal Prof. Michele De Tursi, Professore di Oncologia Medica presso l’Università “G. D’annunzio” di Chieti-Pescara

Di seguito riportiamo un approfondimento scientifico prodotto dal Prof. Michele De Tursi. In quest’articolo l’esperto tratta l’evoluzione del trattamento immunoterapico nel carcinoma uroteliale. Il focus rientra nell’ambito del progetto ‘Conoscere l’Oncologia’, il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici.

1. Introduzione


L’immunoterapia ha rappresentato negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione copernicana nel trattamento medico dei tumori solidi. Questo perché, per la prima volta, si è spostata l’attenzione dal tumore all’organismo che lo ospita. Infatti, mentre per la classica chemioterapia o per la moderna terapia biologica il fulcro dell’azione terapeutica è rappresentata dalla cellula tumorale, e dai meccanismi che ne possono in qualche modo bloccare la proliferazione, per l’immunoterapia la potenzialità terapeutica si sviluppa attraverso una riattivazione antagonista e difensiva del sistema immunitario dell’organismo contro il tumore. (1)

In realtà, l’idea che il sistema immunitario potesse giocare un ruolo di primo piano nella lotta al tumore è stata coltivata per decenni in tanta ricerca preclinica e clinica. Ma dopo anni di fallimentari tentativi volti a “potenziare” il sistema immunitario, affinché riconoscesse il tumore e lo combattesse direttamente, il punto di svolta è stato quello di riconoscere che il sistema immunitario non doveva essere potenziato, ma più semplicemente “sfrenato”, liberato da uno stimolo inibitorio che il tumore impara a sfruttare per bloccarne l’azione distruttiva. Più in dettaglio, il meccanismo biologico che sta alla base del controllo immunitario dei tumori è stato spiegato ormai da circa un decennio con il cosiddetto modello delle 3 E, per spiegare quel processo (definito Immunoediting) attraverso il quale il tumore riesce a sopprimere la risposta immunitaria (2).

Nella fase primordiale della nascita del tumore, il sistema immunitario riesce perfettamente a riconoscere e a distruggere la cellula neoplastica. Lo fa attraverso l’attivazione di cellule immunitarie effettrici (fase della Eliminazione); successivamente si viene a creare una situazione di stasi, in cui tumore e sistema immunitario riescono a bilanciarsi senza che l’uno prevalga sull’altro (fase dell’Equilibrio); infine, il tumore riesce ad evade al controllo del sistema immunitario e inizia la sua progressione clinica (fase di Escape).

Il punto cruciale in questa fase di escape è rappresentato dalla stimolazione, da parte della cellula tumorale, di freni inibitori della cellula immunitaria, come ad es. CTLA-4, ma anche PD-1, LAG3, ecc… Andare a bloccare farmacologicamente questi freni inibitori, come ad es. fa Ipilimumab con CTLA-4, impedisce al tumore di spegnere la risposta immunitaria (3). Questa idea, apparentemente semplice e intuitiva, ha portato J.P. Allison e T. Honio a vincere il premio Nobel per la medicina nel 2018, per la loro scoperta sul ruolo della inibizione della regolazione immunitaria negativa.

2. I trattamenti immunoterapici nel carcinoma uroteliale

Il primo campo di applicazione clinica di questa intuizione biologica è stato il melanoma metastatico. Si tratta di una patologia rapidamente mortale e fino ad allora sostanzialmente orfana di terapie. Nello studio Checkmate, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2011, l’anti CTLA-4 Ipilimumab riusciva a migliorare i tassi di sopravvivenza della classica chemioterapia fino ad allora utilizzata, ma soprattutto lo studio dimostrava l’esistenza di un 20% circa dei pazienti che poteva giovare in maniera prolungata negli anni del controllo di malattia offerto dalla immunoterapia (4). 

Questa dimostrazione scientifica ha rappresentato la convalida di un presupposto biologico. Ha quindi aperto le porte ad un mondo di opportunità terapeutiche, con l’avvento di molecole diverse (come nivolumab, pembrolizumab, avelumab, durvalumab, ecc..), e che dal melanoma si è esteso a tutti i campi della cura dei tumori solidi, coinvolgendo i tumori polmonari, quelli renali, quelli dell’urotelio, ecc..

