Lo dimostra uno studio coordinato dall’Imperial College di Londra, in collaborazione con un noto centro italiano, che ha coinvolto 1.400 persone
L’immunoterapia sta letteralmente rivoluzionando le cure per il cancro negli ultimi anni. Purtroppo però, non tutti i pazienti sembrano beneficiarne allo stesso modo: i soggetti che soffrono di diabete, infatti, rispondono meno a questo tipo di trattamenti. In questa categoria il rischio di progressione del tumore aumenta del 20% rispetto ai pazienti oncologici non diabetici.
A dimostrarlo è uno studio, coordinato dall’Imperial College di Londra e dalla Fondazione Policlinico Universitario Campus BIo-Medico di Roma, che ha coinvolto circa 1.400 persone affette da tumori solidi avanzati e trattati con farmaci immunoncologici in 21 centri. I risultati della ricerca, pubblicata su Clinical Cancer Research, sono illustrati nel convegno ‘Cancer research: from Orlando to Palermo -news from AACR Annual Meeting’ organizzato dall‘Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) a Palermo.
“In passato alcune ricerche avevano evidenziato il cosiddetto paradosso dell’obesità, perché sembrava che il fatto di essere in sovrappeso potesse favorire l’efficacia delle terapie che stimolano il sistema immunitario contro le cellule cancerose – afferma Saverio Cinieri, presidente Aiom. Questo studio, per la prima volta al mondo, evidenzia come i pazienti diabetici, che sono spesso in sovrappeso o obesi, rappresentino invece un sottogruppo che beneficia meno dei trattamenti immunoncologici, con una sopravvivenza ridotta. L’obesità può includere diverse condizioni specifiche, tra cui rientra il diabete. Lo studio ha evidenziato che il microambiente tumorale delle persone diabetiche presenta caratteristiche di maggiore esaurimento immunitario e immunodepressione”.
Per il 2022 sono state stimate in Italia oltre 390.000 nuove diagnosi di cancro. Un dato in costante aumento. Uno dei fattori di maggior rischio è il peso in eccesso: il 33% dei cittadini si trova in sovrappeso e il 10% è obeso. “Secondo le stime del World Cancer Research Fund, circa un quinto dei casi è attribuibile a un bilancio energetico troppo ricco – prosegue ancora Cinieri. Il grasso è un deposito naturale di sostanze che favoriscono l’infiammazione sistemica e produce ormoni, come gli estrogeni. Questi ultimi sono coinvolti in vari tipi di neoplasie”.
“Ricerche scientifiche hanno collegato obesità e sovrappeso a ben 13 diversi tipi di tumore – spiega l’esperto. Inoltre, diversi studi hanno esaminato le possibili relazioni genetiche tra obesità, cancro e sindrome metabolica. Il tessuto adiposo è composto non solo da cellule grasse ma anche da cellule del sistema immunitario che permettono che si bruci al momento giusto la nostra energia. Negli individui in sovrappeso o obesi, queste cellule sono disorientate e inviano i messaggi sbagliati all’organismo. Da qui il maggior rischio di sviluppare il cancro. È importante che tutti i cittadini siano sensibilizzati sull’importanza di adottare stili di vita sani, con una dieta corretta e attività fisica costante”.
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Un team di ricercatori della Georgetown University di Washington si è concentrato su determinati cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali di alcuni pazienti, scoprendo inedite informazioni
I casi di cancro al colon sono sempre più in aumento negli ultimi anni, soprattutto nelle fasce più giovali della popolazione. Per questo motivo, un gruppo di esperti della Georgetown University di Washington ha deciso di indagare a fondo la questione, concentrandosi sui cambiamenti in atto nei microbiomi intestinali dei giovani. Dalle analisi è emerso che nei tumori dei pazienti più giovani si trovava spesso il fungo Cladosporium sp., in percentuale significativamente maggiore rispetto ai pazienti più anziani. Il fungo non è un ospite abituale dell’intestino umano. In sua presenza si verificano difficoltà digestive oltre a poter causare infezioni della pelle e delle unghie.
Benjamin Weinberg, esperto di cancro gastrointestinale e co-autore della ricerca, spiega: “Molte persone anno la colpa a obesità e diabete. Ma abbiamo questi pazienti sani e giovani che hanno un cancro colorettale molto avanzato”. Il team americano ha esaminato campioni di tessuto di 63 pazienti con meno di 45 anni o con più di 65, controllando il Dna dei microrganismi nei tumori per cercare eventuali differenze a livello di microbioma intestinale. È emersa così la presenza diffusa del fungo Cladosporium sp. fra i più giovani. Per quanto riguarda i batteri, invece, non sono emerse differenze particolari.
