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Non è vero che i vaccini anti Covid hanno aumentato malattie cardiache

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Lo dimostra uno studio italiano, pubblicato sulla rivista ‘Vaccines’, che per diciotto mesi ha seguito i dati sanitari di un grande quantitativo di persone

I vaccini contro il Covid non hanno causato un aumento di rischio di eventi avversi come infarti, ictus, arresti cardiaci, miocarditi, pericarditi e trombosi venose profonde. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla rivista ‘Vaccines’, coordinato dal professor Lamberto Manzoli, dell’Università di Bologna. La ricerca ha seguito per 18 mesi l’intera popolazione della provincia di Pescara, raccogliendo i dati sanitari. È emerso che nessuna patologia è risultata più frequente tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. Al momento, lo studio è l’unico al mondo che ha seguito un importante contesto di popolazione per oltre un anno.

Il lavoro, condotto dal Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell’Ateneo bolognese, in collaborazione con l’Università di Ferrara e l’Asl di Pescara, ha raccolto i dati sanitari dei residenti nella provincia abruzzese. Ha quindi analizzato la frequenza di alcune malattie gravi cardiovascolari e polmonari. Il tutto tenendo in considerazione numerosi fattori come l’età, il sesso e il rischio clinico dei partecipanti. “I risultati che abbiamo ottenuto – ha dichiarato il professor Manzoli – mostrano in modo netto che tra i vaccinati non c’è stato un aumento di rischio di malattie gravi. Vi sono stati casi isolati negativi, ma il profilo di sicurezza dei vaccini utilizzati durante la pandemia è stato confermato. Sarà ora importante continuare il follow-up su un periodo più lungo”.

Ulteriori dati rilevanti

L’analisi ha inoltre confermato che le persone vaccinate e che hanno contratto il Covid sono più protette contro il Coronavirus rispetto a chi è guarito senza essersi vaccinato. Una maggiore incidenza delle patologie considerate è invece emersa tra chi non ha contratto il virus e ha solo una o due dosi di vaccino, rispetto a chi ne ha tre o più. “Questo dato continuativo – ha proseguito Manzoli – è dovuto a un bias epidemiologico causato dalle restrizioni attuate durante l’emergenza. Ovvero che l’83,2% delle persone vaccinate che non ha contratto il Covid ha ricevuto almeno tre dosi di vaccino. Chi invece non ha completato il ciclo vaccinale è stato probabilmente scoraggiato dall’insorgenza della malattia”.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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La semaglutide si dimostra efficace anche per il diabete di tipo 1

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Secondo gli autori dello studio clinico potrebbe trattarsi del cambiamento più significativo nel trattamento del diabete di tipo 1 dalla scoperta dell’insulina a oggi

Semaglutide efficace anche nel trattamento del diabete di tipo 1. È quello che emerge da un recente studio condotto presso la divisione di endocrinologia, diabete e malattie del metabolismo dell’Università di Buffalo (Stati Uniti) tra il 2020 e il 2022. La ricerca si è concentrata su pazienti giovani, con età compresa tra i 21 e i 39 mesi, i quali avevano ricevuto la diagnosi di diabete non più di sei mesi prima. Per valutare l’efficacia di semaglutide, gli autori dello studio hanno inizialmente somministrato una bassa dose del farmaco in associazione con l’insulina. Successivamente hanno ridotto gradualmente l’uso dell’insulina sintetica e aumentando quello del farmaco (agonista recettoriale del Glp-1). I risultati sono visibili sul New England Journal of Medicine. 

I pazienti sono stati trattati dapprima con una bassa dose di semaglutide mentre assumevano anche insulina durante i pasti (bolo) e insulina basale (di base). Man mano che lo studio proseguiva I ricercatori hanno aumentato il dosaggio di semaglutide; contemporaneamente hanno ridotto quello di insulina per evitare l’ipoglicemia. Nell’arco di tre mesi siamo riusciti a eliminare tutta la somministrazione del bolo di insulina al momento dei pasti – spiega l’endocrinologo Paresh Dandona, coordinatore dello studio. Raddoppiando il tempo, poi, siamo riusciti a eliminare anche la somministrazione basale di insulina”. I risultati sono stati confermati fino a 12 mesi, termine del follow-up riportato nella ricerca, con valori di emoglobina glicata assestatisi sotto il 6%. Presto ci sarà uno studio con numeri e follow-up più ampi per confermare i dati preliminari.

