L’utilizzo dell’intelligenza Artificiale (AI) per lo sviluppo di precise terapie personalizzate nella cura del tumore al polmone. È questo l’obiettivo del progetto di ricerca ‘I3LUNG’
Sviluppare terapie personalizzate per il tumore al polmone grazie al supporto dell’Intelligenza Artificiale (IA). Questo, l’obiettivo del progetto internazionale di ricerca ‘I3LUNG’, finanziato con 10 milioni di euro dall’Unione europea, di cui l’Istituto nazionale tumori (Int) è capofila. In particolare, la ricerca si pone di individuare, sfruttando le potenzialità dell’IA, diversi possibili biomarcatori per rendere l’immunoterapia personalizzata e quindi più efficace.
Il carcinoma polmonare non a piccole cellule (Nsclc) è attualmente la tipologia di tumore al polmone più frequente, ricorda l’Int in una nota. Ai pazienti colpiti da Nsclc che non possono accedere alle terapie target viene proposta l’immunoterapia. Essa rappresenta, insieme alle target therapy con farmaci a bersaglio molecolare, la più grande rivoluzione in campo oncologico degli ultimi anni. Si tratta di una nuova strategia di trattamento che mira a stimolare il sistema immunitario del soggetto affetto da tumore in modo che attacchi ed elimini le cellule cancerose. Nonostante gli enormi progressi, c’è ancora da fare qualche passo importante, specie per il carcinoma polmonare non a piccole cellule. Infatti, la possibilità di somministrare le nuove terapie è subordinata ad una precisa diagnosi molecolare.
Il ruolo chiave della proteina PD-L1
“I risultati degli studi relativi all’immunoterapia nell’Nsclc sono emersi inizialmente nel 2013 mentre nel 2015 sono arrivate le prime approvazioni da parte delle autorità regolatorie, prima per la seconda linea di trattamento e successivamente anche per la prima linea – spiega Arsela Prelaj, oncologa e ricercatrice dell’Int. Nell’arco degli anni si sono succedute molte ricerche. Queste hanno individuato diversi biomarcatori clinici, biochimici e biomolecolari di risposta all’immunoterapia, e tra questi è stato scelto il PD-L1, una proteina espressa nella superfice tumorale, con il quale si stratificano i pazienti e si sceglie il trattamento”.
Il problema, come sottolineato dall’esperta, è che questo biomarcatore, approvato perché il migliore tra quelli individuati, non è perfetto. “In Italia, l’approccio terapeutico attuale prevede che i soggetti con PD-L1 elevato possano accedere all’immunoterapia da sola – prosegue Prelaj. Per quanto riguarda quelli con PD-L1 basso è previsto l’accesso all’immunoterapia associata a chemioterapia. Esiste tuttavia una percentuale di pazienti con livelli bassi che risponde bene ugualmente all’immunoterapia da sola, come si è osservato quando ancora l’immunoterapia veniva data a tappeto”.
L’Intelligenza Artificiale per ottenere una migliore profilazione molecolare del paziente
Nasce da queste considerazioni l’idea, dell’esperta, di poter arrivare a una migliore profilazione molecolare del paziente non con uno, ma con più biomarcatori, da individuare analizzando i dati clinici, in parte già disponibili e in parte ancora da raccogliere, anche con l’uso dell’intelligenza artificiale, molto più efficiente dei metodi convenzionali nell’individuare correlazioni e informazioni salienti. È così che è nato il progetto di ricerca I3LUNG. “Il disegno dello studio prevede sia la raccolta di dati retrospettivi degli ultimi 10 anni, relativi circa a duemila pazienti, sia la definizione di una coorte prospettica con circa 200 pazienti, afferenti a sei centri clinici che vengono profilati sotto tutti gli aspetti: marcatori sanguigni, microbiologia intestinale, sistema immunitario, trascrittoma e genoma – spiega ancora l’oncologa. Attualmente abbiamo sviluppato la prima versione della piattaforma informatica entro la quale verranno depositati i dati retrospettivi, probabilmente entro maggio. Successivamente si passerà ai prospettici”.