Per quanto riguarda i tumori vescicali, e più in generale i tumori dell’urotelio, la prima terapia ad essere approvata in questo setting di malattia è stato il Pembrolizumab. Infatti, lo studio Keynote 045, che metteva a confronto – in seconda linea di terapia per malattia metastatica – il pembrolizumab versus la classica chemioterapia, aveva dimostrato un vantaggio dell’immunoterapia rispetto alla chemioterapia, sia in termini di controllo della progressione sia in termini di sopravvivenza. Si trattava di un vantaggio minimo (circa 3 mesi), ma comunque clinicamente significativo rispetto agli scarsi risultati ottenuti dalla chemioterapia (5).

Sicuramente si trattava di un miglioramento ancora minimo e insoddisfacente. Ma comunque era la prova che anche nella malattia uroteliale l’immunoterapia poteva giocare un ruolo fondamentale. Il passaggio successivo, e profondamente incisivo nella storia clinica della malattia, è stato poi l’avvento di Avelumab in questa tipologia di pazienti.

A differenza però di pembrolizumab, che veniva utilizzato in seconda linea di malattia, quindi quando la malattia andava in progressione dopo un primo trattamento chemioterapico a base di platino, l’Avelumab è stato sperimentato in fase di “mantenimento”. Questo rappresenta un punto di volta fondamentale nella gestione clinica della malattia, perché si inserisce in un contesto clinico nuovo, quello cioè di una malattia sotto controllo chemioterapico.

Il trattamento con Avelumab, infatti, viene iniziato subito dopo 4-6 cicli di chemioterapia a base di platino, se la malattia non è in progressione; questo significa che si sfrutta il vantaggio di controllo della malattia offerto dalla chemioterapia, e prima ancora che il fenomeno della farmacoresistenza possa selezionare cloni cellulari resistenti e in progressione. Questo anticipo della immunoterapia ad una fase antecedente alla progressione di malattia, si traduce in un significativo e più lungo controllo della malattia metastatica. Lo studio Javelin Bladder 100, infatti, ha dimostrato un miglioramento mediano della sopravvivenza mediana di oltre 8 mesi rispetto al braccio di terapia che non faceva il mantenimento (6).

3. Conclusione

La cura dei tumori solidi ha trovato nella immunoterapia una nuova arma efficace e sostanzialmente ben tollerata. Si tratta di una opportunità terapeutica che si applica in maniera trasversale alle diverse patologie oncologiche, dal melanoma al carcinoma polmonare, dai tumori renali a quelli dell’urotelio. Molto c’è ancora da capire, soprattutto sui fenomeni di resistenza (sia primaria che acquisita) che ne inficiano l’attività terapeutica in una significativa percentuale di pazienti. Ma è indubbio che le potenzialità terapeutiche offerte dalla immunoterapia aprono uno spiraglio di cura per una gran parte delle patologie oncologiche, e soprattutto una cura di lunga durata.

Per quanto riguarda, nello specifico, i tumori uroteliali, tumori tradizionalmente molto resistenti ai trattamenti e dalle aspettative di vita molto brevi, l’avvento dei trattamenti immunoterapici ha messo in moto una strategia terapeutica che già dai suoi primi passi sembra promettere risultati incoraggianti. Sia pembrolizumab che avelumab hanno dimostrato di migliorare il controllo di malattia, in tutti i parametri presi in considerazione, dal tempo alla progressione, alle risposte oggettive fino alla sopravvivenza globale. Ma l’anticipo terapeutico offerto da avelumab, il cui trattamento viene avviato nel momento di massimo controllo della malattia, sembra offrire le garanzie maggiori per un controllo a lungo termine della malattia. Si tratta di una opportunità terapeutica efficace in tutti i setting di pazienti, indipendentemente dall’età, dall’estensione di malattia e dal tipo di terapia effettuato. Si tratta quindi di una opportunità terapeutica che dovrebbe essere proposta a tutti i pazienti con carcinoma uroteliale metastatico.

