L’ipotesi prende origine da uno studio condotto dai ricercatori dell’University of Minnesota e pubblicato sulla rivista dell’Accademia nazionale delle scienze statunitense (Pnas)
La variante Omicron potrebbe avere avuto origine nei topi. Detto in questo modo potrebbe sembrare ‘fantascienza’ ma in realtà, si tratterebbe di qualcosa di concreto. A sostenere ciò, uno studio condotto dai ricercatori dell’University of Minnesota e pubblicato sulla rivista dell’Accademia nazionale delle scienze statunitense (Pnas). La nota variante fu identificata a novembre del 2021 generando successivamente una serie di sottovarianti, diventando in pochi mesi dominante in tutto il mondo. Omicron ha attirato fin da subito su di sé l’attenzione dei ricercatori a causa dell’elevato numero di mutazioni che contraddistingue il suo genoma rispetto alle varianti precedenti. Tale caratteristica le conferisce infatti un’elevata contagiosità e capacità di evadere la risposta immunitaria.
Gli autori della ricerca hanno cercato di ricostruire la possibile origine della variante studiando la corrispondenza tra la struttura di una porzione della proteina Spike di Omicron (il cosiddetto receptor-binding domain o RBD) con quella dei recettori ACE sia umani sia di topo. Le due componenti, quella del virus e quella dell’ospite, agiscono come un meccanismo chiave-serratura. Studiarne la complementarietà è “tra i migliori sistemi per capire l’evoluzione del coronavirus” – scrivono i ricercatori.
I dettagli dello studio
Il team si è concentrato in particolare su 4 mutazioni tipiche di Omicron. Da qui ha scoperto che una di esse, denoniminata N501Y è il risultato del’adattamento alla struttura del recettore ACE sia umano sia topo. Le altre tre, Q493R, Q498R e Y505H, sono invece il frutto dell’adattamento solo nel topo. È da questi dati che deriva l’ipotesi più probabile sull’origine di Omicron, secondo i ricercatori: “una variante di Sars-Cov-2 contenente la mutazione N501Y potrebbe essere stata trasmessa da una specie umana (o da una altra specie animale) ai topi”.
Successivamente la nuova variante, seguendo gli studi dei ricercatori in questione, si sarebbe diffusa nei roditori dove “si sono evolute mutazioni di RBM specifiche del topo (come Q493R, Q498R e Y505N)”. Infine, dai topi, la variante sarebbe tornata all’uomo, diventando in meno di un anno la responsabile della quasi totalità dei casi di Covid-19 nel mondo. Ovviamente è ancora presto per definire con certezza se tale studio possa essere considerato totalmente veritiero. Sta di fatto però che le premesse ci sono e, se dovessero esserci conferme future, si tratterebbe di uno dei studi più importanti in merito al Covid.
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Torna a preoccupare il Covid con la nuova variante EG.5, denominata Eris, che si sta diffondendo rapidamente a livello globale e con numeri in crescita anche in Italia
Torna a destare preoccupazione il Covid con l’emergere della nuova variante EG.5, conosciuta con il nome di Eris. Eris si sta infatti diffondendo rapidamente in tutto il mondo, con crescenti casi anche in Italia. Ad analizzare la situazione sulla nuova variante Covid è stato un recente lavoro del gruppo di studio dell‘Università dell’Insubria coordinato dal professor Fabio Angeli. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista ‘European Journal of Internal Medicine’.
Dopo che, il 9 agosto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato la variante EG.5 del SARS-CoV-2 come una nuova variante ‘di interesse’, i ricercatori hanno condotto un’analisi approfondita per comprendere le modifiche avvenute in questa variante e valutare il suo possibile contributo all’aumento dei casi di infezione, dei ricoveri ospedalieri e del tasso di mortalità osservati nelle ultime settimane a livello mondiale.
Lo studio condotto dall’Università dell’Insubria ha focalizzato la sua attenzione su una specifica mutazione (F456L) verificatasi nella proteina Spike del virus. Questa mutazione sembra conferire alla variante EG.5 una maggiore capacità di evadere le difese del sistema immunitario, sia quelle generate da infezioni precedenti che da vaccinazioni. In particolare, gli autori dello studio hanno dimostrato che questa nuova mutazione consente a EG.5 di mantenere le stesse caratteristiche funzionali e di trasmissione delle precedenti varianti di Omicron che hanno dominato la situazione pandemica negli ultimi mesi.