L’obiettivo è riuscire a sviluppare, con tutti questi dati omici e di real word, algoritmi decisionali che consentano una reale personalizzazione delle cure oncologiche per l’Nsclc. Nello stesso progetto è previsto anche un coinvolgimento del paziente stesso nelle scelte terapeutiche. “Chiamiamo questi strumenti tool co-decisionali – precisa Prelaj. Essi permettono di considerare le preferenze delle persone che alla fine dovranno subire i trattamenti, personalizzando al massimo le scelte terapeutiche. Ovviamente bisogna considerare anche i rischi di eventi avversi, di cui questi trattamenti non sono privi. In ogni caso, dobbiamo facilitare l’implementazione di questi strumenti nella pratica clinica”.
Negli ultimi cinque anni nel nostro Paese le persone vive dopo la diagnosi di tumore al rene sono aumentate in modo significativo
Negli ultimi cinque anni, in Italia, le persone vive dopo la diagnosi di tumore al rene sono aumentate del 15%. Erano circa 125.000 nel 2018, fino a diventare 144.400 nel 2022. Inoltre, oltre il 50% dei pazienti diagnosticati in fase precoce guarisce. Nel 30% dei casi la malattia è individuata in fase avanzata o metastatica e in un altro 25-30% si ripresenta dopo l’intervento chirurgico eseguito con intento curativo.
A fare il punto sono l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e l’Associazione Nazionale Tumore del Rene (Anture), che dal Congresso della Società Americana di Oncologia Clinica (Asco) in corso a Chicago, hanno lanciato la campagna nazionale di sensibilizzazione.
Un tempo le opzioni terapeutiche erano scarse, anche perché in questo tipo di neoplasia la chemioterapia è da sempre poco efficace e il suo utilizzo è scarso. Oggi però vi sono numerosi strumenti efficaci da inserire in una strategia di cura che vede chirurgia, terapie mirate e immunoterapia, migliorando in maniera significativa la gestione di controllo della neoplasia metastatica.
Le parole del Presidente AIOM
A commentare il grande risultato è il Presidente AIOM, Saverio Cinieri. “L’incremento della sopravvivenza e del numero di pazienti vivi dopo la diagnosi del tumore al rene è dovuto all’introduzione delle terapie mirate innovative e dell’immunoncologia che, in quasi vent’anni, hanno permesso di contrastare con successo anche i casi di malattia in fase avanzata. L’innovazione terapeutica – ha spiegato l’esperto – ha rivoluzionato la pratica clinica. Con la nostra campagna vogliamo migliorare il livello di consapevolezza dei pazienti e dei cittadini sui progressi della ricerca. Il tutto, senza dimenticare il ruolo degli stili di vita. È infatti dimostrato che l’attività fisica è in grado di ridurre fino al 22% il rischio di sviluppare malattia. Anche nei pazienti che hanno già ricevuto la diagnosi – conclude il presidente AIOM – il movimento fisico può migliorare del 15% i risultati dei trattamenti”.
I tumori del cervello sono tra i più temuti e difficili da trattare. Ora però, grazie alla ricerca, nuove armi stanno arrivando per combatterli
I tumori del cervello, come glioma e glioblastoma, sono al centro di vari studi presentati al Congresso della Società americana di oncologia clinica (Asco). Proprio dagli Usa giunge un segnale di speranza per questi pazienti. Parliamo infatti di neoplasie relativamente rare e che, per questo, hanno ad oggi un armamentario terapeutico ancora ridotto. Il glioblastoma è il tumore del cervello maligno più frequente nell’adulto ed ogni anno in Italia ne sono colpite circa 1.500 persone. I gliomi, invece, insorgono soprattutto in età pediatrica, con un picco tra i 5 e i 10 anni di età, e se ne contano alcune decine di casi l’anno nel nostro Paese. Al congresso Asco, i riflettori si sono accesi su queste neoplasie con due studi di grande rilevanza.
Studio Indigo di fase 3
Il primo, lo studio Indigo di fase 3, ha dimostrato l’efficacia di una nuova molecola (vorasidenib), in grado di ritardare la progressione della malattia o la morte nei pazienti con glioma di grado 2 con mutazione genetica Idh, che interessa circa l’80% di questi malati. Lo studio ha coinvolto 331 pazienti (dai 16 ai 71 anni) provenienti da 10 paesi, che avevano subito un intervento chirurgico ma nessun altro trattamento.