4. Bibliografia

  1. 1. Alberto Martini, Daniele Raggi, Giuseppe Fallara, Luigi Nocera, Julianne G. Schultz, Federico Belladelli, Laura Marandino, Andrea Salonia, Alberto Briganti, Francesco Montorsi, Thomas Powles, Andrea Necchi.  Immunotherapy versus chemotherapy as first-line treatment for advanced urothelial cancer: A systematic review and meta-analysis. Cancer Treatment Reviews 104 (2022) 102360
  • 2. Joaquim Bellmunt, Begona P. Valderrama, Javier Puente, Enrique Grande, M. Victoria Bolos, Nuria Lainez, Sergio Vazquez, Pablo Maroto, Miguel ´Angel Climent, Xavier Garcia del Muro, Jose ´Angel Arranz, Ignacio Duran. Recent therapeutic advances in urothelial carcinoma: A paradigm shift in disease management. Critical Reviews in Oncology / Hematology 174 (2022) 103683
  • 3.Petros Grivas, Evgeny Kopyltsov, Po-Jung Su, Francis X. Parnis, Se Hoon Park, Yoshiaki Yamamoto, Peter C. Fong, Christophe Tournigand, Miguel A. Climent Duran, Aristotelis Bamias, Claudia Caserta, Jane Changm, Paul Cislo, Alessandra di Pietro, Jing Wango, Thomas Powles. Patient-reported Outcomes from JAVELIN Bladder 100: Avelumab First-line Maintenance Plus Best Supportive Care Versus Best Supportive Care Alone for Advanced Urothelial Carcinoma. https://doi.org/10.1016/j.eururo.2022.04.016 EUROP EAN UROLOGY 2022

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Focus sulla figura dello Study Coordinator – Intervista Dott.ssa Sgandurra

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La Dott.ssa Francesca Sgandurra, Coordinatore di Ricerca Clinica in Oncologia, espone le caratteristiche principali di una figura sempre più centrale nel mondo sanitario

Il Coordinatore di Ricerca Clinica (CRC), ai più noto con il nome di Study Coordinator o come Data Manager, è una figura fondamentale che gestisce varie fasi della conduzione di uno studio clinico. È un elemento irrinunciabile per qualsiasi struttura sanitaria che voglia partecipare e promuovere studi clinici. Per saperne di più sulla ricerca clinica, la redazione di Italian Medical News ha deciso di intervistare una figura esperta del settore: la Dott.ssa Francesca Sgandurra, Study Coordinator presso l’U.O.C. di Oncologia Medica dell’Ospedale “S. Vincenzo” di Taormina (ME). La Dottoressa Sgandurra ha quindi risposto lucidamente ad una serie di quesiti posti.

Le molteplici funzioni del CRC

Dottoressa, qual è il ruolo principale di un Coordinatore di Ricerca Clinica/Data Manager e quali competenze ritiene siano fondamentali per svolgere questo lavoro in modo efficace?

“Il Coordinatore di Ricerca Clinica (CRC) è una figura che si occupa di coordinare tutte quelle professionalità che ruotano intorno al protocollo di ricerca. Il CRC è infatti un punto di riferimento per il centro clinico, per lo staff sperimentale e per tutte le figure coinvolte, comprese quelle esterne alla struttura ospedaliera. Il Coordinatore di Ricerca Clinica inoltre è conosciuto anche con altre terminologie come ad esempio quella di Study Coordinator o Data Manager”. 

“La nostra è una professione che svolge svariate funzioni. Innanzitutto, quelle gestionali-amministrative di uno studio, a partire dalla compilazione del cosiddetto questionario di fattibilità, ovvero un format fornito dallo Sponsor finalizzato a  valutare l’adeguatezza o meno del centro clinico a svolgere il protocollo. Esistono poi altre attività amministrative di cui lo Study Coordinator si occupa come l’attivazione e la chiusura del protocollo, nonché la programmazione delle visite di monitoraggio da parte di Sponsor e CRO (Contract Research Organization)”.

“C’è poi tutta la fase relativa alla gestione della documentazione sia dello staff sperimentale che dei dati clinici del paziente. Il CRC si occupa anche di gestire tutte le facility del centro clinico, ovvero garantire la qualità di tutte le apparecchiature utilizzate durate la conduzione del protocollo, reperendo certificati di accreditamento e calibrazione etc. Ovviamente è presente tra i compiti anche la gestione di tutte le comunicazioni, verbali e scritte, con tutte le personalità coinvolte: dai medici agli Sponsor, dalle autorità regolatorie ai pazienti. Un’altra attività fondamentale riguarda la gestione del farmaco sperimentale e dei kit di laboratorio per la revisione centralizzata dei campioni biologici”. 

“Per quanto riguarda invece le competenze personali di questa figura, sicuramente il CRC deve avere un background accademico-scientifico oltre a possedere una rigida metodica organizzativa. Allo stesso tempo deve essere una persona elastica e versatile ed avere buone capacità relazionali e interpersonali”.