L’ipotesi dei ricercatori è che il fungo possa causare un danno al Dna cellulare e propiziare così la mutazione delle cellule da sane a cancerose. La teoria più diffusa e accettata nel mondo scientifico finora è quella dello stile di vita alterato, con consumo di alcol, poca attività fisica e alimentazione squilibrata. Un fenomeno che certamente ha contribuito all’aumento dei casi di cancro, ma che non spiega il fatto che per alcuni tipi di cancro si sia registrata invece una diminuzione nel tempo. La ricerca americana mostra quindi la possibilità di un altro fattore che non era stato preso in considerazione e che invece potrebbe aver contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’incidenza dei tumori, e di quello del colon in particolare.
Si riuscirebbe addirittura ad avere tre anni di vantaggio sulla malattia. A parlarne è un nuovo studio pubblicato su Nature Medicine
Tre anni di vantaggio sul tumore del pancreas, un traguardo cui ambirebbero tanti medici e pazienti. Il tutto potrebbe essere garantito al più presto dall’Intelligenza Artificiale. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature Medicine’.
Secondo i dati più recenti, nel 2022 sono stati stimati 14.500 nuovi casi in Italia. Il tasso di mortalità non si è modificato in modo significativo negli ultimi anni e quello del pancreas si attesta come il tumore con la minor sopravvivenza sia a un anno dalla diagnosi (34 per cento nell’uomo e 37,4 per cento nella donna) che a cinque anni (11 per cento nell’uomo e 12 per cento nella donna). Il tumore del pancreas viene diagnosticato precocemente soltanto nel 12% dei casi. In questa fascia fortunata di pazienti si registra un’aspettativa di vita a 5 anni del 44%. Al contrario, quando la diagnosi arriva tardi, cioè quando il tumore è già in fase di metastatizzazione, la percentuale di sopravvivenza a 5 anni cala drasticamente al 10%. È insomma facile rendersi conto quanto sia importante una diagnosi precoce.
Nello studio pubblicato su Nature Medicine i ricercatori sottolineano che in assenza di un segnale chiaro che indichi un rischio elevato nessun medico può prescrivere esami approfonditi come la tomografia computerizzata o la risonanza magnetica. Per questo, gli scienziati hanno tentato di utilizzare l’Intelligenza Artificiale servendosi di 9 milioni di cartelle cliniche provenienti da Danimarca e Stati uniti. I ricercatori hanno individuato così alcuni modelli che hanno suggerito un aumento del rischio di cancro al pancreas nei 3 anni successivi.
Fra i parametri considerati ci sono diabete, ittero, calcolosi biliare, anemia, alti livelli di colesterolo, altre malattie del pancreas, obesità, perdita di peso, malattia infiammatoria intestinale e cancro del colon. “Con un metodo accurato di previsione è possibile indirizzare i pazienti ad alto rischio verso appropriati programmi di sorveglianza” – affermano i ricercatori.
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Se i dati venissero confermati, sarà possibile identificare le mutazioni responsabili del Dna tumorale e indirizzare quindi le pazienti verso trattamenti alternativi
Nuovo studio italiano si è concentrato sulla combinazione di due biomarcatori per ottenere informazioni sul cancro al seno. In particolare lo studio BioltaLEE, diretto da Michelino De Laurentiis, ha analizzato pazienti con tumore della mammella avanzato o metastatico positivo per i recettori ormonali e negativo per il recettore 2 del fattore umano di crescita epidermica (HR+/HER2-).
Il gruppo di esperti ha trattato le pazienti in prima linea con ribociclib, inibitore di CDK4/6, in combinazione con letrozolo (terapia ormonale). Lo scopo della ricerca è studiare biomarcatori che possano, dopo solo 15 giorni, aiutare a comprendere l’andamento delle cure. Per biomarcatori si intendono caratteristiche del tumore che consentano di identificare i pazienti che rispondono o meno a un determinato trattamento. Allo studio hanno partecipato 287 pazienti di 47 strutture sanitarie italiane.
Le parole dell’esperto
“Il trattamento standard dei tumori mammari positivi per i recettori ormonali è la combinazione di un inibitore di cicline con il trattamento ormonale – spiega De Laurentiis, Direttore del Dipartimento di Oncologia Senologica e Toraco-Polmonare dell’Istituto Nazionale Tumori G. Pascale di Napoli. Ribociclib è l’unico farmaco della classe degli inibitori CDK4/6 in grado di vantare una totale coerenza e solidità di risultati. Ha infatti dimostrato un vantaggio in sopravvivenza globale in donne in pre/peri e post menopausa e con diverse combinazioni ormonali. I dati di BioltaLEE non sono ancora definitivi, ma vanno nella direzione della conferma dell’efficacia già dimostrata nello studio MONALEESA-2, con metà delle pazienti vive oltre 5 anni. BioltaLEE per la prima volta al mondo ha considerato la combinazione di due biomarcatori, misurati con prelievi del sangue, cioè con biopsia liquida”.
I due nuovi biomarcatori rappresentano un’opzione migliore della TAC per il monitoraggio dell’andamento della cura. Se i dati venissero confermati, allora si potrebbero identificare le mutazioni responsabili del DNA tumorale e indirizzare quindi le pazienti verso trattamenti alternativi. Si tratterebbe dunque di una vera svolta per la cura di determinate forme di cancro al seno.