“La maggiore resistenza agli anticorpi e la inalterata capacità trasmissiva e di legame alle nostre cellule della variante EG.5 rispetto alle precedenti e temute varianti Omicron – commenta Fabio Angeli – spiegherebbe l’aumento degli indicatori(numero di casi positivi, tasso di occupazione dei letti di terapia intensiva, decessi e tasso di positività ai tamponi – N.d.R.) anche nel nostro Paese (+43,4% i casi positivi, +44,6% i decessi nell’ultima settimana, rispetto la precedente – N.d.R.). I risultati spiegano anche perché questa variante sta diventando dominantee fanno affievolire le speranze che le nuove varianti, Eris inclusa, possano diventare col tempo meno diffusive”.
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Un nuovo lavoro dell’University of California-San Francisco svela il perché in alcune persone l’infezione da Sars-CoV-2 non causa alcun sintomo
Per tempo si è chiesti come mai alcuni soggetti non presentassero manco un minimo sintomo nonostante l’infezione da Covid-19. I cosiddetti asintomatici sono stati infatti al centro di studi, ricerche e dibattiti con il tentativo di capire il perché di questa loro peculiarità. Ora però, un gruppo di ricercatori coordinati dall’University of California-San Francisco ritiene di aver svelato questo punto enigmatico: cosa fa sì che in alcune persone l’infezione non dia alcun sintomo.
I ricercatori, in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Nature’, hanno scoperto che le persone asintomatiche sono portatrici di una particolare variante genetica. Tale variante aiuterebbe il loro sistema immunitario a riconoscere e a contrastare tempestivamente il virus. Tale caratteristica non impedisce loro di essere infettate, ma le protegge dalle manifestazioni da Covid. “Se hai un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha affermato la coordinatrice dello studio, Jill Hollenbach. È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.
Il lavoro si è concentrato nello specifico sul sistema di etichettatura che l’organismo usa per distinguere le componenti proprie da quelle estranee: stiamo parlando del cosiddetto Hla (antigeni umani leucocitari). I ricercatori hanno scoperto che circa il 20% delle persone asintomatiche presentavano una mutazione in uno dei geni Hla (mutazione denominata Hla-B*15:01) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. Inoltre, se la mutazione era presente in duplice copia, le probabilità di sfuggire ai sintomi della malattia erano otto volte più alte. Ora, come già affermato dai ricercatori, seguiranno nuovi studi per confermare il tutto.
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Una persona su tre presenta sintomi del virus dopo due anni dall’infezione. Uno studio tutto italiano fa luce sulla questione
Più del 33% dei pazienti che si sono infettati durante la prima ondata della pandemia presenta ancora sintomi di long-Covid, nonostante siano trascorsi oltre due anni dall’infezione. È questo il dato che emerge da uno studio condotto dall’Università degli studi dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ‘Open Forum Infectious Diseases’.
Il lavoro ha coinvolto 230 pazienti seguiti al Presidio Universitario Ospedaliero di Udine e che avevano contratto Covid-19 tra marzo e maggio 2020. I pazienti sono dunque stati contattati a intervalli regolari fino a novembre 2022 per una verifica sulla presenza di sintomi post-Covid. Il 36,1% aveva ancora sintomi all’ultima rilevazione e la metà di essi soffriva di almeno tre problemi correlati a Covid. Tra questi, i più comuni erano fatigue e problemi reumatologici, presenti nel 14,4% dei pazienti. Nel 9,6% dei casi sono invece l’ansia e la depressione a farla da padrone.
I ricercatori hanno esaminato, inoltre, gli effetti della vaccinazione. A quanto pare i vaccini anti-Covid 19 non hanno portato nessun miglioramento per questa categoria di pazienti e dunque nessun effetto benefico in tal senso. È inoltre risultato che le donne presentano un rischio più che doppio rispetto agli uomini di soffrire di Long Covid così come di avere un numero maggiore di sintomi. Ancora più alto il rischio stimato tra chi soffre di malattie croniche ed in genere per chi è considerato come un soggetto fragile.
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