L’importanza di una corretta gestione del tempo

Come gestisce la complessità e le sfide quotidiane che possono sorgere durante la gestione di uno studio clinico?

“Il CRC deve essere abile nel gestire il tempo e le priorità. Deve lavorare costantemente aggiornando la sua agenda così da raggiungere sempre gli obiettivi entro le scadenze preposte. Dico sempre che non esiste una ‘giornata tipo’ del Coordinatore di Ricerca Clinica per via delle numerose e svariate attività da portare a termine; in ogni caso la gestione del tempo è fondamentale. Spesso poi sopraggiungono gli imprevisti che vanno ad inficiare sulla tabella di marcia e che costringono a rimodulare una giornata di lavoro in corso d’opera; anche qui è necessaria una corretta gestione delle tempistiche e anche una buona dose di problem solving”.

Le Good Clinical Practice (GCP)

Quali sono i principali aspetti etici e regolatori da considerare nella conduzione di uno studio clinico e come si assicura che siano rispettati?

“Tutti gli studi si basano sulle Good Clinical Practice (GCP) ovvero una raccolta di norme e principi, redatte in conformità con la dichiarazione di Helsinki, standardizzate a livello internazionale e in vigore dal 1997. Sono una serie di norme che garantiscono la sicurezza e il benessere del paziente. Le GCP dettano quelli che sono i doveri degli sperimentatori, degli Sponsor e delle autorità regolatorie con il fine ultimo di preservare la salute del paziente. Gli sperimentatori devono assolutamente conoscere le norme GCP e possedere un certificato in corso di validità”. 

“Un’altra fase delicata è la firma del consenso. Nello specifico, lo sperimentatore deve sostenere un colloquio con il paziente durante il quale esporre in modo esaustivo e chiaro il protocollo. È fondamentale dunque che il clinico si assicuri che il paziente accetti consapevolmente di partecipare allo studio clinico. Altro aspetto fondamentale è l’aderenza al protocollo, la quale va garantita parallelamente alla costante vigilanza sulla salute del paziente. Ovviamente è importante anche assicurarsi che tutti gli sperimentatori siano sempre correttamente formati e aggiornati”.

Le regole di una corretta comunicazione

Come gestisce la comunicazione e la collaborazione con il personale medico, i ricercatori e altre figure coinvolte nello studio clinico?

“In questo caso la comunicazione, che sia verbale o scritta, è fondamentale così come una corretta divisione dei ruoli. A tal proposito è importante avere alle spalle un ottimo team multidisciplinare che sia competente e metodico. Personalmente ho la fortuna di lavorare in un team che è coeso, affiatato, motivato e altamente collaborativo. Per quanto riguarda i rapporti con le professionalità esterne, cerco di essere sempre una persona collaborativa, propositiva e disponibile alle comunicazioni. In tal senso, penso che oltre alle competenze e alla professionalità individuali sia importante una buona dose di gentilezza e predisposizione positiva verso l’altro. In generale, una buona comunicazione permette un clima sereno e di conseguenza anche efficiente”.

Vuole aggiungere altro?

“Vorrei aggiungere che questo è un lavoro che amo molto. È un lavoro dinamico e stimolante che permette di interfacciarsi con moltissime personalità e che consente un grande arricchimento personale. È un lavoro che consiglio ai giovani che vogliano muovere i primi passi nel mondo della ricerca clinica, anche e soprattutto al fine di confrontarsi con varie figure professionali, spesso di alto livello. Tuttavia, esiste un grosso problema ancora da risolvere: nonostante il Coordinatore di Ricerca Clinica sia una figura riconosciuta da tempo a livello internazionale, purtroppo in Italia non è ancora istituzionalizzata e la posizione contrattuale ancora indefinita. C’è ancora molto da fare per migliorare questa condizione”.

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L’importanza del supporto nutrizionale nei pazienti con tumori del distretto testa-collo – Dott.ssa Sara Cardellini

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La Dott.ssa Sara Cardellini, Biologa Nutrizionista presso il ‘San Raffaele’ di Milano, spiega l’importanza di una corretta nutrizione per una specifica popolazione oncologica: i pazienti testa-collo

Conoscere l’Oncologia’ è il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici. Per farlo, intervisteremo diversi specialisti provenienti da tutta Italia, trattando numerosi temi riguardanti l’oncologia. 