Grande fervore, ma bisogna attendere conferme maggiori

“Potremmo essere di fronte al cambiamento più significativo nel trattamento del diabete di tipo 1 dalla scoperta dell’insulina a oggi – ha dichiarato Dandona. Si tratta comunque di dati preliminari, come precisato dagli stessi autori: “occorrerà portare avanti uno studio più ampio e con un periodo di osservazione più lungo – si legge nell’estratto. 

Se le prime evidenze dovessero essere confermate, però, l’ipotesi che le cellule beta del pancreas siano in realtà in grado di secernere insulina anche nei diabetici di tipo 1 assumerebbe maggiore consistenza. Questo tanto più nelle prime fasi della malattia. Da qui la possibilità che semaglutide, che agisce proprio stimolando la secrezione ormonale, possa in parte se non del tutto sostituire la somministrazione dell’insulina durante i pasti. Anche in questo caso la somministrazione di semaglutide ha concorso a determinare una riduzione dell’appetito e una graduale perdita di peso. Un risultato che è stato considerato utile dagli specialisti. “Il 50 per cento dei diabetici di tipo 1 negli Usa è in sovrappeso, se non proprio obeso” – è la spiegazione fornita da Dandona. L’esperto tiene alta l’attenzione su semaglutide come farmaco dimagrante, in grado di determinare risultati sovrapponibili a quelli della chirurgia bariatrica.


Per un maggiore approfondimento clicca qui.

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Il cervello influenza l’obesità: la rivelazione di un nuovo studio

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Secondo una nuova ricerca statunitense l’obesità sarebbe causata anche da una serie di connessioni cerebrali danneggiate

L’obesità sarebbe causata anche da connessioni cerebrali danneggiate fra la memoria e i circuiti cerebrali che regolano l’appetito. È questa la rivelazione di uno studio pubblicato su Nature in base al quale la compromissione dei meccanismi è direttamente proporzionale all’indice di massa corporea. Nello specifico, gli obesi avrebbero connessioni compromesse fra l’ippocampo dorsolaterale e l’ipotalamo laterale che influirebbero sulla capacità di controllare o regolare le risposte emotive rispetto all’assunzione di pasti gratificanti.

Ad elaborare lo studio, i ricercatori della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania che spiegano: “Questi risultati sottolineano che il cervello di alcuni individui può essere fondamentalmente diverso in regioni che aumentano il rischio di obesità. Condizioni come disordini alimentari e obesità – ricordano gli esperti – sono molto più complicate della semplice gestione dell’autocontrollo e di un’alimentazione più sana. Per queste persone non basta avere una forza di volontà più forte, ma – spiegano gli autori dello studio – l’equivalente terapeutico di un elettricista in grado di riparare queste connessioni all’interno del loro cervello”.

L’ippocampo dorsolaterale si trova nella regione del cervello che elabora la memoria, mentre l’ipotalamo laterale in quella responsabile di mantenere il corpo in uno stato stabile, chiamato omeostasi. Gli esperti hanno valutato L’attività cerebrale dei volontari nella fase in cui prevedevano di ricevere e poi quando ricevevano un frappè al cioccolato. Hanno così scoperto che sia l’ippocampo dorsolaterale che l’ipotalamo laterale si attivavano simultaneamente quando ai partecipanti veniva anticipato che avrebbero avuto un pasto gratificante.

Nei soggetti obesi, i ricercatori hanno scoperto che la compromissione di questo circuito ipotalamo-ippocampo era direttamente proporzionale al loro indice di massa corporea. Nei partecipanti con Bmi elevato, infatti, la connessione risultava più disturbata della media. Gli scienziati hanno utilizzato la tecnica denominata Brain clearing, che ha rivelato l’azione dell’ormone Mch (melanin concentrating hormone), un mediatore che amplifica l’azione centrale, attraverso l’ipotalamo, e periferica della leptina, regolando così il comportamento alimentare. L’ormone era presente nell’ippocampo dorsolaterale e da nessun’altra parte, confermando un collegamento tra le due regioni.

Di seguito il messaggio finale degli autori della scoperta“L’ippocampo non è mai stato studiato per il trattamento dell’obesità o i disturbi dell’alimentazione che possono causare l’obesità. Speriamo di essere in grado di utilizzare questa ricerca sia per identificare quali individui potrebbero sviluppare obesità più avanti nella vita, sia per sviluppare nuove terapie per aiutare a migliorare la funzione di questo circuito critico che sembra malfunzionante o addirittura interrotto nei pazienti obesi”.

Clicca qui per leggere i risultati originali dello studio. 