La buona notizia è che il nuovo farmaco ha ritardato la progressione della malattia ed è stato ben tollerato. In particolare, il periodo di sopravvivenza libero da progressione della malattia ha infatti raggiunto i 27,7 mesi rispetto a 11,1 mesi per il placebo, ritardando in modo significativo il trattamento successivo. Questi risultati “rappresentano un significativo passo avanti nel trattamento ed hanno il potenziale per rivoluzionare la cura di questa malattia. Il nostro studio – spiega il primo autore Ingo Mellinghoff, del Memorial Sloan Kettering Cancer Center – mostra infatti che andando a colpire la mutazioni Idh con vorasidenib si ritarda significativamente la crescita del tumore e la necessità di terapie più tossiche”.
“Ciò è clinicamente significativo – prosegue l’esperto – perché i pazienti con diagnosi di glioma di grado 2 con mutazioni Idh sono tipicamente giovani e sani. Dunque, i risultati di questo studio offrono la possibilità di cambiare il paradigma del trattamento e potrebbero portare alla prima nuova terapia mirata per il glioma di basso grado“. Attualmente, sono allo studio anche combinazioni della molecola con altri farmaci sia nel glioma di basso che in quello di alto grado.
La terapia ‘Ttfields’
Altro risultato presentato all’Asco riguarda la terapia basata sull’utilizzo di campi elettrici che inibiscono la divisione delle cellule tumorali e che vengono inviati nella regione colpita dal cancro attraverso un dispositivo medico portatile, la cosiddetta terapia Ttfields. Questa ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza dei pazienti con glioblastoma di nuova diagnosi: lo conferma il primo studio di real world in questo campo, cioè di ‘vita reale’ in cui vengono inclusi pazienti non selezionati.
La sopravvivenza mediana, spiega Matthew Ballo, medical director al West Cancer Center & Research Institute di Memphis, “è stata di 22,2 mesi per i pazienti che hanno ricevuto Ttfields rispetto a 17,3 mesi per i pazienti che non l’hanno ricevuta.Dico ai miei pazienti – afferma Ballo – che questa è una parte importante dello standard di cura, che consiste in radiazioni, chemio e Ttfields, perché questo approccio si traduce nel miglior risultato. Inoltre, il dispositivo crea un campo elettromagnetico che interferisce con qualsiasi cellula in rapida divisione, quindi ha utilità non solo nel glioblastoma – spiega l’esperto.Le indagini hanno mostrato l’attività di Ttfields in più tumori, come nel carcinoma polmonare non a piccole cellule metastatico al cervello, carcinoma polmonare, pancreatico, epatocellulare, ovarico e nel mesotelioma”.
Un team di ricercatori della Georgetown University di Washington si è concentrato su determinati cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali di alcuni pazienti, scoprendo inedite informazioni
I casi di cancro al colon sono sempre più in aumento negli ultimi anni, soprattutto nelle fasce più giovali della popolazione. Per questo motivo, un gruppo di esperti della Georgetown University di Washington ha deciso di indagare a fondo la questione, concentrandosi sui cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali dei giovani. Dalle analisi è emerso che nei tumori dei pazienti più giovani si trovava spesso il fungo Cladosporium sp., in percentuale significativamente maggiore rispetto ai pazienti più anziani. Il fungo non è un ospite abituale dell’intestino umano. In sua presenza si verificano difficoltà digestive oltre a poter causare infezioni della pelle e delle unghie.
Benjamin Weinberg, esperto di cancro gastrointestinale e co-autore della ricerca, spiega: “Molte persone anno la colpa a obesità e diabete. Ma abbiamo questi pazienti sani e giovani che hanno un cancro colorettale molto avanzato”. Il team americano ha esaminato campioni di tessuto di 63 pazienti con meno di 45 anni o con più di 65, controllando il Dna dei microrganismi nei tumori per cercare eventuali differenze a livello di microbioma intestinale. È emersa così la presenza diffusa del fungo Cladosporium sp. fra i più giovani. Per quanto riguarda i batteri, invece, non sono emerse differenze particolari.
L’ipotesi dei ricercatori è che il fungo possa causare un danno al Dna cellulare e propiziare così la mutazione delle cellule da sane a cancerose. La teoria più diffusa e accettata nel mondo scientifico finora è quella dello stile di vita alterato, con consumo di alcol, poca attività fisica e alimentazione squilibrata. Un fenomeno che certamente ha contribuito all’aumento dei casi di cancro, ma che non spiega il fatto che per alcuni tipi di cancro si sia registrata invece una diminuzione nel tempo. La ricerca americana mostra quindi la possibilità di un altro fattore che non era stato preso in considerazione e che invece potrebbe aver contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’incidenza dei tumori, e di quello del colon in particolare.