Secondo Step con la Dott.ssa Sara Cardellini, Biologa Nutrizionista presso IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che di recente ci aveva descritto il rapporto tra nutrizione e oncologia, in particolare sottolineando il problema della malnutrizione (articolo che puoi trovare cliccando qui). Questa volta, l’esperta tratta l’importanza di una corretta nutrizione per una specifica popolazione oncologica, ovvero i pazienti che soffrono di tumore del distretto cervico-cefalico, più comunemente conosciuto come distretto testa-collo

Il ruolo fondamentale dello screening nutrizionale

Dottoressa, che ruolo gioca lo screening nutrizionale in pazienti con tumori del distretto testa-collo?

“La valutazione dello stato nutrizionale dovrebbe idealmente essere svolta alla diagnosi in tutti i pazienti oncologici, al fine di intervenire sin da subito su eventuale malnutrizione e permettere di recuperare peso corporeo prima ancora dell’avvio dei trattamenti oncologi qualora il paziente ne abbia nei mesi precedenti. Capita molto spesso che i pazienti con tumori del distretto testa-collo risultino in prima visita oncologica con una buona composizione corporea e senza particolari difficoltà ad alimentarsi, ma considerando l’aggressività dei trattamenti oncologici è bene avviare comunque precocemente una presa in carico nutrizionale per prevenire rapidi ed improvvisi  peggioramenti che potrebbero insorgere nel giro di poche settimane riguardanti la possibilità di alimentarsi regolarmente e con appetito”.

Alimentazione riadeguata in relazione agli effetti collaterali

Con quale scopo viene svolto counselling nutrizionale in pazienti con tumori del distretto testa-collo all’avvio dei trattamenti oncologici?

“In questi pazienti è importantissimo riadeguare l’alimentazione in relazione agli effetti collaterali dei trattamenti chemio-radioterapici che impattano negativamente sulla capacità di introdurre alimenti per bocca; tra questi, troviamo soprattutto disfagia (utilizzare consistenze specifiche degli alimenti aiuta a tal proposito ad evitare dolore e difficoltà nel transito di alimenti e bevande) e mucositi (ovvero infiammazioni a carico del cavo orale, che spesso il paziente avverte come sensazione di bruciore quando l’area interessata entra in contatto con ciò che ingerisce per bocca)”.

“Queste condizioni hanno un impatto debilitante sulla qualità della vita del paziente già ancora prima di iniziare i trattamenti oncologici. Inoltre incidono negativamente anche sulla sua capacità di comunicazione verbale. Suggerimenti mirati riguardanti cosa escludere già in questa fase (ad esempio alcolici, caffè, alimenti troppo secchi e spezie) possono sicuramente aiutare a non aggravare ulteriormente la sintomatologia descritta e a mantenere un buon introito calorico-proteico giornaliero. Una presa in carico nutrizionale tempestiva già dalla diagnosi, quindi, è in grado di prevenire e contrastare queste problematiche per permettere ai pazienti di svolgere con l’efficacia attesa tutto il percorso terapeutico”.

La nutrizione artificiale

Cosa succede se diventa difficile nutrire unicamente tramite alimenti e ONS i pazienti con tumori del distretto testa-collo?

“I rapidi cambiamenti indotti nell’organismo da radio-chemioterapia molto spesso costringono a modificare frequentemente le indicazioni nutrizionali da un incontro all’altro. Questo succede anche perché tanti pazienti ad un certo punto del percorso necessitano dell’attivazione di nutrizione artificiale a causa dell’impossibilità nel proseguire unicamente con l’alimentazione per bocca. Un costante confronto all’interno del team multidisciplinare permette, a tal proposito, di supportare al meglio i pazienti aiutandoli in ciascuno di questi step a gestire le rapide ed improvvise modifiche che sono caratterizzate dall’avere un impatto importante in negativo sulla qualità di vita, già compromessa dai trattamenti in corso; il posizionamento di sondino nasogastrico per utilizzare nutrizione artificiale, per esempio, può essere una valida opzione per evitare che alimenti e bevande possano infiammare ulteriormente il cavo orale già compromesso dagli intensivi trattamenti oncologici in pazienti che perdono peso a causa del ridotto introito calorico per bocca”. 