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Il fenomeno delle radiazioni: ecco come danneggiano il Dna

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Un recente studio condotto dall’Università di Trento ha chiarito, tramite simulazioni, come le radiazioni possano influire sul DNA e come questo impatto possa contribuire all’insorgenza del cancro

Noi non ne siamo consapevoli, ma siamo esposti alle radiazioni ionizzanti più frequentemente di quanto possiamo immaginare. Queste radiazioni sono presenti quando ci esponiamo al sole o quando ci sottoponiamo a esami diagnostici basati sui raggi X. Persino durante un volo su un aereo di linea intercontinentale, che raggiunge altitudini di oltre 10.000 metri, siamo soggetti a questo tipo di radiazioni. Questa forma di radiazione costituisce un potenziale rischio per il nostro DNA, in quanto ha la capacità di provocare danni, alterazioni o addirittura rottura della sua struttura, aumentando così il rischio di sviluppare tumori.

Recentemente, ricercatori del Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento hanno rivelato, tramite simulazioni, il legame tra l’impatto delle radiazioni sul DNA e il momento in cui la molecola subisce danni irreversibili. Questa scoperta apre nuove prospettive nel campo delle terapie contro il cancro, aprendo la strada a potenziali trattamenti basati sulla comprensione di come le radiazioni danneggino il DNA e sulla possibilità di intervenire in modo mirato per prevenire o trattare il cancro.

Lo studio nel dettaglio

Il gruppo di studiosi formato da Manuel Micheloni, Lorenzo Petrolli, Gianluca Lattanzi, e guidato da Raffaello Potestio ha infatti calcolato il tempo medio tra l’irraggiamento ionizzante e la rottura del filamento. E ha scoperto che più aumenta la distanza tra le zone danneggiate del Dna, più a lungo la struttura resta unita. Di conseguenza aumenta il tempo a disposizione della cellula per ripararla. I ricercatori hanno creato al computer, come in una sorta di videogame, una sequenza di Dna a doppio filamento. Dopo che questa è stata colpita dalla radiazione, ne hanno osservato il comportamento. Uno degli effetti più pericolosi è la rottura del Dna conosciuta come double-strand break ovvero l’interruzione della continuità strutturale e chimica dello scheletro del Dna nei due filamenti complementari.

Questo tipo di lesioni può scatenare conseguenze dannose a livello cellulare. Gli studiosi hanno capito che la rottura non avviene subito e il tempo che impiega la catena a separarsi cresce in modo esponenziale con la distanza tra i tagli nel Dna. Gli autori del lavoro sono riusciti a ricostruire la legge del tempo medio di rottura con la distanza tra i tagli. “Questa informazione è cruciale – sottolinea Raffaello Potestio – perché verosimilmente impatta sull’efficacia dei processi di riparo del Dna”. La cellula possiede un complesso sistema enzimatico di controllo e ‘manutenzione’ del Dna, che si innesca quando riceve segnali di lesione. Questo meccanismo, tuttavia, non scatta immediatamente dopo il danno, e un ritardo in questa operazione può ripercuotersi sul normale funzionamento della cellula stessa.

La modifica della sequenza può non essere impattante se avviene tramite una o più mutazioni sinonime, che danno luogo alla sintesi della stessa proteina. Se però si verificano modifiche sostanziali nella sequenza di Dna o errori nella procedura di riparo, nella migliore delle ipotesi la cellula si suicida (tecnicamente “va in apoptosi”), perché si rende conto che la sequenza è errata o danneggiata in maniera irreparabile. Nella peggiore delle ipotesi, invece, la cellula ricostituisce l’integrità della catena di Dna ma accumulando mutazioni o alterazioni della sequenza nucleotidica che potrebbero dare luogo a un comportamento disfunzionale, che produce modifiche genetiche, mutazioni cromosomiche o l’insorgenza di tumore.

I possibili risvolti

Gli esperti ritengono che questa ricerca abbia un’importanza potenzialmente significativa nel campo radiobiologico e costituisca un passo iniziale verso futuri sviluppi nell’ambito medico, sia in termini terapeutici che preventivi. Un aspetto distintivo di questo studio risiede nell’utilizzo di metodi di simulazione numerica, che potrebbero essere successivamente riprodotti attraverso esperimenti pratici. La transizione dall’ambito computazionale all’applicazione pratica in laboratorio rappresenta uno degli obiettivi chiave dei ricercatori.

Comprendere le dinamiche scaturite dall’interazione tra le radiazioni e il DNA apre la prospettiva, a lungo termine, di sviluppare nuove tecniche di intervento con la radioterapia, sempre più precise e mirate. Ciò potrebbe consentire un notevole progresso nel trattamento dei pazienti affetti da diverse patologie, con l’obiettivo di massimizzare l’efficacia terapeutica e minimizzare gli effetti collaterali.

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