Referenze:
  1. Bahl A, Elangovan A, Kaur S, Verman R, Oinam AS, Ghoshal S, Panda NK. Pre-Treatment Nutritional Status and Radiotherapy Outcome in Patients with Locally Advanced Head and Neck Cancers. Gulf J Oncolog. 2017 Sep
  2. Orell-Kotikangas H, Österlund P, Mäkitie O, Saarilahti K, Ravasco P, Schwab U, Mäkitie AA. Cachexia at diagnosis is associated with poor survival in head and neck cancer patients. Acta Otolaryngol. 2017 Jul
  3. Cereda E, Cappello S, Colombo S, Klersy C, Imarisio I, Turri A, Caraccia M, Borioli V, Monaco T, Benazzo M, Pedrazzoli P, Corbella F, Caccialanza R. Nutritional counseling with or without systematic use of oral nutritional supplements in head and neck cancer patients undergoing radiotherapy. Radiother Oncol. 2018 Jan
  4. Cook F, Rodriguez JM, McCaul LK. Malnutrition, nutrition support and dietary intervention: the role of the dietitian supporting patients with head and neck cancer. Br Dent J. 2022 Nov

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Carcinoma del colon – Dott. Giovanni Sanna

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Italian Medical News presenta il tredicesimo appuntamento di ‘Conoscere l’Oncologia’ il format dedicato agli approfondimenti oncologici. Questa volta, insieme al Dott. Giovanni Sanna, trattiamo di carcinoma del colon

Conoscere l’oncologia è il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti oncologici. Il format si basa su interviste che vedono protagonisti diversi specialisti oncologici provenienti da tutta Italia. L’appuntamento di quest’oggi è dedicato al carcinoma del colon, patologia che rappresenta il 10% di tutti i tumori diagnosticati nel mondo, oltre ad essere la terza più frequente tra i maschi (12%) dopo il tumore della prostata e quello polmonare, e tra le femmine (11,2%) dopo il cancro della mammella. (Dati AIOM-AIRTUM 2021).

Per saperne di più la redazione di Italian Medical News ha deciso di intervistare il Dott. Giovanni Sanna, Medico Oncologo presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari. L’esperto Dottore ha quindi risposto in modo chiaro ed esaustivo ad una serie di quesiti posti.

Un’elevata incidenza

Dottore, può esporci in linee generali in cosa consiste il carcinoma del colon?

“Si tratta di una neoplasia maligna che insorge sulle diverse sedi dell’intestino crasso. Parliamo del tumore più presente tra la popolazione italiana e non solo. La sua incidenza è al secondo posto nelle donne dopo il tumore della mammella e al terzo posto negli uomini dopo il tumore alla prostata e quello polmonare. Anche la mortalità è molto elevata essendo la seconda neoplasia maggiormente letale sia per gli uomini (dopo il cancro al polmone) che per le donne (dopo il tumore al seno). L’incidenza aumenta con l’età, e tende ad aumentare soprattutto dopo i 55 anni“.

“Se vogliamo fare anche una distribuzione geografica del carcinoma del colon a livello nazionale, troviamo una frequenza più elevata nelle regioni del nord (specie Trentino Alto Adige e Veneto) e più bassa al sud; allo stesso tempo, però, nel meridione e nelle isole si rileva una mortalità maggiore. Quest’ultimo è un fattore che la dice lunga sia sull’adesione alle campagne di screening promosse dalle regioni, sia su una (probabile) minore qualità assistenziale rispetto al settentrione”.

Sopravvivenza in aumento

“Per fortuna però, la sopravvivenza è in stabile aumento e questo è indice del miglioramento delle cure che vengono messe in atto. Un’incidenza così elevata è correlata a dei fattori di rischio. Tra i principali possiamo menzionare l’eccessiva ingestione di cibi ad alto contenuto di grassi e carboidrati e il corrispettivo basso consumo di frutta e verdura, l’uso in elevate quantità di alcolici e l’abitudine costante al fumo di sigarette. Esistono anche delle cause genetiche tra cui la poliposi familiare e la sindrome di Lynch. Attenzione anche alle malattie infiammatorie intestinali croniche che in alcuni casi possono essere alla base del carcinoma del colon”.

Sintomi e prevenzione

Quali sono invece i sintomi più frequenti di questa tipologia di cancro?

“Tra i sintomi principali della fase primitiva del carcinoma del colon possiamo menzionare l’irregolarità dell’alvo (che riguarda in particolare il colon sinistro), la rettorragia e l’insorgenza di un’anemia progressivamente più rilevante. Menzionerei anche i dolori addominali. In ogni caso, irregolarità dell’alvo, rettoragia e anemia sono sicuramente i più frequenti”.

Quanto è importante invece la prevenzione?

“La prevenzione è fondamentale, e possiamo dividerla in due principali categorie. La prima è rappresentata dalla prevenzione primaria, ovvero il condurre un’alimentazione e in generale una vita sana. Dunque mangiare più frutta e verdura e meno grassi, evitare eccessive quantità alcoliche e non fumare. La seconda categoria è rappresentata invece dalla prevenzione secondaria, cioè sottoporsi agli screening. Parliamo di una prevenzione volta ad individuare il più precocemente possibile l’insorgenza di una malattia e ha come scopo principale quello della riduzione della mortalità per quella precisa patologia, tra cui il carcinoma del colon. Le regioni italiani offrono dei programmi di screening, anche e soprattutto per questa tipologia di cancro, rivolti alle persone con età pari o superiore ai 55 anni”.

Alla scoperta di cetuximab

Dottore, trattiamo ora di un farmaco in particolare: cetuximab. In cosa consiste e in che modo agisce?

“Il cetuximab non è un chemioterapico classico come siamo abituati ad immaginare. Si tratta di un farmaco inibitore del fattore di crescita epidermico: in altri termini inibisce il segnale intracellulare di proliferazione che viene dato dal recettore del fattore di crescita. Il tutto comporta una mancata traduzione del segnale all’interno della cellula e dunque la mancata replicazione della cellula tumorale. Parliamo di un farmaco conosciuto ormai da un po’ di anni e si utilizza soltanto nelle fasi di malattia metastatica. Questo perché è inutilizzabile come terapia precauzionale. Nell’ambito della malattia metastatica il cetuximab è indicato sia nella prima sia nella seconda sia in linee successive e il suo utilizzo avviene quasi esclusivamente in associazione a diversi tipi di chemioterapia”.

“Cetuximab è in ogni caso condizionato dalla selezione molecolare della neoplasia: questo perché, si è visto che funziona soltanto in neoplasie coliche in assenza di mutazioni delle sequenze geniche K-RAS, N-RAS e B-RAF. La presenza di queste mutazioni rappresenta una controindicazione assoluta all’uso di cetuximab. In aggiunta, negli ultimi anni si è costatato che l’efficacia del farmaco è più elevata quando la neoplasia colica, sempre in assenza di mutazioni genetiche parlate prima, si trova nel colon sinistro, rispetto al colon destro. Insomma, quando la neoplasia si trova nel colon sinistro, il cetuximab diventa più efficace”.

Descrizione di un caso clinico

Per chiudere, può parlarci un caso clinico che ha visto l’utilizzo di cetuximab?

“Ce n’è uno molto significativo. Un caso che riguarda una donna, che attualmente ha 65 anni ed è in cura dal 2018, quando le venne diagnosticata una neoplasia del retto prossimale. La signora era stata sottoposta ad una resezione anteriore diretto nell’ottobre del 2018, e già all’atto della stadiazione erano presenti 3 lesioni epatiche metastatiche, per cui dopo l’intervento chirurgico sul tumore primitivo e sui linfonodi, è stato definito e avviato un programma di terapia. Tale programma prevedeva 6 cicli di FOLFOX, un intervento chirurgico sulle metastasi epatiche e poi altri 6 cicli di FOLFOX”.

Purtroppo, al termine del programma, si è verificata un’evidente progressione di malattia con il riscontro di metastasi polmonari diffuse e di nuove metastasi epatiche. In questo difficile caso, la selezione molecolare aveva documentato l’assenza di mutazioni dei geni K-RAS, N-RAF e B-RAS e, essendo un colon sinistro, si è deciso di avviare una cura a base di cetuximab. La cura è iniziata intorno all’ottobre del 2019, e la signora è rimasta in terapia con il farmaco fino all’aprile del 2021. Si parla dunque di circa un anno e mezzo di terapia con cetuximab“.

“Successivamente nell’ottobre del 2021, essendoci state nuove progressioni della malattia, ho ritenuto di effettuare prima una biopsia liquida e successivamente, dopo aver riscontrato assenza di mutazioni genetiche, ho ripreso la cura con cetuximab. Ad oggi, a inizio del 2023, la paziente è in ottime condizioni, la malattia è remissione parziale. Tutto questo fa ben capire l’importanza di cetuximab per trattare questa neoplasia maligna”.

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